Paola Italia

Il metodo di Leopardi. Varianti e stile nella formazione delle Canzoni

Roma, Carocci, 2016

Paola Italia, docente di letteratura italiana alla Sapienza, ricostruisce il metodo di lavoro di Giacomo Leopardi che ha portato alla creazione di una nuova lingua della poesia; studia il laboratorio linguistico e letterario delle Canzoni del 1824; cerca i modelli, il metodo, la storia e l’evoluzione delle sue varie “forme”: “prima forma”, Recanati 1820; “seconda forma”, Recanati 1822; “terza forma”, Roma 1823 (a cui va aggiunta l’ultima stazione del testo: la stampa bolognese del 1824). All’identificazione delle tre forme, a quella cronologica e del toponimo, la studiosa aggiunge anche un’etichetta di riconoscimento, legata alla precisa strategia poetica del testo. La prima, antifoscoliana; la seconda, antimontiana; la terza è quella dello scontro tra le aspettative del poeta e  l’inesistenza del mondo letterario romano, che lo porta ad affermare che la sua «sudatissima e minutissima perfezione nello scrivere» forse potrà essere compresa «da due o tre persone in tutto», ma è proprio per quei due o tre lettori che lavora: a loro guarda con orgoglio, per loro segna una nuova strada.

Una vera e propria rivoluzione linguistica

Leopardi è ferreo, vitale, potremmo dire, battagliero, se è vero che scrive nelle sue Annotazioni: «bisogna che tu mi dii licenza di fare alle pugna come s’usa in Inghilterra e di chiarirli <…> che non soglio scrivere affatto affatto come viene, e che in tutti i modi non sarà loro facile, come si pensano, il mostrarmi caduto in errore». È convinto che la sua sia l’unica via percorribile e vuole convincere chi lo attacca; portare le prove, documentare la sua idea di lingua «pellegrina», e trova maggiore convinzione proprio dopo gli attacchi ricevuti dai primi recensori, dai pedagoghi e dai pedanti che gli rimproveravano, sebbene scrivesse come i grandi del passato, la deviazione dall’uso letterario. Si arma di pazienza, genialità e metodo per permettere alla sua poesia di (r)esistere in un’epoca impoetica e razionale; poggia la sua minutissima perfezione dello scrivere, su una profonda e strutturata consapevolezza; difende la legittimità della lingua pellegrina, da filologo: cerca i motivi delle sue scelte, annota le «credenziali letterarie in quell’uso linguistico che valeva più delle conferme di tutti i vocabolari, più delle autorizzazioni di tutti i cruscanti» (p. 19). Accompagna le sue dieci Canzoni, con settanta pagine di Annotazioni: un’operazione culturale (più che poetica), linguistica, ma anche politica in direzione della lingua degli Idilli che aprirà la strada alla poesia moderna.

Annotazioni****, un trattato di lingua

Le Annotazioni risultano, così, un caso emblematico di rapporto integrato tra filologia e critica, e il manoscritto un deposito di certificazioni linguistiche, canone letterario personale da contrapporre a quello ufficiale e cruscante. Quello di Leopardi è un «habitus linguistico che finisce per diventare fin ossessivo, e compulsivo» (p. 89): cerca e trova ogni espressione o locuzione; annota gli esempi certificativi, le “prove” del legame con la tradizione letteraria per garantire legittimità alla sua operazione linguistica. Nel volume vengono illustrati i tempi (dal gennaio 1822 al 5 dicembre 1823) e le modalità di composizione  di quello che risulta essere un vero e proprio trattato di lingua, a partire dall’osservazione e dallo studio attento del manoscritto napoletano, per cercare di capirne la composizione; studiare le successive integrazioni; giungere alla composizione diacronica del testo e alla sua stratificazione. Il poeta osserva un modus operandi non diverso da quello delle Canzoni: «compaiono “note di citazione”, “note compositive” e la varia lectio, costituita da varianti alternative, catene sinonimiche, oltre che da rimandi a fonti, per ulteriori luoghi del testo, sia di quello poetico sia di quello in prosa» (p. 96), integrazioni.

Le autorità linguistiche prese in considerazione? Tra le altre, da un lato un modello su tutti di stile eloquente: l’Apologia di Tasso, il più eclatante esempio di lingua poetica non canonica e per questo non canonizzata dalla Crusca; dall’altro Annibal Caro e i libri di Lettere, modello di stile familiare. In funzione della ricerca di una prosa più naturale e meno affettata che possa accogliere le forme del registro familiare.

La storia delle Canzoni e delle Annotazioni è anche una storia di difesa delle convinzioni del poeta,  di fallimenti e successive rinascite: dal fallimento della costruzione di una nuova lingua della poesia, e dalle ceneri delle Annotazioni maturerà l’idea di una nuova lingua per la prosa, che dovrà essere «moderna, filosofica (e quindi retoricamente attrezzata e sostenuta) perché dialogica (ovvero dotata di quella naturalezza familiare che abbiamo incontrato nelle lettere di Caro), di espressività raziocinante» (p. 128).

Un metodo travaglioso

Il metodo di Leopardi è un metodo travaglioso, per usare un aggettivo che, all’interno di questo sistema, è una variante tutt’altro che adiafora: quando Leopardi corregge «perché dolente» al secondo emistichio del v. 8., del componimento La luna, in «chè travagliosa» marca in maniera ancora più radicale il cambio di rotta che aveva dato all’idillio l’anno precedente, con l’aggiunta della Ricordanza nel titolo. Con questa variante, infatti, Leopardi «segna definitivamente il superamento del genere idillio» (p. 191).

Aggettivo non registrato dalla Crusca, usato però da Ariosto («e v’hebbe travaglioso albergo e crudo») e presente nel grande serbatoio della lingua classica e, ancora, in due lettere di Leopardi, proprio del 1820, troviamo «il travaglio di tanti anni di questa più bella età mia» (28 aprile) e «travaglioso» (7 dicembre), «travaglioso diventa quindi una marca di riconoscimento», «uno stato di disarmonia tra la propria indole e la natura» (p. 194). Non sarà un caso ritrovare l’aggettivo nelle Operette morali: «non basterà la coscienza della più retta e travagliosa vita ad assicurare l’uomo in sull’ultimo, dalla incertezza del suo stato futuro, e dallo spavento dei gastighi», nel Dialogo di Plotino e Porfirio, per esempio.

Il metodo di Leopardi è, quindi, uno stato d’animo, una condizione,  una «lucida condanna» (p. 194): un eterno travaglio (negli stessi anni in cui un altro gigante si misurava con una parte del suo ‘eterno lavoro’: Manzoni). È una storia di varianti che sono implicazioni, varianti che hanno una relazione profonda tra di loro e istituiscono un sistema.

Il volume, frutto di anni di studio, sul solco tracciato dai grandi maestri della filologia (Domenico De Robertis e Franco Gavazzeni, ma anche – ovviamente –  Dante Isella), mostra che un’edizione critica non è una riproduzione statica, ma una rappresentazione delle fasi di sviluppo, interpretate nella loro evoluzione,  per poter tracciare un diagramma dello stile dell’autore. Lo studio nasce dalla «convinzione che le Note, che Leopardi aveva pubblicato con il titolo di Annotazioni, racchiudano la chiave di interpretazione del metodo di lavoro utilizzato nel libro delle Canzoni, e tale chiave riguardi l’elemento più importante in questa stagione della poesia leopardiana, cioè l’invenzione di una nuova lingua della poesia» (p. 12).