Valerio Magrelli

La parola braccata. Dimenticanze, anagrammi, traduzioni e qualche esercizio pratico

Bologna, Il Mulino, 2018

«Solo tre giorni e due notti dell’inverno del 1782 occorsero a William Beckford per redigere la tragica storia del suo califfo [si tratta del racconto Vathek, ndr]. La scrisse in francese; Henley la tradusse in inglese nel 1785. L’originale è infedele alla traduzione» (Altre inquisizioni, José Luis Borges, 1952, trad. it. di Francesco Tentori Montalto). Affermare in modo iperbolico che «el original es infiel a la traducción» può voler dire molte cose, soprattutto quando a pronunciare una simile frase è Borges. Senza addentrarsi nella genialità interpretativa dello scrittore e poeta argentino, c’è da dire che la traduzione è uno dei temi più sviscerati e presenti nell’opera di Borges.

Eppure, alla professione del traduttore, in Italia, non si dà ancora il giusto rilievo. «È raro che un traduttore veda riconosciuto il suo lavoro. Ed è vero, le traduzioni in Italia vengono pagate poco, cosa che non consente al traduttore di lavorare con la dovuta calma. Se una traduzione è sottopagata, il primo a farne le spese è l’autore, e però si danneggiano anche sia la lingua italiana sia il rapporto tra due culture». A parlare così è Ilide Carmignani, traduttrice di grandi della letteratura come Bolaño, lo stesso Borges, Neruda o García Márquez, in un’intervista a cura di Giuseppe Culicchia (Il mio fine è essere invisibile, «La Stampa», 11/07/2017).

Quella del traduttore è una mediazione fondamentale, sottopagata e poco considerata; tuttavia, chi ama la letteratura e ne fa uso, sa che: «Gli autori di un libro tradotto sono inevitabilmente (almeno) due» (Simona Mambrini, Nella traduzione di… Recensire romanzi tradotti, in Speciale Treccani Tradurre le opere, leggere le traduzioni). E aggiunge Carmignani: «di solito il lettore non si rende conto, leggendo, che il traduttore è a sua volta autore, benché invisibile. Non a caso chi traduce viene pagato in diritti d’autore».

In questo saggio La parola braccata. Dimenticanze, anagrammi, traduzioni e qualche esercizio pratico è Valerio Magrelli, dopo 40 anni di lavoro come traduttore, direttore di collane di traduzioni, insegnante di traduzioni, oltre che autore tradotto, ad esplorare il «continente della traduzione» da una prospettiva di grande rilievo: «quanto ho scritto vorrebbe contribuire all’immenso cantiere che va sorgendo dall’applicazione delle scienze cognitive al problema della traduzione. Insomma l’ingenua ipotesi (o piuttosto il banalissimo sogno) di vedere in futuro realizzata una mappatura neurale capace di riprodurre i procedimenti attivati nel corso della pratica traduttoria, ormai sta diventando realtà» (pp. 9-10).

La prima parte del volume si propone come «una minima fenomenologia della traduzione», la seconda è dedicata «all’analisi di sei specifici aspetti della traduzione nella forma di altrettanti esercizi: esercizi di capo (acrostici), di coda (rime), di verso (metro), di cifra (indovinelli), di segno (calligrammi) e di tempo (sottotitoli)» (p. 19).

Nel primo capitolo, con Freud, Lurija, Quignard e Terracini, Magrelli prova a mostrare «affinità tra l’atto traduttorio e alcune forme di attività mnestica, a cavallo fra competenze linguistiche e procedure attivate nell’atto del ricordo» (p. 16). L’ossessione della ricerca accomuna i soggetti indagati che, senza requie, provano a richiamare alla mente la parola smarrita. Il concetto è quello della «traduzione come rammemorazione»: lo sforzo che compie il traduttore è simile a quello di chi ha smarrito un nome. Non a caso il saggio Il nome sulla punta della lingua (1995) di Pascal Quignard «costituisce un contributo prezioso ai fini di quella analisi della rammemorazione che stiamo perseguendo» (p. 48) e «non sarebbe eccessivo definire la punta della lingua come l’altare su cui viene officiato il segreto della traduzione» (p.74).

Ma le fatiche di Ercole (divinità sulla quale torneremo) non finiscono qui. C’è un altro sforzo che compie il traduttore e che è molto simile a quello dei solutori di anagrammi: «può esistere un rapporto tra questa pratica e quella della traduzione, ossia fra la ricombinazione di alcune lettere e l’individuazione dell’espressione corrispondente a quella di un originale straniero, magari da cercare con lo stesso sforzo di chi ha dimenticato una parola?» (p. 18).

Il traduttore è un soggetto attivo, una persona chiamata in continuazione a prendere decisioni, a scegliere una strada piuttosto che un’altra, a sforzarsi per ‘portare oltre’ chi gli si affida. Forse non è di immediata interpretazione, ma la copertina di questo sorprendente saggio rappresenta un Ercole al bivio tardo cinquecentesco di Paolo Veronese. Il mito del giovane Ercole, semidio figlio dell’immortale Zeus e della mortale Alcmena che dovette scegliere tra Vizio e Virtù, porta Magrelli ad affiancare scherzosamente (forse non tanto) a san Girolamo, santo e traduttore, un «nuovo protettore della categoria». «Il nuovo campione […] verrebbe indicato in un semidio spiccatamente portato alle “fatiche” […] sarebbe prescelto per la maniera mitica e paradigmatica con cui nel corso dei millenni, sostando davanti a un bivio, seppe rappresentare, come forse nessun altro, la funzione stessa del de-cidere».