Paolo Paramucchi

È noto l'uso di ci con valore indeterminato in numerose espressioni idiomatiche in cui, spesso in combinazione con altri pronomi atoni, funziona da semplice «rinforzo semantico e fonico alle forme verbali» (Sabatini). Si pensi a ce lo disse, ce la portò ecc. In alcuni casi, poi, tipici del parlato, l'uso del ci è addirittura obbligatorio. A domande come «ce l'hai l'ombrello?», non si può che rispondere «sì» o «ce l'ho» (o, viceversa, «no», «non ce l'ho»).

Nel parlato informale, in molte parti d'Italia, si usa ci in frasi come «c(i) ho caldo», «c(i) hai sonno?», «c(i) avevamo fame», «c(i) hanno visto?». La norma non prevede che simili costrutti abbiano accoglienza nella lingua scritta, anche perché, come nota sempre Sabatini, sussiste la problematica questione di «rendere con la grafia normale la pronuncia palatale della c isolata, conservando per di più l'h grafica del verbo».

Va peraltro notato come la narrativa contemporanea, i fumetti (si pensi ad Andrea Pazienza) e le scritture giornalistiche più disinvolte e brillanti negli ultimi venti-trent'anni abbiano dato testimonianza, nella ricerca di una più verosimile imitazione o espressionistica resa dei tratti del parlato, di numerosi tentativi di ricalcare la pronuncia della catena fonica costituita da ci + parola cominciante con vocale (anche diversa da e e i e ben oltre il caso particolare delle forme verbali di avere con l'h iniziale): c'ho, c'hai, c'ha ma anche c'ho, c'avevamo e perfino ciò, ciai, cià, ciavevamo e simili sono forme rinvenibili in numerosi romanzi, racconti, fumetti, articoli di giornale. Ciò (che non è ci + ho...) non vuol dire che tali usi siano ammissibili o tanto meno consigliabili nella prosa sorvegliata e negli usi standard dello scritto.