Alessandro Zaccuri
Nel nome
Milano, NNE, Milano, 2019
«Ciò che ci resta è il nome soltanto: / protratto suono meraviglioso», recita in una poesia Osip Mandel'štam. Il nome, in realtà, non è solo ciò che ci resta, ma è anche l’unica sequenza di foni che riusciamo a pronunciare di fronte alla paura della fine. Dopo quel rumore sul pavimento se ne aggiunge un altro, inconfondibile, che assomiglia a una «specie di ringhio», «la cattiva imitazione di un uomo in lacrime»: una parola gli esce, per due volte, come se in quel tentativo di chiamare ci fosse la disperata volontà di trattenere tutto, persino la morte. Anna. Anna poi si riprende – prima della effettiva caduta –, ma è in quel momento che il nome diventa molto più della storia di un corpo. Zaccuri, Nel nome (NN editore, 2019), traccia un filo conduttore tra la potenza della nominazione (che fa esistere) e il destino che questo atto ci cuce addosso. «Non poteva esserci contraddizione tra Maria e Maria. Era il nome stesso a impedirlo». Ai nomi del resto non si sfugge, e dopo la morte della madre Anna – Maria è il secondo nome, perché è sempre un posto nascosto – il narratore è costretto ad accogliere in sé un viaggio che ha la forma di una preghiera. Pensiamoci, quando preghiamo cosa stiamo dicendo esattamente? Il rosario non è solo una continua invocazione alla Vergine, ma la ripetizione del suo nome, che nella formula dell’avemaria diventa così suono da farci immergere in una musica che oltrepassa contesto, storia e senso testuale. E Maria, anche se è un nome comune, non è un nome qualunque: il suo significato, seppur potentissimo significante, trattiene in sé qualcosa che ci riguarda da vicino. Per questo il narratore, dopo la morte della madre, confessa di abitare una “scuola di Marie”, dove la Maria del cartellone pubblicitario ha qualcosa da condividere con la Maria di Via Sardegna, la Maria dei Ricchi e Poveri con qualcuna delle Marie degli scritti veterotestamentari. «Sono le Marie in incognito, travisate persino a se stesse per scrupolo di pudore o smania di altezzosità, ad appassionarmi di più. Le cerco in continuazione, nei dipinti come nelle pagine del Vangelo, nelle donne che incontro e in quelle che gli scrittori hanno immaginato prima di me».
In ciascuno di noi abita una Maria. Che lì sia ad aspettare al secondo gradino del nostro nome o che giunga nella forma di liberazione dai demoni (come Maria di Màgdala) o ancora nella triade di appellativi mariani di fedeltà, fiducia e sofferenza (come la madre di Gesù), «Maria è sempre destinata a stare qui e non qui, tra l’erranza della fuga e la trasparenza dello sguardo». Sono i contrasti della sua storia a diventare rivelazione per il nostro percorso umano. C’è un episodio, in particolare, che lo racconta. Su un treno diretto al Sud, c’è un donna che urla in preda alla disperazione: è chiaramente una madre che ha perso la figlia, urla il suo nome, pretende di riaverla con sé. Dentro di lei dominano i demoni: il senso di colpa e il caos, quello che viene immediatamente associato ai pianti strazianti del racconto della figlia di Giàrio, anima che “dorme” semplicemente. In quel racconto, di fronte alla morte Gesù invoca straordinariamente al silenzio. Lo stesso silenzio che i passeggeri continuano a ripetere in testa. La madre che grida senza pietà veste invece i panni della ribelle e allo stesso tempo perdonata Maria di Betania, la misteriosa donna (mai nominata Maria) che aveva anticipato l’unzione di Gesù, scatenando l’ira dei presenti per aver sprecato troppo olio (Marco 14,3-9). Ma manca ancora qualcosa a questa scena per far sì che il filo torni a riannodarsi. «L’idea era venuta all’infermiere riccetto: “Come si chiama sua figlia?”, le aveva chiesto. Era uno stratagemma anche questo, ma benevolo. Un modo per costringerla a sbilanciarsi. Aveva funzionato». Esce veloce dalle labbra quel «Livia», e l’universo si ferma per qualche secondo. Ecco che tutti iniziano a ripetere nel pensiero un nome che conoscono, che amano ripetere. In questa litania sembrano così uguali nel dolore. «Nel racconto dei Vangeli rimane sempre un nucleo di umanità che si lascia riconoscere al primo sguardo. La donna che sanguina, la madre che piange, la figlia morta raccontano la stessa storia di dolore e salvezza, sono le vere protagoniste dell’epopea femminile che Marco sta costruendo sotto i nostri occhi [...] tra il luogo dell’impurità irrimediabile e quello in cui i credenti si riuniscono per trovare rifugio».
La rete di ogni storia di dannazione e liberazione nasconde una Maria, anche se questo nome magari non viene nemmeno citato. Come ricorda Zaccuri, «non occorre essere senza nome per passare inosservati». Nei Vangeli, in particolare, la sua presenza è massiccia, anche se non corrisponde a un riconoscimento adeguato. In sostanza Maria «[...] è una sconosciuta. Discretamente celebre, ma sconosciuta». Le Marie non solo si moltiplicano nella ricostruzione delle donne che accompagnano la madre di Gesù sul luogo del supplizio. Nella vita reale del protagonista accade qualcosa di ancora più misterioso. È come se la presenza di una Maria (la madre defunta) scatenasse continue epifanie. Così, anche la zia Grazia, accanto ad Anna (Maria) diventa una moderna Marta: «Assurta a simbolo della vita attiva, Marta si distingue anche qui, sotto la croce, per l’umiltà con cui porta a termine il proprio compito. Fa quello che c’è da fare e, siccome nel mondo qualcosa da fare c’è sempre, è impossibile che lei perda tempo a riposarsi». Non è l’affanno ad essere ripreso da Gesù, bensì l’interpretazione di questo affanno. Anche Maria, seppur ferma e in contemplazione, svolge il servizio di “serva” che Marta rivendica. Ecco il filo che il narratore vede ovunque. D’ora in poi, nella storia dell’umanità, l’una non può esistere senza l’altra. Zaccuri, ancora una volta, riesce ad aprire la nostra memoria interiore: «Le due sconosciute si incontrano, alla fine. Si ritrovano nel nome».