Maurizio Soldini

Lo spolverio delle meccaniche terrestri

Castiglione di Sicilia, Il Convivio, 2019

L’editrice siciliana Il Convivio pubblica il terzo titolo della collana «Ormeggi», diretta dal leopardista Giuseppe Manitta, che nel risguardo centra e sintetizza perfettamente la poetica soldiniana: «Lo spolverio delle meccaniche terrestri rivela, già nel titolo, la molteplicità tematica dell’opera, che avanza per scorci e per visioni. Non si tratta, però, di frammentazione, perché alla base di questo procedere, che potremmo definire gnoseologico, esiste l’unità della ricerca, il desiderio cioè di varcare lo strato di polvere per vedere ciò che esiste al di sotto di essa. Soldini indaga l’identità e l’alterità delle cose del mondo, ma non per questo dimentica i moti personali e le immersioni nella propria quotidianità, sino a contemplare la ricchezza di ogni dettaglio e di ogni manifestazione».

Clinico medico, docente di Bioetica all’università «La Sapienza» di Roma nonché (questo il primo ossimoro) poeta prolificissimo, Soldini è anzitutto un abile tessitore e un sagace metricista: dei 145 componimenti uno soltanto, L’ubi consistam (p. 175), è interamente endecasillabico, tuttavia (secondo ossimoro) il verso principe della nostra storia poetica domina l’intera silloge, ancorché in forma smembrata, alterata, camuffata, falsificata: innumerevoli le sue varianti mensurali governate e orchestrate con rara destrezza: crescenti («con i piedi scalzi sulla nuda pietra», «col grigio di stanza come segatura») e calanti («del quotidiano allungo che incede», «si stava scamiciati negli occhi»), ipermetri con sdrucciola interna («si specchiano nei marciapiedi col grigio», «e non resta che accogliere la tormenta») o solo ritmicamente canonici (com’è noto, «la libertà metrica novecentesca considera endecasillabica sia una serie che è tale per l’andamento ritmico tradizionale, sia una che è tale solo e semplicemente per il numero di sillabe» [Pier Vincenzo Mengaldo]). E non suoni azzardato asserire che il metro prediletto è il sonetto, cioè la sede naturale dell’endecasillabo, benché non se ne trovi che uno, Frontiera (p. 13), collocato non a caso, programmaticamente, proprio in apertura (con due vistosi “turbamenti” non certo preterintenzionali: il 1° verso è ipometro: «ora il viaggio strema dentro i vicoli»; il 12° è un tredecasillabo: «sotto la nuvola si leva un vento rado», ma, per i motivi di cui sopra, il co-testo consente di interpretarli come endecasillabi): due quartine e due terzine di versi sciolti in cui l’assenza di rime è a tratti compensata da testure fonicamente accordate e rime interne («la meraviGLIa di un risveGLIo crudo», «che fugge e lAGNA verso la campAGNA»); e si noti che la quartina e la terzina sono le strofe di gran lunga prevalenti, quasiché - disseminato ovunque sotto varie sembianze - il metro più insigne della tradizione poetica italiana fosse insieme (terzo ossimoro) profondamente amato e violentemente oltraggiato, al punto di ridurlo a brandelli. Ne consegue evidentemente che, se è vera l’equivalenza sottomissione alla regola = accettazione del mondo, la poesia di Soldini si pone come rifiuto, insofferenza, antagonismo.

Ma vale la pena di insistere su un’altra capitale contraddizione che sembra smentire recisamente questo assioma.

Si leggano le tre terzine di La differance (p. 166): «le bretelle dell’impossibile trattengono cadute / sui lastrici delle suggestioni asperse di chiodi / e là si bucano i talloni delle distorte fissazioni // allora non regge la trafittura se si cade in piedi / per la gestazione di una storia di veri difetti / e i sospetti si gettano sul limite che ci avanza // assimila alla distrazione lo sbaglio dei passi / la sofferenza della simiglianza speculare / stravaganza solare il piacere della differance»: un dettato irto di spigoli - all’insegna dell’obscurisme e del surrealismo più oltranzista - che ripudia tanto la compiutezza concettuale quanto l’immagine, seduttivamente abbozzandola per sùbito scancellarla in una sorta di toccata e fuga.

Ma si apra la pagina precedente e con Segnacoli dei tempi lo scenario muterà traumaticamente: «segnacoli le sviste suburbane ora / con gli occhi bassi per nascondersi / dietro l’ipocrisia di un quadro naïf // segnacoli dei tempi e della fretta / una volta si sostava all’angolo / del bar per ore a chiacchierare // l’asfalto s’incrostava con la polvere / era diversa la realtà del dire e fare / e si guardavano le cose con piacere // se poi pioveva la strada levigata / e liscia bastava una tettoia sbieca / uno scalino con le mani in tasca // con le stagioni non si leticava mai / la prescia e l’ansia non turbavano / quel paradiso e lungi il culo dell’inferno»: non più visione ma veduta; non caotici cumuli d’immagini distorte polverizzate negate, ma uno sguardo pacato e cordiale su figure e ambienti istantaneamente ravvisabili, persino familiari, non solo al lettore capitolino; il trobar clus e la signoria del significante che irrigidiscono il primo testo cedono qui il passo alla trasparenza e alla semplicità più leu, mentre il tono austero e incurante del lettore che regna su La differance, e su una quota cospicua dei componimenti, si scioglie in un ritmo narrativo affabile e appena ombrato di nostalgia per un passato in cui il poeta si ostina a voler consistere (sarà questo uno dei significati delle parole-chiave polvere e derivati, che a partire dal titolo occorrono frequentemente) e in un lessico non già seletto e specialistico come nel resto dell’opera (serpigine, albedo, ipocondrio, metanoia, midriasi, miosi, astenia, disbasia, logica binaria, falbo, basculante, tettonica, vindice, resilienza, stocastici, canniccio, mutacico, gemizi, invitto, cogenza, fabulare, aspergine, antalgia, ischiatiche, giugulo, nistagmo, peronospora, sacertà, allotrio), ma dimesso, domestico, colloquiale (bar, chiacchierare, tettoia, scalino), finanche regionale e disfemico (prescia, culo).

Quale dei due modi di formare rappresenti il miglior Soldini sia il lettore a decidere.