Marco Santagata

Boccaccio. Fragilità di un genio

Milano, Mondadori, 2019

Un puntuale excursus biografico ed esistenziale attraverso fonti di prima mano. Il tratteggio psicologico del più poliedrico, curioso e innovatore scrittore del Trecento: Giovanni Boccaccio. Nel manuale di Marco Santagata, docente di Letteratura Italiana all’Università di Pisa, italianista esperto delle tre corone fiorentine, emergono le capacità e le fragilità di un genio che si forgia sul mito del verbo dantesco, segnando indelebilmente le scene culturali di Napoli, il suo habitat ideale, e Firenze, la sua casa, grazie alla vocazione di rendere popolari forme auliche di lingua letteraria, che lo portano a donare scritti in volgare per corti, gruppi umanistici e concittadini. Costretto dal padre mercante, Boccaccio di Chellino, a seguire la scuola d’abaco per una carriera mercantile nel capoluogo campano presso l’agenzia bancaria dei Bardi – finanziatori del re Roberto d’Angiò –, si dedica allo studio del diritto canonico, con la frequenza in terra partenopea ai corsi giuridici, dove incontra Cino da Pistoia, professore di diritto che lo sensibilizza alla lettura degli stilnovisti, di Alighieri, dei lirici latini, dello storico Tito Livio e dei romanzi di Chrétien de Troyes. Una formazione tra diletto e piacere che smorza i patemi del percorso intrapreso, permettendogli di maturare un «vivace eclettismo» (Surdich 2005, p. 135).

La corona certaldese-fiorentina nata nel 1313 adotta un modello poetico, Dante, e ricambia i suoi insegnamenti riservandogli un posto nei faldoni della storia: trascrive le sue epistole spedite a Cino da Pistoia e in particolare recupera un’altra corrispondenza in versi del 1319  tra lui e Giovanni del Virgilio, nella quale il sommo poeta aveva ritrovato l’egloga antica di Virgilio in versione originaria: «La trascrizione di Boccaccio ha un grandissimo valore, innanzitutto perché senza di essa non conosceremmo questi testi, gli ultimi scritti da Dante e gli unici da lui composti in versi latini. […] grazie a quella scoperta il genere bucolico cominciò a esercitare su di lui una grande attrattiva, una fascinazione che lo spingerà a coltivarlo in latino e in volgare» (Santagata 2019, p. 70).

Ricerca incessante e tumulti interiori: Santagata istilla nel corpus frammenti di malesseri che umanizzano la corona agli occhi del lettore: l’esigenza di comprensione intellettuale, la dipendenza dalla scrittura, l’obesità degli anni finali, che non doma l’idea di accrescere la risma del parlante volgare: «la voglia di integrarsi sembra quasi un modo per rintuzzare la paura di non essere accettato. Perfino nell’indefessa sperimentazione di generi e di tipologie letterarie si manifesta la volontà di esserci, di scrivere il proprio nome in tutti i registri degli autori» (Santagata 2019, p. 8).

Il debutto nel mare magnum della letteratura col poemetto dedicato all’aristocrazia partenopea, Caccia di Diana (1334-35), segue il filo strutturale della Commedia, dispiegandosi in terzine di rima incatenata, per via, in primis, di «un’ansia di promozione sociale della visione ingenuamente strumentale del giovane» (Santagata 2019, p. 33). Il successivo romanzo in prosa, Filoloco (1338-39), è ispirato a un’opera narrativa in versi non autografa: Floire et Blanchefleur (XII secolo). In questa sede appare la sua donna idolo, Maria-Fiammetta, personaggio visceralmente legato al vissuto amoroso dell’autore, in grado di presentarsi come mimesi della Beatrice dantesca.

La prima intuizione sperimentale della corona arriva negli anni seguenti coi poemi Filostrato (1339-40) e Teseida (1341), all’interno dei quali s’impone la novizia metrica dell’ottava rima, per favorire la musicalità dei versi sulla tematica dell’avventuroso amor di matrice cortese. Innovazione dalla «paternità contesa», data la presenza nel Trecento in Toscana dei “cantari”, recite e canti dalla medesima forma, diffusi pubblicamente dai “canterini”, che intrattenevano giocosamente le fasce umili della popolazione (Bruni 2007, p. 125).

La tensione espressiva delle opere aurorali si scioglie nell’appassionante umanità del suo capolavoro narrativo: il Decameron (1350-53). Il titolo grecizzato rimanda al libro Exàmeron, ovvero le prediche del vescovo Ambrogio sulla creazione del Genesi nei sei giorni della Settimana Santa del 387: dieci giornate di peste fiorentina, dieci giovani tentano di eluderla rifugiandosi in campagna, anestetizzando il tempo col racconto circolare di cento sarcastiche, melanconiche e sensuali novelle – centouno per Santagata, contando la novella delle papere, raccontata direttamente nell’introduzione della quarta giornata –, ideate per soddisfare le lettrici dell’epoca, costernate dall’impossibilità di non poter realizzare liberamente i palpitanti desideri carnali. La rubrica d’apertura rimanda al canto infernale di Paolo e Francesca con la simbologia di Galeotto, celeberrimo personaggio del ciclo arturiano, effige dei tormenti d’Eros: «Comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto» (Boccaccio 1350-53, p. 10).

L’opera è sospesa in un tempo narrabile nuovo: tra la fabula e historia si fa spazio la «fictio», zona tra il reale e la finzione che accoglie l’esigenza dello scrittore moderno di liberare la «divagazione poetica» (Curti, Menetti 2013, p. 6). Le intenzioni dell’autore sono chiarite dal proemio, a scanso degli equivoci che si succederanno dopo la pubblicazione, ma che non gli precluderanno il dilagante successo, favorito dalla sponda critica del collega d’intelletto Francesco Petrarca: «Intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in dieci giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate a lor diletto» (Boccaccio 1350-53, p. 13).

Il volume di Marco Santagata fa luce sui percorsi interpersonali e intrapersonali da viaggiatore-divulgatore che portano un archetipo della curiosità intellettuale, il Boccaccio, ad accantonare le insicurezze del periodo giovanile fino a cesellare uno stile unico, in perpetua esigenza d’evoluzione, focale nella costruzione dell’italiano letterario.

Bibliografia

Luigi Surdich, Il Duecento e il Trecento, Bologna, Il Mulino, 2005.

Marco Santagata, Boccaccio. Fragilità di un genio, Milano, Mondadori, 2019.

Francesco Bruni, L’italiano letterario nella storia, Bologna, Il Mulino, 2007.

Elisa Curti, Elisabetta Menetti, Giovanni Boccaccio, Firenze, Le Monnier, 2013.

Giovanni Boccaccio, Decameron, Milano, Fabbri Editori, 2001.

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