Giuseppe Satta

Da sempre è complicato proporre e complicatissimo, poi, eventualmente, cercare di imporre ex lege l'adozione di questo o quel termine nella lingua d'uso comune. Tentativi possono essere fatti - e sono stati fatti recentemente - nel campo della lingua scritta, in particolare della lingua della pubblica amministrazione, al fine di rendere più comprensibili testi destinati a vasti strati della popolazione, proponendo una semplificazione del linguaggio di moduli e bollette, con particolare attenzione al lessico e alla sintassi. Nel campo della correttezza politica, di là da ogni giudizio di merito sugli intenti virtuosi da essa promossi, si sa come ogni ipotesi interventistica sia problematica per via di due tipi di considerazione, l'una d'ordine generale, l'altra più specifica: secondo la prima, si sa che il, per dir così, dirigismo in fatto di lingua ha dimostrato storicamente, almeno in Italia, di avere esiti, quando importanti, comunque limitati (penso al purismo ottocentesco e alla glottotecnica novecentesca); più specificamente, l'uso di certi termini connotati in senso negativo, riguardanti il campo concettuale dell'alterità, della diversità è espressione di etnocentrismo, cioè di una delle più radicate e irriflesse pulsioni indirizzate alla protezione del sé comunitario, teso a impermeabilizzarsi escludendo o marginalizzando gli elementi allogeni o percepiti come tali. Specialmente quando questi elementi tendono a presentarsi non come saltuarie occorrenze ma come flusso, come insieme: demonizzabili subito come minaccia fisica al proprio territorio, alla propria salute e ai propri beni e poi, a un successivo livello di più capziosa elaborazione, alla propria identità sociale e culturale. L'espressione vu' cumprà, attestata dalla fine degli anni Ottanta del XX secolo, si poneva come esempio di italiano parlato in modo approssimativo dagli stranieri ed era riferita ai venditori ambulanti, magrebini e neri africani in particolar modo, veicolando sui referenti un atteggiamento derisorio, tramite il ricorso ad un registro d'uso espressamente spregiativo. E' meno usata oggi di un tempo ma resta comunque vitale, specialmente in usi figurati. Ha generato per irradiazione deformata una serie di espressioni rilanciate dai mass media (vu' lavà, vu' pregà, vu' campà, vu' aggiustà, vu' drugà, vu' parlà, vu' giucà e simili), spesso riferite a stranieri migrati in Italia, talvolta riferite a italiani, stigmatizzati in questo modo per via delle attività precarie e disdicevoli che svolgevano, "alla maniera dei vu' cumprà stranieri". Extracomunitario è termine nato agli inizi degli anni Ottanta del XX secolo come aggettivo per designare, in modo neutro, i Paesi non appartenenti alla Comunità europea. In seguito è passato a indicare, sostantivato, chi proviene da tali Paesi, con particolare riferimento ai Paesi economicamente svantaggiati. Il processo di diluizione semantica ha portato extracomunitario a porsi, nella lingua d'uso comune, come sinonimo non per forza eufemistico, nonostante la veste formale più dotta, di immigrato. Certo il termine reca comunque con sé, attraverso il prefisso extra-, una connotazione negativa, rinviando a qualcosa di estraneo, di non previsto dalla norma. Peraltro, nei documenti ufficiali dell'Unione europea il termine extracomunitario è stato sostituito con la formulazione "cittadino non appartenente all'Unione europea", tornando in qualche modo al significato originario; anche se la suddetta definizione comporta comunque problemi di appropriatezza, poiché l'Unione europea non coincide con l'Europa geografica e anche perché andrebbero stabiliti precisamente i requisiti per potersi fregiare del titolo di cittadino dell'Unione europea. Inoltre, è difficilmente pensabile che la definizione burocratica, una lunga perifrasi, non debba tradursi in un termine più maneggevole e univoco nella lingua di tutti i giorni: quale, però? Straniero, come suggerisce il signor Satta? Sembra troppo vago e in ogni caso marca per esclusione l'identità altrui. Immigrato? Comunemente utilizzato, il termine, secondo indicazioni del Consiglio d'Europa risalenti ai primi anni Ottanta del Novecento, si sarebbe dovuto adoperare in presenza di persone migrate solo fino a quando queste non si fossero stabilite in un luogo. La condizione provvisoria di chi sta migrando può giustificare l'uso di immigrato e magari di migrante, forse anche più appropriato alla situazione. Ma, ormai stanziale nella nazione d'arrivo, l'immigrato, a rigor di logica, non dovrebbe più essere chiamato così. Inoltre, immigrato, così come extracomunitario, nella lingua comune si riferisce sempre e soltanto a persone provenienti da Paesi poveri ed è circonfuso da un'aura di negatività più o meno esplicita, a seconda del contesto d'uso e dell'intenzione (cioè dell'ideologia) di chi lo adopera. Il problema, insomma, resta aperto. Intanto si potrebbero richiamare gli operatori dell'informazione a un uso più sorvegliato degli etnonimi nel dare certe informazioni di cronaca. Serbo travolge un pensionato sulle strisce attiva immediatamente pregiudizi di tipo etnico. Quale titolista si sognerebbe mai, nel caso che il pirata della strada fosse italiano, di proporre, per esempio, un titolo come Maceratese travolge un pensionato sulle strisce?