Gli insegnanti, abitanti un purgatorio irredimibile, si muovono da sempre, nell’Italia unita, sotto la soma di giudizi pesanti. Meglio tralasciare, a mano a mano che ci si avvicina ai nostri giorni, l’atteggiamento critico tenuto nei confronti degli insegnanti da non pochi genitori, sempre più pregiudiziale, sempre più umorale, sempre più tribale nella difesa familistica dei figli. Figli, cioè cuori di mamma e pupille degli occhi di papà, quando sono in classe, vittime di insegnanti incapaci e vendicativi che nel 72% dei casi, alle superiori, gli appioppano un’insufficienza agli scrutini intermedi (nel 2009; l’anno scorso la percentuale è stata del 70,3). C’è poi qualcosa di più e di diverso di un luogo comune, nel carico della soma: il frutto contraddittorio, sul piano della chiarezza dei contenuti didattici, dei piani formativi, degli strumenti di valutazione, dell’incessante e spesso poco coesa, talvolta non coerente, attività di intervento sull’istituzione scolastica da parte dei ministri che si sono, numerosi e diversamente intenzionati, succeduti a viale Trastevere. Dietro, un’idea non chiara dell’istruzione e della ricerca come risorse di civiltà di sviluppo, testimoniata dalle quote di Pil impegnate dai governi nel secondo dopoguerra e dal trattamento economico frustrante riservato al corpo docente.

Tornando alla figura dell’insegnante, cruciale appare poi, anche nella letteratura critica in materia, il ruolo svolto dal Sessantotto, inteso spesso come lo zenit di un moto vorticoso verso la democratizzazione, sì, ma anche come il nadir di una discesa verso la massificazione e l’abbassamento qualitativo della scuola; moto che, nell’immediato, avrebbe prodotto una leva di docenti permissivi e poco preparati, mentre, in prospettiva, avrebbe determinato il prolasso culturale e formativo dell’istituzione scolastica, riverberatosi dai piani alti dei meccanismi di controllo e selezione del personale docente fino alle griglie di valutazione dei compiti in classe d’italiano, i famosi “temi”.

Apocalissi 1957

Che sia necessario però andare a toccare con mano la misura di realtà contenuta in questo quadro appena sbozzato è confermato anche dalla tendenza acronica – e perciò in qualche modo sospetta – a prendersela sempre e comunque con gli insegnanti come principali responsabili delle condizioni critiche della scuola pubblica. Basti sfogliare qualche pagina del pamphlet di A. Ev. Breccia Gli insegnanti bocciati (ed. Nistri-Lischi, Pisa). Già nel 1957, quando i sessantottini andavano alle elementari in fiocco e grembiule e alle medie imparavano ancora a tradurre dall’italiano al latino e a mandare a memoria centinaia di versi, le lamentele sulla qualità degli elaborati prodotti dagli aspiranti docenti, presentatisi a concorso (in questo caso, per 118 cattedre di italiano, storia e geografia nelle scuole superiori di avviamento professionale), erano di questa fatta: «Né può dirsi che la forma abbia sempre mantenuto il debito decoro, essendo stata in non pochi elaborati grossolana ed elementare, impropria e sciatta, malferma nella struttura del periodo e viziata talvolta da inesattezze grammaticali e lessicali. Nella prova orale, la preparazione è apparsa generalmente discorsiva, diseguale, lacunosa, con particolare tendenza alla conoscenza superficiale e sommaria delle nozioni».

Scritti sui banchi

Ma oggi? Cupa nel ’57, la visione sarà apocalittica nel 2009? Oggi i docenti delle superiori saranno tanto incolti da condannare i discepoli all’unica risorsa dell’intuizionismo analogico tipico dei sentieri espressivi e comunicativi della civiltà ipermediale? La risposta è no, e contiene luci e ombre, esprime elementi di forte criticità ma anche di speranza fondata e apre a importanti considerazioni sulla prassi dell’attività dei docenti di italiano. Per convincersi che la risposta non deve essere catastrofista, ma articolata e costruttiva, bisogna leggere (specialisti e non specialisti, docenti e genitori) lo studio Scritti sui banchi. L’italiano a scuola tra alunni e insegnanti (Carocci, Roma 2009), scritto da «due insegnanti» (come si presentano senza falsa modestia) «nella scuola superiore (Giuseppe Benedetti) e nell’università (Luca Serianni)», che si sono proposti di «sondare l’italiano dei compiti in classe, così come viene normato dai docenti», analizzando con gli strumenti tecnici della linguistica una notevole quantità di elaborati corretti dagli insegnanti e provenienti da svariate prime classi delle superiori di ogni ordine di studio (licei, istituti tecnici e professionali), sparse per tutt’Italia. Pur non avendo valore statistico, il campione è ampio e consente agli autori di ricostruire i criteri di correzione agiti dagli insegnanti. La prospettiva assunta permette agli autori di tenere d’occhio l’italiano dei “temi” degli studenti (un tipo di realizzazione specializzata di italiano contemporaneo scritto) e, contemporaneamente, di passare al vaglio le correzioni dei docenti (espressione di quella «“norma sommersa”» [p. 65] che, attraverso il prestigio e l’attività sanzionatoria dell’insegnante, incide sulle competenze linguistiche degli studenti e agisce ben di là dal termine dell’iter degli studi). Il quadro che ne emerge è variegato, sia nei capitoli dovuti a Benedetti (1, 2, 9, 10), sia nei capitoli scritti da Serianni, quelli centrali, in cui lo storico della lingua affonda il bisturi dell’analisi sul testo stratificato dei compiti in classe corretti (3, 4, 5, 6, 7, 8).

Il “tema” e la valutazione

Gli elementi di preoccupazione derivanti da problemi di sistema sono bene espressi da Benedetti nei due primi capitoli di taglio storico sul “tema” nella storia della scuola italiana, dall’Unità a oggi, e sulla valutazione nelle prove scritte di ambito letterario. Nonostante gli ultimi quarant’anni abbiano messo a ferro e a fuoco l’idea e la concezione tradizionale del “tema” come espressione di artificiosa «falsità» rispetto alla realtà esterna (scuola contro vita reale), il quadro più articolato e aderente a modelli di scrittura e di lingua extrascolastici proposto dalle “prove d’italiano” d’esame di cui i docenti delle superiori dispongono oggi (anche come modelli per i compiti in classe, ovviamente), mercé le disposizioni ministeriali, si rivela un quadro contraddittorio: l’“articolo di giornale” e il “saggio breve” non sono ben definiti; il primo diventa un «refugium peccatorum», ridotto alla forma diaristica da giornalino scolastico, con perdita secca di specificità testuale e linguistica (e dunque scarsa efficacia formativa).

Per quanto riguarda la valutazione delle prove scritte d’italiano, una vasta e agguerrita manualistica esterna suggerisce a docenti ormai edotti di linguistica testuale e pragmatica griglie di valutazione complesse ma variabili. Altra cosa è il salutare superamento «del “mito” dell’“oggettività” nell’attività della valutazione come sforzo in direzione della chiarezza e della condivisione di messaggi tra docente e discente» (p. 49). Non è lecito chiedere una presunta universalità di criteri di valutazione. Ai docenti, però, manca non un rigido e astratto disciplinare con pretese di esaustività prescrittiva, ma una necessaria serie di parametri oggettivi e condivisi per la correzione dei temi. Se responsabilità evidenti ricadono sulle commissioni scuola del parlamento, sugli uffici legislativi dei partiti, sui ministri addetti all’istruzione pubblica, incapaci di affrontare «la questione principale, la mancanza nell’organizzazione del suo [del docente, ndr] lavoro di un tempo e di uno spazio preordinati in cui studiare i modi per arrivare ad un sistema coerente» (p. 50), che cosa si può imputare ai docenti? «Ciò che si desidera ottenere, le attese di docenti e studenti, non è mai stato oggetto di riflessione e studio nel corpo docente in modo sistematico, per cui le modifiche del sistema scolastico piovono come macigni che una forza lontana e misteriosa mette in movimento» (p. 50).

In corpore vili

Serianni è un docente universitario titolare di cattedra, storico della lingua, Accademico della Crusca e dei Lincei, direttore di una di quelle riviste, «Studi linguistici italiani», indispensabile per gli studiosi della materia. Quanto ha scritto in questo libro a quattro mani testimonia e conferma, talora in filigrana, talaltra esplicitamente, qualcosa che potrebbe forse sfuggire a chi non conosce il senso del percorso professionale e di vita di Serianni: l’essere e il giustificarsi come studioso proprio in quanto didatta; meglio ancora, e in definitiva, in qualità di cittadino italiano preoccupato che la propria attività specifica di docente abbia la ricaduta migliore sugli studenti, pensati come allievi di studi linguistici e di civiltà, cittadini di domani.

Con la stessa preoccupazione e attenzione, nei capitoli centrali del libro, Serianni guarda al lavoro, profondamente rispettato, dei propri colleghi. Egli sottopone il processo di valutazione cui sono a loro volta sottoposti gli elaborati (prodotti dagli studenti delle prime superiori tra il 2001 e il 2007), scomponendolo nelle varie fasi e procede a un vasto e capillare lavoro di esemplificazione, necessario per chi voglia, come lui, ricavare indicazioni di sintesi e, rivolgendosi ai docenti, avanzare nel merito critiche negative e apprezzamenti, elaborare proposte, cambi di indirizzo, nuove prospettive teorico-pratiche di intervento valutativo e correttorio.

L’esempio dei mondi diversi

Punteggiatura assente o mal realizzata, errori di ortografia, sintassi pronominale scorretta, sintassi del gerundio approssimativa, mancanza di esplicitazione del soggetto quando necessaria, travisamenti semantici, solidarietà lessicali implausibili, reggenze errate; e, crescendo di livello e gravità, frasi elementari slegate (con «“effetto pensierini”»), mancanza di gerarchizzazioni concettuali e logiche, mancanza di coerenza testuale, lesioni testuali... Gli studenti in difficoltà nel controllo della lingua e del pensiero descrittivo e, soprattutto, argomentativo, non sono pochi. Nel Nord quasi come nel Sud d’Italia, comunque svantaggiato. Ma il vero «iato» si allarga «tra alunni di liceo da una parte e istituti tecnici e professionali, dall’altra», anche nella stessa città, come se ci si trovasse di fronte a «realtà non comunicanti tra loro, e non a compiti di coetanei viventi nella stessa città (e omologati in molti stili di vita» (p. 69). Questo l’incipit del quarto capitolo, Mondi diversi, che seguiremo per poche significative pagine, utili a dare un esempio del modo di procedere costante dell’autore e dei fini che egli si ripropone di conseguire. Dunque, un inizio che illumina la scena di riferimento, dando conto di una sperequazione strutturale di abilità linguistica, e non soltanto linguistica, tra studenti collocati in istituti di diverso ordine di studi ed «evidentemente appartenenti a livelli socioculturali difformi». Sempre in questa cornice, si passa dagli studenti ai docenti. Si enuncia il risultato dell’analisi che lo studioso poi esemplificherà. Diversi gli studenti, diversi i docenti, vale a dire «diversa anche la ratio correttoria degli insegnanti: spesso esigente, e diciamo pure severa, quella dei docenti di liceo; tanto comprensiva da accontentarsi di prestazioni mediocri [...] quella dei docenti in istituti tecnici e professionali». Segue, a mo’ di commento, una considerazione tesa a interpretare l’atteggiamento “lassista”: l’atteggiamento pedagogico sarà motivato in molti insegnanti di tecnici e professionali dalla consapevolezza che «richiedere livelli troppo alti» «a ragazzi esposti al rischio d’abbandono scolastico, provenienti da famiglie disagiate e cresciuti in ambienti socialmente degradati» «significa spingere verso la definitiva emarginazione adolescenti già in partenza svantaggiati». Qui arriva però la prima indicazione didattica e “civile”: «d’altra parte, occorre pur sempre che la scuola garantisca un “sapere minimo” in fatto di lingua: senza raggiungere nemmeno questo obiettivo, la condanna all’emarginazione è già scritta».

Si passa poi all’analisi del testo, visto attraverso le correzioni dell’insegnante. Il testo, che viene integralmente riportato, incluse le correzioni, viene da un ITIS di una grande città campana. È un testo molto scarso (titolo della traccia: I miei compagni di classe; giudizio del docente: «Attento all’h!», voto 4 e mezzo). Serianni passa subito a occuparsi della correzione del docente, che viene valutata complessivamente adeguata. Ma l’analisi entra nel dettaglio, sviluppandosi per due pagine. Si sottolinea la lacunosità nell’intervento correttorio sull’interpunzione (diffusa tra i docenti di tutti gli ordini di scuola; e già nel capitolo precedente si era sottolineato come l’ortografia, in sé non tra le abilità linguistiche fondamentali, è però esposta a forte sanzione sociale, se scorretta, e quindi andrebbe seguita con attenzione puntuale nell’attività di correzione degli elaborati); ma, soprattutto, si segnala il mancato intervento quando, talvolta, viene leso il livello primario e profondo della coerenza testuale, perché qui è in gioco la capacità di costruzione logica dell’argomentazione. In generale, la pecca più insidiosa annidata nella ratio correttoria di questo compito sta nella mancata segnalazione (per esempio nel giudizio finale, che si riduce a una notazione specifica; sull’importanza di un giudizio efficace ci si diffonde nel centrale capitolo sesto, Come e cosa correggere?) del fatto che l’«elaborato fallisce non solo nel dominio dei mezzi espressivi, ma nella capacità di costruire un discorso che raggiunga un minimo di astrazione e di argomentazione» (p. 70). Finita l’analisi, ecco la riflessione che si condensa in una proposta: «Viene da chiedersi se in casi del genere – diciamo pure: alle soglie dell’analfabetismo funzionale – in certi corsi di studi non convenga limitarsi per l’intero primo anno di secondaria superiore ad esercizi elementari e preliminari, in particolare a quelli che in glottodidattica si chiamano test fattoriali o discreti, per educare singole competenze: dall’ortografia alla divisione delle parole, all’uso di coesivi e connettivi, alla costruzione di frasi subordinate [...] Solo superata questa fase, si potrà tentare la via del classico “tema”, che dovrebbe comunque essere guidato e instradato nella consegna lungo percorsi determinati» (p. 71).

La matita verde: si può migliorare?

Accanto a esempi di prassi correttorie più o meno carenti (nei casi meno gravi, per isolata e umanissima disattenzione, alcune volte per pigrizia, altre per imperizia), vengono segnalati e commentati numerosi esempi di griglie di valutazione ben strutturate, di giudizi esemplari (quelli «netti, in senso positivo o negativo, articolati e attenti a far emergere il confronto con le prove precedenti», p. 93) e giudizi apprezzabili («che si sforzano di cogliere aspetti positivi in un quadro complessivamente insoddisfacente») e di correzioni seriamente analitiche, purtroppo non diffusissime, a testimonianza di un certo scetticismo sulla possibilità di incidere sulle prestazioni dell’alunno. Il richiamo alla serietà (e alla severità, argomentata) di un puntuale intervento sanzionatorio, oltreché correttorio, si sposa con un’altra necessità, invocata da Serianni: a rinforzo e riprova dello spirito pedagogico che deve caratterizzare l’impegno di ogni docente, teso alla valorizzazione e allo sviluppo delle qualità presenti nell’alunno, anche quando questi dà prove mediocri di sé, v’è la proposta della matita verde: «Una buona correzione dovrebbe far emergere anche gli elementi positivi, ossia il contraltare rispetto ai tradizionali “errori”. Insomma, accanto al rosso e al blu, occorrerebbe prevedere il verde (che ho adottato nella mia personale prassi didattica: è il colore della speranza)» (p. 111), per dare, da una parte, consapevolezza agli alunni più bravi dei dati specifici di un giudizio complessivamente favorevole; dall’altra, per offrire un «salutare incoraggiamento» agli studenti mediocri, «combattendo la persuasione che i giochi siano già fatti».

La guida esperta e autorevole

Esistono docenti che credono nel loro lavoro, hanno spirito di servizio, mostrano dedizione alla prospettiva che gli alunni crescano e si formino, esercitano una funzione di guida autorevole? Che si impegnano in un lavoro rigoroso e intelligente di correzione sanzionatoria (matita rossa e blu), esplicativa e dialogante (matita verde)? Esistono. In particolare, Serianni ha incontrato, tra i fogli protocollo, un professore di liceo classico (Piemonte e Valle d’Aosta), «eccezionale – e ammirevole – [per] l’impegno». Dopo averne illustrato e misurato le prestazioni di correttore e valutatore che (p. 107) «interviene non solo sul dettato linguistico ma sul modo di impostare le argomentazioni, con osservazioni sempre puntuali ed espresse in una lingua di registro alto» (adatto perciò a studenti del liceo classico), ecco come Serianni conclude: «Un docente del genere incarna al meglio la funzione di modello linguistico e culturale che questa figura professionale può e deve svolgere per il suo uditorio, situandosi nettamente al di sopra dell’orizzonte degli alunni e proprio per questo assumendo nei loro confronti il ruolo di una guida esperta e autorevole, legittimata a sanzionare prove inadeguate» (p. 109). Si può lavorare, si può migliorare.

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