Gandolfo Cascio

Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle Rime tra gli scrittori

Venezia, Marsilio, 2019

Attraverso documentate ricerche e acute analisi delle Rime e della loro ricezione — tra echi, imitationes cum variatione, reperti patenti, riscritture, citazioni mascherate e clamorose falsificazioni —, l’Autore illustra in dettaglio le ragioni per le quali a Michelangelo poeta spetta de iure un seggio in Parnaso più «nobile» di quello finora assegnatogli dalla storiografia; ragioni che vanno ricercate nella sua «ambiguità filosofica», nella fede nel non-finito e soprattutto «nella dignità stilistica che, posta al centro del segmento continiano tra Dante e Gadda, poté assecondare tanto dei gravissimi contenuti quanto quello che c’è di comune o di sontuoso».

Accennano al Buonarroti nei loro scritti ben 57 suoi contemporanei, tra cui Ludovico Ariosto (che ne avviò il processo divinizzatorio), Francesco Berni (il primo a scernere criticamente l’artista dal poeta), Giorgio Vasari (che intuì l’enorme portata estetica della sua poesia), Pietro Aretino («gli scritti di Michelagnolo Buonarroti meritan d’essere conservati in un’urna di smeraldo»), Benedetto Varchi, Gaspara Stampa, Vittoria Colonna e Lodovico Dolce.

Il rilancio delle Rime avverrà solo nell’Ottocento grazie al Foscolo, che lo reputò un minore («La poesia di Dante consta principalmente d’immagini: quella di Michelangelo, al par di quella del Petrarca, è un composto di pensiero e di sentimento, che invita sempre alla meditazione, e tocca talvolta il cuore; ma non descrive né dipinge, e non agisce potentemente sull’immaginazione»), salvo poco dopo mutar parere; ma i suoi versi contengono veri e proprî calchi. Un solo esempio:

Forse perché d’altrui pietà mi vegna (Michelangelo)

Forse perché della fatal quïete (Foscolo)

Quanto alla ricezione critica novecentesca (trascegliamo ovviamente fior da fiore), grande fu l’influenza di Michelangelo poeta su Giovanni Papini (che ne scrisse anche un’entusiastica e appassionata biografia, svincolandolo dal persistente accostamento all’artista plastico); su Thomas Mann (interessato principalmente all’aspetto erotico e omoerotico delle Rime al fine, scrive Cascio, di «farsi un autoritratto per interposta persona»); su Pier Paolo Pasolini («La mia ultima scoperta letteraria è Michelangelo, di cui sono morbosamente entusiasta: lo pongo tra i primi 4 o 5 lirici italiani»); su Giovanni Testori («un plurilinguismo totale che non coinvolge più soltanto il lessico ma anche i generi»); su Eugenio Montale (che lo avvicina a Shakespeare collocandolo nella tradizione lirica europea, ma, secondo il critico, «in termini un po’ generici, e forse iperbolici, non irrobustiti da riferimenti bibliografici»); su Mario Luzi (a giudizio del quale Michelangelo supera il modello petrarchesco grazie all’enormità del vissuto: «una pressione interna, una carica d’intensità eccessiva forzano le linee del modello fino a scuoterne la rigida autorità di esempio. […] Questa lotta dentro la norma ma non contro di essa per trovare nella libertà la forma che la trascenda è anzi il fondamento dello stile poetico come di quello plastico di Michelangelo»); su Vittorio Sereni («nodoso e contorto ramo che si stacca dal voluttuoso-struggente tronco petrarchesco»); su Francesca Sanvitale, che sradica un pregiudizio inveterato: «Fin dall’inizio non c’è traccia della bellezza che stava celebrando nella scultura e neppure di quella forza che imprimeva un suggello ineguagliabile alle sue opere. La parola è destinata a testimoniare il buio mondo della soggettività sottratto agli altri».

Assai più cospicua la ricezione creativa.

L’opera di Dino Campana rigoglia di corrispondenze e appropriazioni, in particolare per quanto concerne il campo semantico della notte e la categoria del non-finito; «Ma ci sono altri richiami all’artista attraverso i profeti e le loro barbe giudaiche, gli adolescenti ignudi e i ritratti delle sibille. Quest’ultimo caso, in particolare, convince che si tratti di quasi-ἔκφρασις da quella della Sistina:

Una antica e opulenta matrona, dal profilo di montone, coi neri capelli agilmente attorti sulla testa sculturale barbaramente decorata dall’occhio liquido come da una gemma nera dagli sfaccettamenti bizzarri sedeva, agitata da grazie infantili che rinascevano colla speranza traendo essa da un mazzo di carte lunghe e untuose strane teorie di regine languenti re fanti armi e cavalieri […]».

Giuseppe Ungaretti: «L’apologia del sonno, del non vivere, rappresentò per entrambi l’espressione più sincera di chi percepisce il senso della morte come un’avventura divina, e per nulla come una punizione o tormento. Nel trapasso dal giorno alla notte, dalla vita attiva al sonno, s’invera la scoperta di θάνατος e si percepisce la morte come una conquista».

Elsa Morante: «Se si esamina formalmente il testo [di Alibi], si noterà che nel romanzo sono state applicate le seguenti consuetudini della scrittura poetica: 1. la struttura paratattica imita la scrittura in versi, dove il punto equivale all’accapo per il nuovo verso; 2. le anafore anticipate dal connettivo E; 3. la presenza delle allitterazioni che sostituiscono le rime […]; 4. l’uso connotativo dell’aggettivo (anche doppio o multiplo) che accompagna ogni sostantivo […]».

Motivi buonarrotiani sono disseminati nell’intero corpus poetico di Rodolfo Wilcock: «Il legame tra il canzoniere di Wilcock e le Rime, analizzato sulla base del loro rapporto reciproco con il Barocco, interpreta l’uso paradigmatico della luce, contemplata non esclusivamente nel suo carattere simbolico, come rivelatrice della verità, ma anche come forza rigenerante».

Dario Fo, nel suo Tegno nelle mane occhi e orecchie: Michelagniolo, presenta i proprî versi come buonarrotiani sapendo che non lo sono, attribuendo al poeta delle Rime il proprio pensiero: «Oltre alla burla, c’è dunque il caso più bizzarro di ricezione creativa attraverso la contraffazione teatrale. Peccato, però, che Fo non abbia avvertito il lettore sprovveduto, incapace di distinguere l’autentico dal pastiche».

Umberto Saba svela apertamente i proprî debiti:

E se ’l volgo malvagio, isciocco e rio,

di quel che sente altrui segna e addita (Michelangelo)

Solo il volgo m’offende, egli che fuori

del mio bene mi trasse, e con impronte

dita toccò la mia ferita ascosa (Saba)

Oltre a definire il Buonarroti «poeta dal vigoroso e originale timbro stilistico», Carlo Emilio Gadda ricalca non pochi luoghi delle Rime: evidenti, ad esempio, le consonanze tra il ritratto della Battistina in La cognizione del dolore con la rima Io l’ho già fatto un gozzo in questo stento, in cui si riprende e insieme si amplifica l’immagine michelangiolesca del gozzo. Inoltre, alcuni versi giovanili del Gran lombardo riproducono, come avvisa Claudia Carmina, «l’esatta sequenza delle paronomasie in rima» di Scarco d’un’importuna e greve salma (n. 290, vv. 1-8).

Sandro Penna e Michelangelo poeta sono accomunati da un «indomabile e dolente innamoramento della vita» e dalla consapevolezza che dolore e piacere convivono, avvicendandosi e perfino confondendosi.

La presenza di Orfeo di Alda Merini contiene una sezione intitolata (dalle Michelangiolesche): «nel primo e nel terzo testo ad alcune immagini della Sistina, in particolare, negli Antenati di Cristo è ripresa in modo sintetico la sequenza delle storie della genealogia di Cristo che si trovano lungo le quattordici lunette (già sedici) e le otto vele, riprese dal primo Vangelo; mentre l’altra riprende una delle sibille, che fa parte del gruppo dei Veggenti che decora i peducci della Volta».

Dario Bellezza, che dell’identità amore-morte ha fatto uno dei cardini della sua poetica, ricorda Michelangelo per il suo ininterrotto dialogo con la morte:

Carico d’anni e di peccati pieno

e col trist’uso radicato e forte,

vicin mi veggio a l’una e l’altra morte,

e parte ’l cor nutrisco di veleno (Michelangelo)

Eccomi ancora nel mondo iniziato

carico d’anni e di peccati, involto in

insanie febbrili (Bellezza)

«Il peccato che ha confuso l’esistenza è naturalmente quello dell’amore ossessivo e omoerotico. Entrambi paiono aver percorso un tracciato catartico che comprende una presa di coscienza del male e notando, conseguentemente, come la morte sia portatrice di salvezza».

Patrizia Valduga «s’è presa il n. 247 (vv. 1-2) e il n. 102 (v. 1) e li ha copiati nella Tentazione [di Cento quartine e altre storie d’amore]»:

Caro m’è ’l sonno, e più l’esser di sasso,

mentre che ’l danno e la vergogna dura;

o notte, o dolce tempo, benché nero (Michelangelo)

In questa maledetta notte oscura

con una tentazione fui assalita

che ancora in cuore la vergogna dura.

[…]

Amica mia piccola, benché nero

a te paia ed eterno questo tempo (Valduga)

«I versi michelangioleschi sono sparsi nella prima strofa, sciolti nell’amalgama del testo, tanto che la copia invece d’essere una tessera del mosaico diviene il perno su cui è costruita l’architettura della Tentazione».

L’ultimo capitolo è dedicato alle traduzioni d’autore (Wordsworth, Symonds, Longfellow, Emerson, Tusiani, Jennings, Nims, Bull, Platen, Rilke, Van Suchtelen, Eekhout, Tjutčev, Ronày, Gradnik, Zardoya), alle trasposizioni delle Rime in musica (Tromboncino, Arcadelt, Bertini, Strauss, Wolf, Schoeck, Courvoisier, Mjaskovskij, Wetzler, Streicher, Britten, Dallapiccola, Flagello, Šostakóvič, Mitchell, Eidel) e ai ritratti di Michelangelo nel ruolo di poeta: vi si riferiscono in modo indiretto La scuola di Atene e Il Parnaso di Raffaello, I poeti di Cecco Bravo e Domenico Pugliani, Michelangelo incoronato dalle Arti di Sigismondo Coccapani, in Casa Buonarroti; ma rappresentano un autentico panegirico del poeta Michelangelo in meditazione poetica di Zenobi Rosi, sempre in Casa Buonarroti, e Michelangelo che legge le sue poesie in casa Aldovrandi di Francesco Vinea (1853).