Elisabetta Magni

L’ambiguità delle lingue

Roma, Carocci, 2020

Parole labirinto

Ambiguità è una parola labirinto ed è facile che ci si perda solamente a pronunciarla, ma è anche una sfida, un ventaglio di possibilità, è «perdere la certezza dei significati per moltiplicare il potere delle parole, l’univocità della percezione per scoprire nuovi punti di vista sulle immagini, la sicurezza delle scelte per giocare con la complessità delle situazioni» (p. 9). Un nemico del parlar chiaro (in questi tempi incerti indispensabile più che mai); un alleato della creatività , anzi per dirla con Empson l’elemento fondante della creatività poetica «the machination of ambiguity are among the very roots of poetry», l’origine dell’indecisione che mette in gioco chi crea e chi dovrà leggere, un insieme di sentieri da percorrere, più che una via da evitare (come era per la retorica romana): vitanda in primis ambiguitas […] quae incertum intellectum facit (Quintiliano).

L’ambiguità delle lingue

Ma per non cadere nella trappola e per evitare le insidie della vaghezza è bene procedere con ordine. «Collocato nel contesto specifico del linguaggio (cioè la facoltà di comunicare mediante codici segnici), il fenomeno si rivela quindi come una proprietà che è inerente a tutte le lingue naturali e che, a una prima analisi, discende dall’imprecisione e dalla relativa ristrettezza dei mezzi che la veicolano» (p. 13), scrive Elisabetta Magni nel suo volume, L’ambiguità delle lingue, che ci accompagna in un viaggio attraverso le manifestazioni del fenomeno, un viaggio che muovendo dalla definizione del concetto (con l’esclusione dei suoi affini) e della sua storia risponde a interrogativi che da sempre affascinano chi si misura con il segno linguistico (specialisti, ma anche creativi): perché esistono parole ambigue nelle lingue? Questa ambiguità è un fattore negativo o positivo? Un ostacolo o un vantaggio per la comunicazione? Il libro accompagna il lettore attraverso le diverse manifestazioni del fenomeno, in sincronia e in diacronia, in diverse lingue antiche e moderne: l’obscuritas e la perspicuitas nel mondo antico; le fallacie dell’ambiguità e il linguaggio filosofico e ancora il linguaggio figurativo (con le sue illusioni) e quello verbale con le diverse forme dell’ambiguità (nella scrittura, nella pronuncia, nella semantica, nelle categorie lessicali, nella morfologia, nella sintassi, nella pragmatica). «Nei diversi livelli della lingua l’ambiguità presenta una gamma di manifestazioni che varia da quelle più evidenti e intricate a quelle più nascoste e insignificanti, che gli interlocutori neanche percepiscono» (p. 78), non necessariamente un ostacolo per la comprensione e la comunicazione dei concetti, ma un costo supplementare effettivo per i parlanti.

«Una sfida per i modelli teorici di tipo funzionalista, che spiegano le proprietà dei sistemi linguistici in relazione all’uso che ne fanno i parlanti, ed è invece un argomento per chi, in ambito generativista, contesta l’idea che il linguaggio si sia evoluto ai fini della comunicazione. Entrambi i punti di vista colgono paradossi con cui confrontarsi: se l’ambiguità rappresenta un potenziale fattore di disturbo per la comprensione reciproca, è pur vero che non viene evitata in modo sistematico. E se può essere risolta mediante la competenza comunicativa, è tuttavia innegabile che il suo ruolo nel funzionamento e nello sviluppo delle lingue sembra ancora un rompicapo di difficile soluzione» (p. 78).

Motivo generante e prodotto del mutamento

Nella prospettiva dell’uso e del divenire delle lingue l’ambiguità diventa l’ingrediente inevitabile che da un lato incarna il ruolo di motivo generante, dall’altro è un potenziale prodotto del mutamento, ma anche la sua incognita: «l’ambiguità è una presenza certa delle lingue e l’incertezza conduce alla scoperta di significati plurimi. Infatti, è il dubbio nell’interpretazione che materializza le molteplici possibilità di lettura dei segni e delle loro combinazioni» (p. 130).

Gli esempi del volume sono moltissimi e diversi, aiutano a non perdere il filo, a non errare senza una meta, vagabondi nelle trame del linguaggio. Proprio vagabondo (accompagnato dal caso analogo di postumo, pp. 95-6), è uno di questi: uno tra tanti, due casi di rianalisi morfologica e semantica che passano per il fenomeno dell’etimologia popolare (o paraetimologia), cioè dell’«accostamento di una parola la cui articolazione interna risulta opaca con un’altra parola formalmente simile ma in genere etimologicamente irrelata» (Baglioni, 2016, p. 88). Così il lat. vagabundus lett. ‘che è incline a vagare’ (derivato in -bundus dal verbo vagor ‘errare, vagare’), regolarmente continuato nello spagnolo vagabundo, si rimotiva semanticamente sdoppiandosi nel più limpido vagamundo ‘giramondo’ (che ora ha anche il femminile vagabunda). «Language is inherently ambigous and uncertain. That is the problem and the power of the system» (Lieberman), il motore che moltiplica il potere delle parole, le sdoppia, le rende affascinanti e complesse.

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