AA.VV.

La tradizione dei testi. Atti del Convegno di Cortona (21-23 settembre 2017)

a cura di Claudio Ciociola e Claudio Vela

Firenze, Società dei Filologi della Letteratura Italiana, 2018

Sempre più di rado approdano al tavolo del critico oggetti di lusso come questi Atti, magistralmente curati da due dei migliori specialisti di una disciplina che si vuole ostica, repulsiva e persino rotondamente oziosa, ma che - peccheremo forse di candore o d’eccessivo ottimismo - possiede tutti i numeri per esercitare il proprio fascino anche sul lettore digiuno o profano, vista l’amplissima gamma e la portata a dir poco capitale dei temi da essa aggrediti: dalla ricostruzione della fisionomia originaria dei testi alla loro corretta interpretazione; dal vaglio minuto delle varianti di trasmissione all’indagine sulle condizioni materiali di produzione; dall’analisi della lingua degli autori allo studio della civiltà e delle istituzioni culturali rispecchiate dalle opere; dall’accertamento dell’autenticità dei documenti al problema della loro edizione critica.

Questo e altro trattano gli studiosi chiamati a raccolta dalla Società dei Filologi della Letteratura Italiana intorno alla spinosa questione della tradizione testuale. Basti il sommario ad apprezzarne lo spessore scientifico:

Claudio Ciociola, «Storia della tradizione» e varianti d’autore (Barbi, Pasquali, Contini);

Alessio Decaria, Il grano e la zizzania. L’autore, il copista, l’editore;

Simone Albonico, Autografi, documenti, archivi. Solitudine degli originali e configurazioni storiche dei manoscritti letterari;

Simona Brambilla, Spigolature nella tradizione manoscritta delle «Chiose Selmi»;

Marco Berisso, Sillogi e serie: leggere la tradizione della poesia lirica tra Due e Trecento;

Giulio Vaccaro, Copisti e filologi. Per la tradizione dei volgarizzamenti a Firenze nel primo Trecento;

Nicoletta Marcelli, Tradizione connotativa e tradizione deformante: il caso del «Tancredi» e della «Novella di Seleuco» di Leonardo Bruni;

Tiziano Zanato e Andrea Comboni, Indagini sulla tradizione dei canzonieri in volgare del Quattrocento;

Concetta Bianca, A proposito della tradizione della «Lettera di Aristea»;

Sebastiano Gentile, Tradizioni in presenza dell’autore: Ficino e dintorni;

Giulia Raboni, Storia della tradizione in presenza di autografo. Applicazioni manzoniane;

Paola Italia, Il testimone anfibio. Il dattiloscritto fra tradizione manoscritta e tradizione a stampa.

Lo spazio di una recensione “breve” non consente di dar conto d’ogni singolo contributo; ci soffermeremo perciò, a puro titolo esemplificativo, sul primo e l’ultimo.

Direttore delle collane «Biblioteca dei volgarizzamenti», «Medioevo italiano» e «Corpus dei serventesi caudati» per le Edizioni ETS di Pisa, nonché presidente dell’«Edizione nazionale degli Antichi Volgarizzamenti dei testi latini nei volgari italiani», Claudio Ciociola esamina, con la capacità di sintesi e il nitore espositivo che distinguono tutte le sue ricerche, il rapporto fra storia della tradizione e varianti d’autore attraverso le riflessioni di tre giganti della filologia italiana dell’altro secolo: Michele Barbi, Giorgio Pasquali e Gianfranco Contini. Se al primo Pasquali riconosce il titolo di pioniere, fin dagli anni Venti, della «dottrina delle varianti d’autore», Barbi - in una sorta di cerimonioso rimpallo di paternità - ne attribuisce il merito esclusivo all’autore di Storia della tradizione e critica del testo (1934); ed è certamente il capolavoro di Pasquali a influire sulla genesi della cosiddetta «critica degli scartafacci», che animerà la celebre polemica Contini-Croce negli anni Quaranta: «Laddove resti chiara la differenza del punto di vista: in Pasquali, l’individuazione oggettiva (e di per sé delicatissima) della presenza di varianti d’autore nell’alveo della tradizione degli antichi e dei moderni (ai fini della ricostruzione della storia della loro tradizione); in Contini, la valutazione stilistica, dinamica e ‘strutturale’, di varianti d’autore accertate (in genere, in presenza di autografi o di stampe autorizzate), ai fini della ricostruzione della storia della poesia (o, se si preferisce, della storia evolutiva dei testi)». Ciociola nota inoltre come, mentre la riflessione continiana sul tema s’intensifica nel tempo, la fiducia di Pasquali in questo aspetto centrale del suo libro subisca via via una significativa flessione che sfocerà in una vera e propria abiura: «mi sarà lecito confessare - scrive il filologo romano nell’edizione 1952 del suo capolavoro - che [della possibilità di varianti d’autore] sembra a me si sia […] abusato anche là dove le condizioni della tradizione non consentivano di usarl_a_ legittimamente. E proprio qui già io stesso avevo probabilmente ecceduto».

Responsabile con Giorgio Pinotti e Claudio Vela della riedizione delle opere di Carlo Emilio Gadda presso Adelphi e operosissima direttrice del Portale di Filologia d’autore, Paola Italia offre una riflessione altrettanto originale che stimolante sull’ecdotica del dattiloscritto: non già una via mediana tra il manoscritto, oggetto di studio della filologia d’autore, e la stampa, di pertinenza della filologia della copia, bensì un «testimone anfibio», perché appartenente ad ambo i distretti, essendo il suo statuto materiale non dato in sé, ma «definito per similarità o per opposizione con altri testimoni: prolungamento del manoscritto (quando lo segue, nell’iter correttorio), oppure testimone esterno di scarsa affidabilità, quando, nell’iter correttorio, il manoscritto viene affidato, come spesso accade nel Novecento, a una dattilografa esterna […], e quindi il dattiloscritto perde il suo valore autoriale (reca, per esempio, errori singolari e usus scribendi di chi ha materialmente redatto il dattiloscritto). Situazioni diverse con conseguenze ecdotiche di non poco momento». Il primo cómpito del filologo è quindi quello di appurare il grado di autorialità del documento distinguendo innanzitutto fra dattiloscritto d’autore e dattiloscritto apografo, operazione non sempre agevole in quanto a) l’autore può usare la sua macchina da scrivere o una altrui, e il risultato sarà ugualmente d’autore; b) la sua macchina personale viene utilizzata da suoi collaboratori, e il risultato sarà un dattiloscritto apografo realizzato con una macchina d’autore. Il criterio guida è come sempre l’errore: «un carattere fallato, un difetto meccanico nella battitura, il nastro dell’inchiostro che non centra perfettamente il colore, una interlinea di inusuale dimensione, la particolare distanza tra i caratteri»: tutti indizî che consentono di collegare tra loro i testimoni dattiloscritti e di identificare il documento da cui discendono tutti gli altri. Ovviamente il metodo ecdotico varia a seconda che si tratti di un dattiloscritto d’autore primario (non copia di un manoscritto ma «testimone principe del percorso genetico») o secondario, ossia copia d’un antigrafo manoscritto: «Nel caso di dattiloscritto d’autore ‘primario’ il documento partecipa più direttamente della filologia del manoscritto […] e quindi si dovrà procedere con una ricostruzione dell’ordine dei testimoni sulla base del confronto delle lezioni dattiloscritte, e delle varianti manoscritte, se presenti, scegliere la redazione che si intende mettere a testo […]. Quando il dattiloscritto d’autore è ‘secondario’, invece, […] esso reca in sé, a differenza della copia in pulito […] alcuni elementi peculiari della sua nascita ‘meccanizzata’: se è raro che nel Novecento l’autore rediga più copie in pulito di un medesimo autografo […], è possibile invece che tragga più copie dattiloscritte dal medesimo manoscritto, o dalla medesima copia in pulito»: in tal caso il dattiloscritto può essere considerato un codex descriptus recante in sé tanto i pregi quanto i difetti tipici della copia.