Giuseppe Antonelli

Un italiano vero. La lingua in cui viviamo
Rizzoli, 2016

Proviamo a immaginare un mondo senza computer, senza email, senza cellulari né whatsappini, senza social network né like, un mondo come quello che descrive Baricco in Il nuovo Barnum (Feltrinelli 2016), «E poiché non esisteva Facebook, essere amici significava fare delle cose. Non parlarne, o raccontarle: farle. […] Anche quando ci scrivevamo, era una cosa particolare, accadeva di rado, e allora una lettera era molto più un fatto che un modo di comunicare. Era un gesto.» Ecco, quel mondo che adesso ci sembra quasi fiabesco, atavico, a dir poco improponibile, è stato fino a trent’anni fa il mondo in cui siamo nati e cresciuti noi, trenta-quarantenni di oggi, e tutte le generazioni che ci hanno preceduto. Un mondo che non esiste più, e così ci ritroviamo a destreggiarci più o meno brillantemente con le nuove tecnologie, immigrati digitali (cfr. Marc Prensky 2001: Digital Natives, Digital Immigrants) con un piede nel passato… e sulla punta della lingua – o, per meglio dire, delle dita – la lingua telematica del futuro. Già, perché al mutamento delle condizioni esterne della comunicazione non può che seguire un mutamento linguistico, ed è proprio da questa premessa, che cioè l’italiano cambi perché cambia il mondo in cui lo si usa, che prendono le mosse le riflessioni di Giuseppe Antonelli nel suo ultimo saggio Un italiano vero. La lingua in cui viviamo (Rizzoli).

Dal telefono alla scrittura quotidiana

L’e-taliano «che si è diffuso con le e-mail, si è affermato con gli SMS e ormai quasi tutti usiamo nei social network e nelle messaggerie istantanee, […] è il punto d’arrivo (inevitabilmente provvisorio) di una storia che dura giusto da tre decenni ed è un po’ la storia di ognuno di noi» (p. 167). Una storia che Antonelli ci racconta non senza un pizzico di nostalgia, quella della strenua ricerca dei fantomatici gettoni e delle file davanti alle cabine telefoniche, dei numeri di telefono imparati a memoria o affidati alle agendine, dell’epoca in cui alle ragazze si scrivevano lettere, lettere vere, e per redigere un testo formale o una tesina c’era bisogno di andare da chi aveva il computer o di farsene prestare uno da qualche amico precocemente informatizzato. Ma «la questione non è rimpiangere il passato» (p. 43), e così Antonelli ci guida con lucidità e dovizia di informazioni e di aneddoti (sapevate voi che a detenere dal 2014 il record di velocità di digitazione sulla tastiera di un telefono fosse un brasiliano diciassettenne?) attraverso le tappe della rivoluzione tecnologico-digitale degli ultimi decenni. Due gli aspetti cruciali tematizzati: il passaggio da una comunicazione informale quotidiana prevalentemente orale, in cui «sembrava che le telefonate dovessero uccidere la scrittura» (p. 145), al sopravvento di quest’ultima, sia pure nella sua forma digitale e digitata, e quindi le trasformazioni delle condizioni tradizionali della scrittura stessa: «Diffondendo con larghezza finora sconosciuta forme di scrittura quotidiana, la neoepistolarità tecnologica ha profondamente cambiato l’idea stessa della scrittura» (p. 195).

I vocali alla riscossa?

Che l’avvento delle tecnologie telematiche abbia riportato in primo piano la scrittura è fuori discussione: l’enorme mole di email, post, sms, messaggi istantanei whatsapp, tweet e commenti vari che scriviamo quotidianamente supera di gran lunga non solo la produzione epistolare degli italiani ante-digitanti (per così dire “antenati” dei nativi digitali), ma anche quell’oralità della comunicazione a distanza (telefonata) che pure per un certo periodo si era creduto potesse soppiantare la scrittura epistolare. Ma il ritmo della spirale comunicativo-tecnologica scorre rapido, e mentre ancora sorridiamo dell’ingenuità di chi solo qualche decennio fa dava la scrittura per spacciata, il prossimo slittamento comunicativo è già dietro l’angolo: nell’universo comunicativo digitale dominato dalla neoepistolarità tecnologica cui fa riferimento Antonelli mi sembra che si stia di nuovo facendo strada l’oralità, almeno per quanto riguarda le interazioni tra i più giovani. Ai “whatsappini” digitati si affiancano – e forse già si sovrappongono – i cosiddetti “vocali”, messaggi audio registrati col cellulare e inviati agli amici perché li ascoltino – ed eventualmente riascoltino – nel momento più opportuno. Alla catena di passaggi giustamente individuata da Antonelli «dal cartaceo al digitale, dalla penna alla tastiera, dallo scrivere al digitare» (p. 148) aggiungerei quindi un altro passo – ancora in fieri – verso il recupero dell’oralità, per quanto differita: dalla conversazione simultanea a quella frammentata, dal parlato al registrato, dal dialogo al “vocale”. Restano invece assolutamente valide le considerazioni di Antonelli sulle mutate condizioni della scrittura che passa nella sfera dell’effimero perdendo «quell’ufficialità e intrinseca solennità di cui si era sempre ammantata» (p. 155).

Meno gergo, nella “realtà reale”

Il percorso procede attraverso forme, generi e modalità della scrittura digitata spaziando dall’email agli ormai quasi vetusti SMS, senza dimenticare di evidenziare la microdiacronia interna alla CMC (comunicazione mediata dal computer), per cui al progressivo avvicinamento tra realtà virtuale e “real life” (o «realtà reale», come la chiama Antonelli) si deve la progressiva diminuzione degli usi gergali (abbreviazioni, grafie particolari, formule fisse) che caratterizzavano la prima fase della scrittura telematica.

E-taliano con ironia

Per quanto la trattazione di Giuseppe Antonelli si faccia più tecnica man mano che ci si addentra nella descrizione delle forme dell’e-taliano, lo stile brillante e l’ironia sottile dell’autore rendono la lettura particolarmente gradevole, e osservazioni del tipo «tutti noi ci troviamo, nostro malgrado, a vivere nell’acronimato» (p. 47) assediati da sigle ambigue, o «neanche uno scrittore di fantascienza, d’altronde, avrebbe potuto prevedere che tutti saremmo tornati a scrivere su tavolette (sia pure chiamandole tablet)» (p. 167) non possono che strappare qualche sorriso. Guidato da una scrittura densa, ma mai pesante, il lettore ripercorre l’etimologia, la storia, il significato di tutti i concetti chiave dell’italiano digitato (a proposito, lo sapevate che digitato e digitale vanno ricondotti a etimologie diverse?) da e_mail_ a emoticon a hashtag, le risemantizzazioni attuali di aggettivi come virale o sociale, le ragioni e i fattori del discorso aumentato (louder talk) di Twitter.

Un libro polifonico

È un libro polifonico quello di Giuseppe Antonelli, in cui alla voce del linguista se ne aggiungono sullo sfondo tante altre, dal “Caro amico ti scrivo” di Lucio Dalla alla chatta di Daniele Silvestri, dallo sfigato degli 883 all’italiano glocal di Pino Daniele, da Pascoli con la sua digitale purpurea a Francesco Piccolo, da George Orwell a Umberto Eco, e poi linguisti, giornalisti, persino Fantozzi, Peppa Pig, Zorro e Babbo Natale con la wish list su Amazon. E infine tutti noi, una folla di amici d’infanzia, signore in fila alle poste o in attesa dell’autobus, studenti maldestri alle prese con esami di maturità o universitari, ragazzi innamorati con il cuore attaccato alla penna (prima) o a una tastiera (oggi), un coro di smupidi (smart come “smartphone” + stupidi), di nostalgici, di quelli che nel digitale ci sono nati e di quelli che giocoforza hanno dovuto abituarvisi. «Perché la storia siamo noi, noi che scrivevamo le lettere e oggi scriviamo i Whatsapp» (p. 167).

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