Paolo Matteoda

Corrusco vale ‘fiammeggiante, balenante, che manda faville’ (dal latino coruscus ‘scintillante’) e dunque, per immediata estensione, anche ‘che irradia una intensa luminosità’. L’uso in senso più dichiaratamente figurato di corrusco, specialmente in contesti segnati da una descrittività di tono drammatico, potrebbe aver determinato, nelle mani di qualche scrittore o giornalista, uno slittamento di significato nella direzione indicata dal signor Matteoda. Si vedano gli esempi tratti da due narratori primonovecenteschi: «un’atmosfera corrusca di stragi» in Cicognani; «corruschi di anelito e di angoscia i due popoli» in Stuparich. In verità, lo ‘splendore/luminosità’ metaforico di cui si connota corrusco nei due esempi citati potrebbe essere caricato anche di un tratto, altrettanto metaforico, di ‘tempestosità’ e di ‘violenza’.

In generale, però, dizionari dell’uso e scrittori contemporanei danno ancora per saldi i significati tradizionali di corrusco, comprese le sue dilatazioni semantiche: «L'Oscar andò in bagno a guardarsi nello specchio; si guardò a lungo, con avidità, passione. Un viso adusto, ecco cos'è: un viso adusto, si ripeté soddisfatto. Si guarda ed è sempre più soddisfatto. Due occhi corruschi: ecco la parola giusta, che forano ogni corazza, che dicono al cuore di una donna che cos'è stata, che cos'è la vita dell'Oscar». In Manlio Cancogni (Allegri, gioventù, 1973), corrusco vale ‘fiammeggiante’ così tanto da perforare con le sue metaforiche faville ogni resistenza psicologica ed emotiva altrui.

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