Armando Petrucci

La descrizione del manoscritto. Storia, problemi, modelli

Roma, Carocci, 2018

A trentacinque anni dalla princeps, la benemerita Carocci di Roma continua a ristampare il celeberrimo manuale di Armando Petrucci, «uno dei maggiori storici della civiltà scrittoria e tra i più insigni medievalisti nel panorama mondiale» (Luciano Canfora), scomparso all’età di 86 anni il 23 aprile 2018, poco dopo aver dato il si stampi a un altro importante volume, edito sempre da Carocci, Letteratura italiana: una storia attraverso la scrittura.

Davvero «unica nel suo genere», come si avvisa in quarta di coperta, l’opera - destinata «soprattutto ai bibliotecari, agli archivisti, agli studiosi e agli studenti di paleografia, codicologia, filologia e a tutti coloro che sono comunque interessati alla tradizione manoscritta dei testi» - si propone di offrire ai conservatori e ai descrittori di libri manoscritti medievali e moderni, anziché regole assolute e modelli unici da applicare passivamente, chiavi interpretative e strumenti metodologici atti non solo ad agevolare il loro lavoro, ma a formare catalogatori esperti e capaci di scelte autonome e consapevoli.

Il primo capitolo è dedicato a una minuziosa rassegna storica dalle origini, ossia dagli schematici inventarî medievali allestiti a fini puramente patrimoniali, fino all’èra della catalogazione digitale, con soste nel Cinquecento, dove troviamo i primi esempî di catalogazione critica di manoscritti, quasiché l’invenzione della stampa «permettesse di avere, rispetto al libro manoscritto, un sufficiente sentimento di distacco» (fondamentale la Bibliotheca graeca manuscripta di Antonio Agustín, il primo inventario critico di codici medievali, ricco di datazioni sostanzialmente esatte e di accurati ragguagli sia sul loro aspetto esterno sia sul contenuto); nel Seicento, che vede fiorire una produzione di elenchi di manoscritti intesi a provvedere gli studiosi di informazioni su interi fondi di codici, redatti con finalità scientifiche e non meramente inventariali; nel Settecento, dominato dalle grandi figure del fondatore della paleografia greca Bernard de Montfaucon e del bibliotecario della Laurenziana Angelo Maria Bandini, il cui metodo descrittivo - ispirato al modello del Montfaucon - procurava per la prima volta un’immagine fedele del codice, dotandolo d’una datazione attendibile e di una completa analisi testuale; nell’Ottocento, col poligrafo e storico della scienza Enrico Narducci (che nel 1893 pubblica la sua maggiore opera catalografica, il Catalogus codicum manuscriptorum praeter graecos et orientales in Bibliotheca Angelica, in cui si descrivono sommariamente ma con sufficiente precisione ben 1543 codici) e con la cosiddetta primavera fortunata, provocata a partire dal 1885 nelle università e nella ricerca scientifica dall’affermazione del metodo filologico e storico: il periodo in cui Ferdinando Martini fondò la collana Indici e Cataloghi, che avrebbe accolto inventarî e descrizioni di fondi stampati e manoscritti di pregio conservati nelle biblioteche italiane.

Segue una trattazione a dir nulla esaustiva dei principali problemi che il catalogatore è chiamato a risolvere, quale che sia il metodo descrittivo prescelto: la datazione e la localizzazione dei codici (uno dei molti criterî consiste, ad esempio, nell’analisi delle abbreviature, come quella «per t(ur) col piccolo 2 sovrastante l’asta orizzontale della t, adoperato in area beneventana soltanto dopo il 1030; o come quella per q(uia), formata dalla q e da un piccolo 2 ad essa accostato sulla destra, adoperata in Italia prevalentemente dopo il 1050»); la definizione delle scritture; l’identificazione degli autori e dei testi (soprattutto per i manoscritti d’età medievale, che com’è noto non sempre offrono certezze riguardo agli autori); la descrizione della struttura fisica dei codici (materia, aspetto, ordinamento) e delle tecniche impiegate dagli artigiani.

Preziosa l’illustrazione critica dei varî tipi di cataloghi e repertorî: il catalogo analitico (o totale o scientifico, che descrive in modo dettagliato tutti gli aspetti esterni e interni d’ogni singolo codice); il catalogo sommario (sorta di via mediana tra catalogo analitico e nudo inventario: massimo numero di dati espressi con la massima stringatezza possibile); gli inventarî (la forma più semplice di rappresentazione); i cataloghi speciali (non aventi come fine la descrizione di tutti i codici appartenenti a un territorio o biblioteca o fondo, ma solo di quelli speciali quanto alle caratteristiche cronologiche, tipologiche o testuali); i manoscritti di natura documentaria (archivî letterarî formati da appunti di lavoro minute carteggi, o interi archivî familiari o di pubbliche istituzioni: ciò pone, tra l’altro, il catalogatore di fronte al dilemma se sia più opportuno trattarli con metodi bibliotecarî o archivistici, sommarî o analitici).

Arricchisce il volume una densa appendice ad esemplificazione di varie metodologie, che raduna alcuni tra i documenti più significativi della storia della catalogazione.

Questa la scorata constatazione conclusiva: «Oggi, almeno per quanto riguarda l’Italia, sembra che ci siamo non avvicinati, ma piuttosto irrimediabilmente allontanati da quelli che allora [nella prima edizione del 1984] ritenevo (e ancora oggi ritengo) le finalità ‘politiche generali’ di una catalogazione complessiva del materiale manoscritto di ogni epoca e natura conservato nelle nostre biblioteche […], che deve servire ad impostare e finanziare modelli diversificati di descrizione a seconda delle diverse esigenze e a fornire ciascuna area territoriale e ciascun centro di una inventariazione di base completa. […] In realtà un’impresa come quella che si dovrebbe condurre non può realizzarsi senza che le stesse istituzioni di conservazioni se ne assumano, per quel che loro compete, la responsabilità, indirizzando ad essa i giovani funzionari vogliosi e capaci di farlo, che pure ci sono, e senza che fra biblioteche da una parte e centri di ricerca universitaria (e non) si stabiliscano chiari, utili e permanenti rapporti di collaborazione».