Nicola De Blasi

Ciao

Bologna, Il Mulino, 2018

Ciao, ciao bambina

Un anno particolarmente importante per la storia di ciao (e per la sua diffusione) è il 1959. È il 31 gennaio e si conclude il 9º Festival della canzone italiana (condotto da Enzo Tortora affiancato da Adriana Serra): a vincere il Festival saranno, infatti, Domenico Modugno e Johnny Dorelli con la canzone Piove (scritta da Modugno e Dino Verde), meglio nota come – appunto – Ciao, ciao bambina. Da quella sera, dal salone delle feste del casinò di Sanremo, ciao conoscerà una fortuna forse mai avuta prima. Modugno cantava di voler «trovare parole nuove», trovò soprattutto, però, il modo di dare nuova vitalità alla parola ciao che, da allora, conobbe una fortuna internazionale. Ciao era la parola magica: il titolo con cui la canzone si diffuse in diverse parti del mondo, infatti, fu proprio il ritornello Ciao, Ciao bambina. In tedesco, fu trascritto come «Tschau Tschau Bambina», in inglese «Chiow Chiow Bambeena», in spagnolo «Chao Chao bambina», ma anche se scritte in modo diverso quelle parole furono sempre pronunciate in italiano, così ciao «da semplice saluto diventa un’icona quasi fonosimbolica, un segno di novità che si trasforma anche in marchio di fabbrica di prodotti commerciali» (p. 11): il motorino Ciao della Piaggio, la crema al cioccolato Ciaocrem.

Duecento anni (e più) e non sentirli

Ciao però non era una parola nuova, anzi, aveva già alle spalle una sua storia. Convenzionalmente, dato che le prime attestazioni scritte risalgono al 1818, quest’anno ha compiuto duecento anni, ma la storia è iniziata molto prima. La ripercorre in maniera appassionante e chiara Nicola De Blasi nel suo saggio pubblicato per il Mulino: una delle conferme del bicentenario citate da De Blasi è una testimonianza epistolare proveniente da una lettera della contessa veronese Giovanna Maffei, che riferisce al marito i saluti del figlio ancora bambino: «Peppi à appreso a dire il tuo nome, e mi disse di dir ciao a Moti» (p. 109).

Oggi ciao è la seconda parola italiana più diffusa al mondo, ma fa ancora notizia, a volte. Passando dalla contessa Maffei a una Duchessa, dei nostri giorni, infatti, se diamo un’occhiata alle notizie rilanciate dai giornali, recentemente, troviamo Kate Middleton rispondere con un sorridente ciao a una fan che aveva denunciato la sua provenienza («I’m from Italy»), scusandosi, poi, per il suo italiano – sa dire solo ciao – e augurandosi che i suoi figli, un giorno, possano essere più bravi di lei.

D’Azeglio e Verga

«Sapete cosa vuol dire il ciao che ha scritto Luisa? È una corruzione di schiavo che è il nostro saluto lombardo» (p. 110): è il 1839 e Massimo D’Azeglio postilla così una lettera diretta al livornese Enrico Mayer su cui sua moglie, Luisa Blondel, aveva apposto un saluto «Ciao Mayer per Luisa e Rina». Non è chiaro, come scrive De Blasi, se lombardo fosse riferito solo a schiavo o anche allo stesso ciao, ma l’esigenza di questa precisazione ci fa capire come ciao avesse a quest’altezza cronologica ancora una connotazione regionale.

Qualche decennio dopo quel saluto comparirà, invece, nel romanzo Eros del siciliano Giovanni Verga (in corsivo, forse perché percepito come recente e dialettale), stampato sul finire del 1874 e uscito con la data 1875, e nelle sue lettere («ciao, scrivimi»; «ciao, statti sano»; «ciao ti abbraccio»). Ciao si era, quindi, fatto strada anche in altre zone d’Italia ripreso da parlanti non solo più settentrionali e aveva attraversato il confine tra italiano regionale e italiano, non senza qualche ostacolo (ostacoli, ovviamente, documentati e illustrati nel volume).

Ciao, infatti, era un saluto percepito con distacco, dopo l’Unità: a Roma, «visto come un marchio di provenienza non romana che suscitava reazioni anche  molto negative» (p. 77), e a Napoli «percepito come una forma piemontese tipica dell’autorità costituita (agente delle tasse, ispettore di pubblica sicurezza)», p. 74.

Anche se, qualche decennio dopo, proprio la città di Roma avrà un ruolo importante nella diffusione della parola che, una volta accolta e rilanciata dalla capitale, diventerà uno degli emblemi dell’unità nazionale.

Sai cosa vuol dire ciao?

Sai cosa vuol dire ciao? Lo cantava Vasco Rossi, in una delle sue più celebri canzoni, nel 1978, lo chiedeva Massimo D’Azeglio a Enrico Mayer: cosa vuol dire? Come nasce? Come un congedo, prevalentemente, in passato, «ma d’altra parte non può essere diversamente, visto che la documentazione più antica è legata all’uso epistolare (e nelle lettere i saluti sono alla fine); tuttavia talvolta nei dialoghi teatrali e in quelli dei romanzi, già nel Settecento e nell’Ottocento, si riconosce ciao (o schiavo) come saluto di incontro» (p. 21).

Schiavo, appunto, perché etimologicamente ciao deriva dal latino medievale sclavum che è una variante di slavum (con il nesso sl- pronunciato  scl-) e inizialmente aveva il solo significato di ‘slavo’; in seguito, ha assunto l’accezione di ‘schiavo’, quando a essere ridotte in schiavitù erano appunto persone di origine slava, perciò gli sclavi (in quanto popolo) diventarono anche sclavi (cioè ‘schiavi’) per antonomasia. «Secondo Charles Verlinden, in Italia solo nella seconda metà del Duecento si fissa l’uso di sclavus nel nuovo significato di ‘schiavo’ che poi diventerà dominante nel secolo successivo» (p. 22). A partire dalla seconda metà del Quattrocento, «comincia ad affermarsi l’uso di salutare qualcuno, di persona o in una lettera, dichiarandosi come suo schiavo. Si tratta di una formula di cortesia simile a quella che per esempio troviamo in area friulana nella forma mandi (corrispondente a comandi), p. 23.

Bella ciao

Alfredo Panzini, qualche secolo dopo, registrava così la parola ciao nel suo Dizionario moderno (1905):

Ciao: per addio è voce dell’Alta Italia (piemontese cerèa) e pur nota e usata in altre regioni. Pare corrotta da schiavo, Ciavo suo = servitor suo, ciavo obbligato (Cherubini, voc. Milanese). Ciao è anche voce usata in Lombardia come esclamazione di chi si rassegna a cosa fatta e che pur dispiaccia.

Sarà, però, l’opacità semantica del termine a fare la fortuna del saluto (un’interiezione, immediata e diretta, non riconducibile in maniera trasparente al suo antico significato) che conoscerà a metà del Novecento, dopo la Seconda guerra mondiale, una larghissima circolazione.

È impossibile, ovviamente, non fare un cenno anche a Bella ciao, celebre canto della Resistenza che diventerà largamente noto, però, solo in un successivo momento conoscendo la sua più larga diffusione popolare negli anni Cinquanta e Sessanta, «diventando il canto di tempi nuovi che del passato conservano memoria» (p. 18). Un canto che è la nostra storia e contiene una delle parole più care e usate della lingua italiana, che impariamo fin da bambini (prima a farla, con le mani, poi a dirla), una parola-azione che «sembra proprio un buon esempio di come fare le cose con le parole» (p. 130), anche per non rassegnarsi a cose fatte che pur dispiacciano.

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