Anna Maria Milone
La valigia è vuota. L’arte di Giose Rimanelli
Introduzione di Raffaele Manica
Roma, Castelvecchi, 2020
Forse lo scrittore molisano fu agli esordî colpevolmente sottostimato (si discorre nientemeno che di «linciaggio morale dell’intellighenzia nostrana» e di «oscuramento nell’accademia italiana») come supervalutato post mortem (l’influsso dell’americano Fenoglio, a dirne una, è troppo lampante e diffuso per riconoscergli originalità e temerarietà sperimentale da outsider), ma è certo che non esiste biografia letteraria più avvincente della sua, e questo è più che sufficiente per avviare un supplemento d’indagine a fini riabilitativi.
In breve. Nei primi mesi del 1950 Rimanelli presenta a Cesare Pavese, redattore di Einaudi, il suo primo romanzo, Tiro al Piccione, come uno squarcio sulla Resistenza «dalla parte sbagliata» (il giovane protagonista-alter ego segue i tedeschi per poi arruolarsi quasi per caso e senza convinzione politica tra i repubblichini di Salò). Malgrado qualche perplessità, Pavese apprezza nel complesso l’opera e scrive immediatamente al suo collega Carlo Muscetta della redazione romana:
[C]on tanta materia sanguinolenta, orrida e oscena, pecca per sentimentalismo. Del resto essere sentimentali vuol dire esser deboli (letterariamente): cedere alle sensazioni e agli umori, e quindi al gusto per il truce, il violento, il colorito, il sensuale. Aggiungi che sul fiammeggiare aggettivale e verbale della sua prosa descrittiva, Giose ha sparso il pepe del turpiloquio neorealista. Insomma, potare, sfrondare, neutralizzare, verniciare.
A maggio Pavese e Calvino indicano alla redazione i limiti dell’opera («sia letterari che come documento politicamente educativo»), sottolineandone però lo straordinario vigore descrittivo. Il romanzo viene impaginato per la collana «I coralli». Le prime bozze escono dai torchi e qualche giorno dopo, il 27 agosto 1950, Pavese si uccide. Come Calvino, anche l’altra colonna della Casa torinese, Natalia Ginzburg, giudica il libro troppo acerbo, oltreché portatore d’una visione eslege della Resistenza, tema in quegli anni a dir poco rovente. Non se ne fa più nulla. Tre anni dopo Elio Vittorini propone il romanzo alla Mondadori, che lo dà fuori non senza successo nella «Medusa degli Italiani». Nel 1959 Rimanelli pubblica sotto falso nome per Sugar Il mestiere del furbo, silloge d’infocati scritti critici in cui non solo ridimensiona i giganti d’allora (Moravia, Falqui, Bassani, Pasolini), ma si scaglia contro l’intera élite culturale italiana, senza risparmiare conventicole e premî letterarî. Non appena lo pseudonimo cade, il giovane scrittore viene esiliato dalla cultura italiana e scancellato dal canone. Ciononostante inizia a collaborare con una testata di estrema destra, «Lo Specchio», attaccando brutalmente «i baroni della società letteraria — i Baldini, i Bontempelli — per di più sulle pagine di un giornale ambiguo. Fu un suicidio involontario. Tutte le porte di quel mondo mi vennero chiuse; non mi rimase che andarmene». Emigra negli Stati Uniti, dove diventa uno stimato docente universitario di letteratura comparata (sua l’idea degli Italian Cultural Studies). Nel 1961 il regista ventinovenne Giuliano Montaldo porta sul grande schermo la storia di Marco Laudato, il protagonista di Tiro al Piccione, ed è quasi costretto a condividere la sorte del suo autore: «Al pubblico piacque, ma la critica, sia da destra che da sinistra, mi fece a pezzi. Fu un grande dolore, pensai anche di cambiare mestiere».
All’innegabile spessore tanto estetico quanto “grammaticale” della scrittura rimanelliana fa eco, in questo lemma della collana «Encyclopedia» diretta da Arnaldo Colasanti, l’originalità e l’audacia del metodo esegetico. La studiosa passa infatti «a setaccio la vita e le opere di Rimanelli» offrendo (con un ette di scolasticità, ma «tutti i metodi sono buoni quando sono buoni», diceva Croce) un ritratto dell’artista e un referto del suo stile plurilinguistico all’insegna del più acceso, turbinoso espressivismo, mutuando da linguisti come Bloomfield, Giddens, Hall, Gumperz, Blom e Poplack i seguenti concetti-guida o «paradigmi di riferimento», utili a penetrare nell’operosissima officina:
‒ code switching o commutazione di codice: passaggio funzionale da una lingua a un’altra nel discorso di un parlante: strategia discorsiva tipica dei bilingui;
‒ metaphorical switching: tendenza in una comunità bilingue o multilingue a cambiare lingua o varietà linguistica in una conversazione per discutere un argomento che normalmente rientrerebbe in un altro dominio;
‒ situational switching: tendenza in una comunità bilingue o multilingue a usare lingue o varietà linguistiche diverse in situazioni sociali diverse;
‒ intersentential switching: «code switching in senso proprio, uso della lingua in cui si alternano frasi con codici diversi»;
‒ intrasentential switching: passaggio da una lingua a un’altra all’interno della stessa frase;
‒ tag switching o switching extrafrasale: «commutazione di interiezioni, frasi idiomatiche, espressioni di coda senza che vi sia influenza sulla grammatica della frase, […] notevolmente inficiata nei casi precedenti».
Queste le conclusioni:
[N]el caotico raccontare rimanelliano, all’interno della riscrittura, la commutazione è un efficace mezzo espressivo che […] stupisce il lettore: la lingua e i riferimenti analizzati stabiliscono delle corrispondenze e un ordine che orientano il lettore, in modo del tutto naturale, come una necessaria evoluzione della vicenda narrativa. Di tutti gli elementi che Rimanelli dissemina nei suoi testi, riferimenti colti, miti ed eventi storici, la lingua del code switching si rivela il tassello unificatore, la chiave utile all’interpretazione dell’opera. […] la letteratura di Rimanelli è un emblema: riferendosi al villaggio globale tramite l’uso specifico della lingua, racconta le nuove frontiere liquide della società, e, per quanto affascinante possa essere come prospettiva, è da sottolineare come essa porti in sé il germe della spersonalizzazione, il rischio dell’omologazione. A tal proposito, Rimanelli, nell’intento di salvaguardare la ricchezza e l’unicità individuale, ricorda e sottolinea come gli unici strumenti a disposizione per riuscire a far sopravvivere e conservare l’identità siano la memoria e la lingua. […] Incurante del pubblico e dell’editoria, Rimanelli scrive per sé, non per questioni memoriali, ma per risolvere un problema che le strutture sintattiche e linguistiche palesano, che si esprime quindi in veicoli letterari, ma che ha risvolti sociologici, come lo studio della commutazione vuole dimostrare.