Bice Mortara Garavelli

Silenzi d'autore

Roma-Bari, Laterza, 2015

«Ma se il silenzio non può dirsi in quanto silenzio, potrà mostrarsi l’Ineffabile in quanto Ineffabile?». Dalla domanda con cui Massimo Cacciari apre il saggio che prende a prestito il titolo di uno tra i più bei racconti di Leskov, l’Angelo sigillato, sembra trarre spunto anche la mossa d’avvio dell’ultimo lavoro di Bice Mortara Garavelli: «Nella pratica del silenzio la forma e l’oggetto sono tutt’uno. Non si spiega, né si narra né si descrive il silenzio con il silenzio stesso» (p. vi). Al di là di questa evidenza però, l’ampia ricognizione sul tema proposta dall’autrice dimostra in modo altrettanto lampante come nel cono d’ombra delle parole il silenzio in realtà possa essere detto, mostrato, fatto percepire, assunto addirittura a regola di vita.

Lasciati come in disparte, per questa occasione, i panni (e gli attrezzi) che le competono da un punto di vista professionale, Mortara Garavelli non affronta il suo oggetto da una prospettiva formale o linguistica. Alla «pratica del silenzio» a cui il libro è dedicato va dato dunque un senso estensivo, che dal piano letterale (il silenzio come assenza di voci e rumori) vira subito verso quello metaforico (il silenzio come pace interiore), ma soprattutto non lascia per strada alcun referente figurale (da quelli più immediatamente percepibili dai sensi come il buio, l’oscurità, l’ombra, la notte, a quelli più misteriosamente implicati con l’animo umano come il timore, la vergogna, il senso di colpa, il dolore, la ricerca di assoluto ma anche il sogno, la relazione con la natura e il paesaggio ecc.).

La campionatura è così molto varia e segue percorsi diversi: dai tragici greci (Eschilo, Sofocle, Euripide) agli scrittori latini (Virgilio e Seneca), dai classici italiani (Dante, Ariosto, Tasso, Leopardi, Manzoni ecc.) ai contemporanei (Eugenio Montale, Renato Serra, Carlo Levi, Elsa Morante, Anna Maria Ortese ecc.).

Nel terzo capitolo tuttavia, Di fronte all’indicibile, l’oggetto del discorso almeno in parte cambia e cambia con esso la domanda di fondo: che cosa possono le parole di fronte ad Auschwitz? È stata ed è in grado la lingua di esprimere l’offesa che l’Olocausto rappresenta? La rassegna di passi significativi coinvolge autori come Primo Levi, Cesare Segre, Hannah Arendt. Ma attorno alla difficoltà di dire quel fatto o tacerlo, ci sono poi altre forme di silenzio che lo riguardano. Sono così ricordate le parole della filosofa ungherese Ágnes Heller, secondo cui a definire l’Olocausto concorrono quattro tipi di silenzio: «il silenzio della mancanza di senso, il silenzio dell’orrore, il silenzio della vergogna, e quello della colpa».

La tappa successiva di questo percorso è dedicata al rapporto tra vita religiosa e silenzio, che rovescia la prospettiva del capitolo precedente: non più un silenzio che non sa dire per troppo dolore, troppa angoscia, troppa tragedia, ma un silenzio come atteggiamento contemplativo, che si dispone all’ascolto, che fa spazio al trascendente. Attraverso una serie di citazioni da un padre della Chiesa come Ignazio di Antioquia o da un padre del monachesimo occidentale come san Benedetto da Norcia, con i quali si delinea una strategia virtuosa per accordare il silenzio interiore a quello esteriore, si giunge ai colloqui silenziosi dei mistici, o meglio di tre mistiche come Chiara d’Assisi, Caterina Fieschi, Caterina Vannini. Le parole del cardinal Martini suggellano infine il discorso toccando anche il silenzio della malattia. Sulla soglia d’uscita del libro inoltre solo un breve accenno alle assenze, che si volgono così in presenze. E il riferimento va soprattutto al rapporto tra silenzio e musica, con il ricordo molto opportuno della composizione 4,33 di John Cage.

Dalla letteratura alla storia al rapporto con l’eterno (nella duplice prospettiva del silenzio di Dio e del silenzio degli uomini nei fatti di Dio); dal dicibile letterario all’indicibile storico all’inesprimibile metastorico: una parabola ampia e articolata destinata a sollevare molti spunti di riflessione. Che rimangono però impliciti, silenziosi. L’autrice infatti sceglie un approccio per nulla invasivo, intervenendo solo di rado a suggerire collegamenti o interpretazioni, a segnalare fatti di lingua o di stile. Si tratta dunque di un’opera aperta, che interpella il lettore da un lato lasciandogli spazio affinché agli autori e ai brani citati possa aggiungere anche una propria lista (tra cui, a mio avviso, Vassilij Grossman per il tema del rapporto tra silenzio e parola nell’ambito del sistema delatorio sovietico), dall’altro invitandolo a “far parlare” i testi oltre la loro evidenza documentaria.

Su quest’ultimo aspetto potrebbe essere istruttivo procedere a qualche confronto: i brani tratti dalla classicità sembrano ad esempio far emergere chiaramente, al di là del genere testuale, la diversità di approccio al tema tra il teatro greco, tutto preso nel conflitto, che produce destini, tra parlare e tacere, e l’epica virgiliana che ama l’apertura paesaggistica notturna; si potrebbe d’altra parte mettere in rapporto la taciturnitas prescritta dalle regole monastiche con quella latina, senechiana, in cui pure si coglie una ricerca di profondo e pacificato equilibrio tra l’interiorità dell’individuo e le sue relazioni sociali. E così via.

Basti a questo punto notare che una volta illustrata, grazie alla ricchezza di un libro che non poteva essere esaustivo, la molteplicità di significati di cui il silenzio si fa carico quando cede alla necessità del verbo si può forse avviare uno studio più analitico, che miri ad una classificazione dei diversi tipi di silenzio e delle modalità con cui esso prende forma sulla pagina.

Da questo punto di vista i silenzi d’autore, di cui ci ha dato conto con generosità Bice Mortara Garavelli, accanto al loro valore estetico e morale rappresentano un efficace e imprescindibile punto di partenza per un lavoro che resta felicemente tutto da fare.

Fabio Magro