Anna Laura e Giulio Lepschy

La lingua italiana. Storia, varietà dell’uso, grammatica

Milano, Bompiani, 2019

Unanimemente considerato un classico del descrittivismo linguistico, l’agile prontuario dei Lepschy, citatissimo e più volte ristampato, offre un profilo storico e sociolinguistico dell’italiano contemporaneo scritto e parlato, oltreché una sommaria grammatica di riferimento, arricchita dalla discussione di Sedici punti di sintassi su temi dominanti, a beneficio dell’apprendente alle prime armi: «Il nostro scopo è di arricchire la consapevolezza dello studente italiano e di dare allo studente straniero la possibilità di capire un’ampia gamma di espressioni»: così la Prefazione. Una trattazione di grande interesse, che tuttavia — non risulta sia mai stato osservato — suscita in più luoghi dubbî, sconcerto e perfino dissensi, senza che ciò, si badi, diminuisca d’un ette il valore della pionieristica impresa (I ed. 1977). Nell’ordine:

‒ p. 107: «l’uso di a invece di in con i nomi di città e villaggi, originariamente caratteristico dell’Italia centrale, si è generalizzato: a Roma è ora normale, piuttosto che in Roma».

Nulla da eccepire, ma un cenno a espressioni come notaio in Roma, con sede in Roma e Fondazione X Y in Roma sarebbe più che opportuno in un compendio rivolto soprattutto a utenti scarsi o digiuni di cultura grammaticale.

‒ 118: «In certi casi la stessa parola si può trovare con una consonante singola e con una doppia; per es. […] filossera e fillossera, melone e mellone».

Si vorrà porre la prima coppia, costituita da pure varianti di forma, sullo stesso piano della seconda (lingua vs dialetto)?

‒ 129: «ora è abituale scrivere danno [verbo] sempre senza accento grafico».

Non diremmo «sempre»: nelle scritture più sorvegliate è frequente la distinzione tra voce verbale e sostantivo, così come — non solo nelle scritture sorvegliate — si distinguono e dài dalle omografe preposizioni.

‒ 134: «“i racconti (de o di) Il Mondo”».

Giovanni Nencioni: «La preposizione de non esiste nell’italiano odierno allo stato isolato e i dizionari la registrano perché compare nelle scritture letterariamente analitiche della preposizione articolata (de la, de lo ecc.) o nelle citazioni di nomi propri o di opere che cominciano con l’articolo» (in «La Crusca per voi», n. 13, ottobre 1996, p. 11).

144: «la specie, le specie; la superficie, le superficie (si incontrano anche i plurali le speci, le superfici, considerati meno corretti)».

Il plurale le superficie è ormai fuori corso da molti decennî, avendo lasciato libero campo alla forma qui inesplicabilmente indicata come meno corretta.

‒ 145: «per parole come pub e suspense si trovano ancora entrambi i generi».

Vero per suspense, non certo per pub, usato in italiano — secondo notano i lessici — rigorosamente al maschile.

‒ 145: «forme come […] qualcosa […] sono di solito singolari maschili».

Non già «di solito», bensì sempre indistintamente il pronome indefinito qualcosa è di genere maschile, a meno che non s’intenda sancire la grammaticalità di frasi come è successa qualcosa.

‒ 152: «esso si riferisce normalmente a cose e animali».

Secondo l’uso vivo (unico principio-guida dei Lepschy), il pronome esso si riferisce a cose, non più ad animali.

‒ 153: «l’uso di voi sta diminuendo, e a uno studente straniero può convenire limitarsi a lei per i conoscenti, e al tu per amici e colleghi».

L’uso di voi non sta diminuendo: è completamente scomparso, e lo «studente straniero» avrebbe il diritto di apprendere che l’allocutivo sopravvive soltanto nel parlato informale del Meridione.

‒ 169: «“mi dai qualche esempio?”».

Gli Autori sconsigliano, dunque, l’accento grafico non solo sulla sesta, ma anche sulla seconda persona del presente indicativo del verbo dare, malgrado la stragrande maggioranza degli scriventi sia di opposto avviso?

‒ 186: «Perfino con verbi pronominali in cui la forma senza pronome non sarebbe ambigua, occorre dire “vogliono che tu ti penta” e non “vogliono che ti penta”».

Non è chi non colga l’infondatezza della restrizione — tanto più singolare in quanto proveniente dai più acri oppositori della norma linguistica —, vista la perfetta equivalenza grammaticale e semantica delle due proposizioni.

‒ 197: «do, dai, dà, diamo, date, danno».

Si disapprova l’accento grafico sulla seconda e sulla sesta persona? Passi. Ma perché prescriverlo sulla terza al fine di evitare ambiguità, visto che tale criterio è tutt’altro che inviso ai Lepschy? («qui e qua si scrivono senza accenti grafici: non ci sono omografi con cui confonderli», p. 91).

‒ 239: «“Ada ha mangiato (o mangiati) due gelati”».

Raffaella Setti: «Quando il participio passato serve a realizzare una forma composta di un verbo con l’ausiliare avere (“tra i molti libri che ho letto/letti, non saprei quale consigliarti”), la forma verbale può rendersi autonoma dall’accordo, assumendo la forma impersonale e invariabile del genere maschile. Naturalmente questo non esclude che gli scrittori, per motivi legati al genere letterario o al gusto stilistico, possano scegliere, anche in questi casi, di accordare il participio passato al nome. Storicamente, riprendendo la trattazione di Rohlfs, si noterà che, giacché i tempi composti con avere per indicare il passato muovono dalla forma tardo-latina DOMUM CONSTRUCTAM HABEO (“ho una casa costruita” che passa a “ho costruito una casa”), “appar chiaro che in origine il participio s’accordava col relativo oggetto-accusativo”. Tuttavia, “col passare dei secoli s’è avuta una sorta di fossilizzazione del participio” e “col perdersi della coscienza del significato originario, l’accordo del participio non fu più strettamente osservato”. La casistica è ricca di esempi e conferma, come ha rilevato Serianni nella sua Grammatica italiana, che “l’uso più tradizionale sembra essere o essere stato quello di accordare il participio col complemento oggetto, sia che questo seguisse il participio, sia che lo precedesse”, ma “la tendenza attuale è quella di lasciare invariato il participio, quale che sia la posizione del complemento oggetto”» (Redazione Consulenza Linguistica dell’Accademia della Crusca (link).

‒ 244: «Nella scrittura si trova ci avresti, ci hai, o c’avresti, c’hai».

Com’è noto, la c non seguìta da i o e ha valore velare, per cui c’hai e c’avresti valgono rispettivamente che hai e che avresti, non ci hai e ci avresti. Le grafie popolari (e non le scritture tout court) ammesse dai Lepschy sono adibite unicamente nei testi letterarî mimetici dell’oralità.

‒ 245-46: «“bada di non cadere” (in una circostanza specifica), […] “bada a non cadere” (in generale)».

Le due reggenze preposizionali sono affatto indifferenti sul piano semantico.

‒ 255: «“è giusto (di) fare così”».

La variante preposizionale è ignota all’italiano scritto e parlato.

‒ 256: «“dentro la (o alla) scatola”, ma “dentro di noi”».

Il tipo dentro noi è ricco di attestazioni letterarie (cfr., ad esempio, il D’Annunzio notturno: «Era in me, dentro me, nel tempo della lotta e della furia. La portavo dentro me»); Tienimi dentro te è il titolo di due canzoni di successo firmate da Fabio Concato (1984) e da Antonello Venditti (2015); Dentro me tocca quasi il milione di risultati nel motore di ricerca Google.

‒ 258: «“mi gli presentano” e “gli mi presentano” possono entrambi valere ‘presentano me a lui’. Questi nessi sono comunque duri e generalmente evitati».

Generalmente? Questi nessi sono accuratamente evitati nell’italiano moderno, e il prospettarne anche solo una remota plausibilità in un’opera d’uso eminentemente pratico non può non ingenerare la più sviante, antipedagogica babilonia.