Ha 28 anni Guido Ceronetti, quando comincia una traduzione interlineare nella sinagoga di Torino: “Mi ero fissato di adottare come testo di studio, per principiante di lingua biblica, l’Ecclesiaste”. Ricorda i suoi due maestri, Della Pergola e Levi, l’auletta deserta e la lettura ad alta voce del rabbino, impastata di “suoni di gufo” e di smorfie. Capisce che più che un libro il Qohélet è “un’escrescenza” con una sua oscura fisicità, è un arto, un grumo, una scheggia.

Era il 1955, e da quel momento Ceronetti inaugura la sua lotta con l’ebraico dell’Antico Testamento, una lotta con lo “scheletro consonantico” del testo masoretico: l’ebraico antico infatti non ha vocali, e l’interprete-traduttore ha la responsabilità di aggiungerle. “I giorni di quella traduzione furono tutti pieni di duende e se potessi riviverli troverei che furono molto prossimi all' estasi...”.

Qohélet****, fumo dei fumi

Qohélet, quarto libro sapienziale dell’A.T, è attribuito a Salomone, ma fu scritto da un autore ignoto nel III secolo a.C. Fin dalle prime parole la traduzione  di Ceronetti scombina le carte. Hakkòl hevèl ur’ud rùach era reso universalmente come “Vanità delle vanità, tutto è vanità”.  Ricordando i suoni di gufo ascoltati in sinagoga, e il significato di hevèl che è letteralmente “vapore”, Ceronetti traduce “Tutto è fumo e mangiare vento”. Poi nel 1970: “Fumo di fumi/ dice Qohélet/ Fumo di fumi/ Tutto non è che fumo”; e nella nuova versione del 2001: “Un infinito vuoto/ dice Qohélet/ Un infinito niente/ Tutto è vuoto niente”.

Scrive Ceronetti nella prefazione all’edizione Adelphi: “Una vittoria della filologia è che da parecchi anni il rotolo biblico detto, in esatto greco, ma poco invitante, Ecclesiaste, sia noto nell'Italia che legge, nobilmente minoritaria, come Qohélet, la sua intestazione d'origine. […] Lungo è stato il cammino della mia versione di trent'anni fa, in seguito riveduta più volte; questo mio Qohélet seguita a ristamparsi e a catturare anima vivente”.

I Salmi nel fegato

Il libro dei Salmi fu la seconda opera biblica tradotta; all’uscita, nel 1967, Guido Piovene scrisse che trovava in quella traduzione “una delle qualità necessarie al filologo, una forte immaginazione sul fatto lessicale, la capacità di rivivere la realtà che esso manifesta”. Ciò che Ceronetti aborre è il “brodino acquoso”, il testo scipito ed inerte delle versioni clericali. Egli sente che il potere della parola di un testo sacro è energia cosmica in atto, e il traduttore deve riconoscere il Dio che si incarna nel linguaggio fino a  riuscire a toccare il suono, “vederne la voce”. Il grido che vi è incorporato va riemesso. Ed ecco che i Salmi risuonano nel fegato (Salmo 108) correggendo “khevodi” (gloria) in “khevedi” (fegato), sono un sussurro dai reni (Salmo 16; dove in nota Ceronetti cita la tradizione medico-religiosa orientale). Il rapporto testo-traduttore è dei più stretti e mortali, e pervenire alla parola è l’unica cosa che conti, perché in essa, come in un processo alchemico, si intravede l’abisso. E arriva a giustificare la sua traduzione ipotizzando che siano i testi stessi a scegliere l’interprete, a chiamare “per essere aperti”.

Proprio per questo Ceronetti ri-traduce sempre in più fasi,  torna sulle proprie traduzioni e le correda di introduzioni e di note molto circostanziate. Le parole sono sempre sull’orlo di un ulteriore senso, di un capovolgimento, e l’atto di tradurre si afferma nel segno del galgàl, la ruota incessante del vivere che è in Qohélet.

Giobbe****, la dimensione etica del tradurre

Del 1972 la prima versione del dolorosissimo Libro di Giobbe che mette in scena il perché di Dio. Il libro parla di un uomo  “di nome Iob in terra di Uz/ Un uomo di perfetta purità/ Temeva Dio e aborriva il male”. Quest’uomo innocente viene investito dal Male e il dialogo tra lui e Dio porta alla conclusione che la mortalità è l’essenza comune agli uomini. Nel momento in cui cala su Iob l’ulcera del male, la Sapienza aggiustatrice del ventottesimo capitolo estrae in lui la pietra della follia e lo fa gridare, scendendo gli ultimi gradini del rauco. Anche in questa traduzione Ceronetti rende le parole concrete: come dice lui stesso interpolando Van Gogh: “La mia impressione è di non aver fatto dell'astratto e che le parole siano patate, mani, mucchi di fieno, girasoli scoppiati”.

La traduzione targata Ceronetti mette in atto quella dimensione etica, che gli ultimi studi in materia (Rocco Ronchi ad esempio) riconoscono come “scambio di doni”, come forma di attenzione e di esitazione pensante, come un protendersi sul testo.

Il Cantico dei Cantici sradicato dal canone

Attribuito a Salomone ma risalente al IV secolo a.C. è il Cantico dei Cantici, il testo che forse più di tutti Ceronetti ha sradicato dal canone. Lo definisce una tomba pulita e deserta, ma anche esaltazione del corpo e delle sue porte e degli organi della generazione; proprio per l’ambivalenza insita nel sacro, il Cantico nella sua traduzione è un vuoto tagliente.

Nell’introduzione al libro di Giobbe, Ceronetti aveva scritto: «Soffrire è il mio mestiere d’uomo, e non facendolo passabilmente rischierei di morire scontento. […] Il pane che ho gettato so che lo ritroverò». È un ritorno al Qohélet: “Manda sopra le acque il tuo pane/ accresciuto dai giorni lo troverai”. (Qo 11,1). Molte sono state le traduzioni ed interpretazioni di questi versi, spesso come esortazione alla generosità. Il “poeta-filologo” lo collega al 12.1 “Ma pensando ricorda il tuo Creatore/ nei tuoi brillanti giorni” e lo interpreta come ritorno del rùach, il respiro, il vento, la voce, la ruota che corre alla cisterna, luogo di arrivo e di ricominciamento.

Le traduzioni dei libri sacri di Guido Ceronetti sono sorprendenti, assolute e mobili al tempo stesso, tragiche, esasperate e poetiche al più alto grado. Nel leggerle sembra che una voce ci accompagni e parli con le parole del Salmo del Silenzio in Isaia: “Ma la notte durerà ancora/ Tornate e ridomandate/ venite ancora/ insistete”.

Bibliografia di riferimento

Qohélet o L' Ecclesiaste - Einaudi 1970 – Ultima edizione riveduta: 2001

Il Libro di Giobbe - Adelphi 1971; 1982 – Edizione riveduta: 1997

Il Cantico dei Cantici - Adelphi 1975 – Edizione riveduta: 1992

Il libro del profeta Isaia - Adelphi 1981 – Edizione riveduta: 1992

Il libro dei salmi - Einaudi 1967 – 1970; Adelphi 1985 – Nuova traduzione con note

*Magda Indiveri insegna italiano e latino al liceo Galvani di Bologna. Ha tenuto per alcuni anni la docenza a contratto di Composizione testi in italiano al Corso di laurea di Scienze della Comunicazione UNIBO ed è stata supervisore nei corsi SSIS per la formazione docenti. Ha pubblicato saggi di carattere letterario in volumi miscellanei (ad esempio sul saluto letterario in Finisterrae per Carocci; su Ceronetti e Cristina Campo in Apocalisse per Liguori, su Ceronetti in Pareti di carta per Trelune) ed è nel direttivo dell’Associazione degli italianisti sezione didattica. I suoi ambiti di studio sono essenzialmente rivolti al Novecento e alla traduzione (prefazione a La Coscienza di Zeno di Italo Svevo, a La Metamorfosi e Il Castello di Franz Kafka per Barbera; traduzione e introduzione di La signora Dalloway_,_ Una stanza tutta per sé e Le onde di Virginia Woolf per Rusconilibri).

Immagine: William Blake [Public domain]