Nel poema An Anatomy of the World (1611) John Donne disegnò quello che resterà lo scenario fisico e metafisico dell’uomo contemporaneo incarnando nella figura di una giovinetta morta precocemente quella della Sapienza divina, della Sophia celeste, cioè del Logos che governa il cosmo: questa morte ha infatti sconvolto ogni ordine divino, ha interrotto la corrispondenza fra la Terra e il Cielo, ha provocato in definitiva l’infermità, la morte, la putrefazione del mondo intero. Questo processo di decomposizione non ha fatto che accentuarsi nei secoli successivi fino agli attuali esiti nichilistici, del resto già intravisti da Donne: la morte di Lei, egli dice, ha reso l’uomo «nothing». È un processo che ha avuto come inesorabile conseguenza un senso crescente di estraneità dell’individuo dal mondo e dalla società, una sensazione sempre più forte e dolorosa di essere stranieri sulla terra. Una sensazione che domina tutta l’opera di Guido Ceronetti: basterà ricordare che in uno dei suoi famosi timbri con i quali ornava le lettere e le cartoline agli amici è scritto: «Da Guido in esilio dovunque dal 1927», l’anno della sua nascita.

"Refrattario" ed esiliato

Da questa condizione di esilio in quello che è avvertito come un regno del Male nasce molta della più grande letteratura moderna, quella che elabora i suoi princìpi a partire dai fratelli Schlegel e da Novalis fino a Mallarmé e Valéry, e che può essere chiamata «poesia» o «letteratura assoluta»: Novalis affermò che «la poesia è il reale, il reale veramente assoluto». Roberto Calasso, che alla Letteratura assoluta ha dedicato un illuminante saggio, ha sostenuto che il processo che ha portato fino agli sviluppi attuali questa idea di letteratura e di poesia rappresenta probabilmente «la più radicale apostasia dalla storia e dalla società» ed ha avviato così «il reclutamento di una setta di refrattari, taluni silenziosi altri facinorosi, tutti inscalfibili nel loro rifiuto».

E Ceronetti è certamente fra i più inscalfibili di questi «refrattari» di oggi. Non sorprende affatto che il suo sentimento di esiliato lo abbia portato ad abbracciare con entusiasmo il pensiero gnostico in generale, e più in particolare quello cataro. Il catarismo è una reviviscenza medioevale di quella forma di dualismo metafisico, anche se non ne deriva direttamente: una rifioritura che è stata al centro degli interessi filosofico-religiosi di Ceronetti, anche a causa delle violente persecuzioni che dovette subire e nelle quali Simone Weil vide una sorta di allegoria della violenza scatenata dal nazismo durante la seconda Guerra Mondiale.

Il dualismo gnostico

In un articolo apparso su «La Stampa» il 25 novembre 1999 e dedicato al volume adelphiano La cena segreta, in cui ho raccolto qualche anno fa tutti i testi originali superstiti del catarismo, Ceronetti scriveva: «Il catarismo non è una eresia soltanto, è l’eresia delle eresie, col suo dualismo gnostico che separa l’autore della vita (ritenuto assolutamente maligno) dal “padre legittimo” degli spiriti buoni, la sua condanna, come supremo peccato, della procreazione, la sua salvezza per via iniziatica e misterica, analogamente alla tradizione orfica ed eleusina, che esclude la massa e crea disuguaglianze originarie d’eternità in eternità». Più ampiamente è descritta l’eresia dei boni homines occitani e italiani in uno scritto dedicato, sulla scorta degli studi di Gershom Scholem, al suo confronto con la dottrina dei cabbalisti della Francia meridionale fra XII e XIII secolo: «Gli eretici [catari] attribuivano a un principio cattivo l’origine del mondo e della vita, giustificando il loro pessimismo pratico (orrore per la procreazione, tolleranza del suicidio) con un pessimismo teologico dei più decisi. La potenza del principe cieco è al servizio del Male, che si oppone al Dio di Luce, in cui la tenebra non esiste. Se ci fosse un principio unico (Dio), la potenza divina combatterebbe contro se stessa, tendendo eternamente a distruggersi; come diretto autore della vita, Dio sarebbe il padre del male e l’arconte delle tenebre. Invece il male (la vita) viene da una potestas non vera, e di questa non-verità è fatta l’impostura vivente che siamo, verità amara su cui tutti i moralisti concordano. Peccato, castighi, angosce, errori, fuoco, supplizi, il diavolo stesso, non hanno avuto principio e non avranno mai fine». In queste descrizioni si può riconoscere un vero e proprio repertorio di temi ceronettiani: oltre a quelli metafisici o religiosi (dualismo, dottrina della Luce prigioniera della materia, del mondo come Male assoluto, della trasmigrazione delle anime di corpo in corpo), il vegetarianismo, la pietà per il dolore degli animali e di tutta la natura, il rifiuto della procreazione.

Il non morto di Montségur

I miei rapporti personali con Ceronetti e una buona parte delle lettere o cartoline che mi ha scritto hanno ruotato intorno al catarismo; alcune di esse, in particolare, intorno a un progetto di viaggio – o meglio di pellegrinaggio come preferiva chiamarlo – da compiere insieme al luogo in cui avvenne, nel 1244, uno dei più atroci massacri di catari, il castello pirenaico di Montségur. Il titolo del mio intervento uscito nella miscellanea Pareti di carta a lui dedicata nel 2015 (Ceronetti, non morto di Montségur) allude all’ultimo verso della sua poesia Consolamentum:

E le mani guariscano i pensieri

E le voci distinguano la tenebra

E da mani occhi voci senza i crani

Il crematorio dei mondi sia fenduto

E tra i crimini il Verbo meditato

E attorno in cerchio alla non nata Rosa

I piedi accorsi le contate essenze

Di noi non morti di Montségur.

Ma è anche una formula da lui usata come indicazione di mittente in una lettera che mi ha inviato il 6 ottobre 2007: «G.C. “non-morto” di Montségur». Il progetto del viaggio a Montségur torna insistentemente nelle sue lettere, ogni volta fissato per una data successiva e sempre rinviato per difficoltà pratiche, infermità crescenti, desiderio – o necessità – di essere accompagnato da certe persone. In quella che ho appena citato, mi scriveva: «I non morti sono più forti dei morti perché le vie del non morire sono le più numerose, i percorsi senza fine […] mentre io seguito, più vicino al morire tout court che all’essere un non morto in pellegrinaggio, ad accumulare i non-pellegrinaggi all’oscura Entità pirenaica denominata nella geografia materialista Montségur». Il pellegrinaggio al «castello di Montségur» e ai «luoghi sacri del catarismo» era anche una delle prime iniziative che Ceronetti aveva previsto di realizzare nel programma di costituzione di una ristrettissima comunità di «refrattari» che doveva chiamarsi La parete di carta e alla quale mi aveva invitato a entrare obbligandomi – come gli altri pochi invitati – al più assoluto silenzio, che ho naturalmente mantenuto. Purtroppo non è mai riuscito a realizzarlo.

L’assenza di Sophia

Questo «riconoscersi anime, enti in esilio, in cerca di altre patrie», «trapiantati in un luogo che abbiamo sperimentato come assurdo e irreale» – per usare alcune delle formule presenti nella Prima lettera per un raduno di refrattari – deriva per Ceronetti, come per John Donne, da un doloroso vuoto: l’assenza di Sophia, della Sapienza, della Vergine di luce dal mondo. Ceronetti cita spesso Giobbe 28,12-13: «Ma la Sapienza da dove viene? L’Intelligenza dove si trova? L’uomo ignora la sua figura, sulla terra dei vivi non si trova». E tutta la sua opera, in fondo, è un canzoniere d’amore per questa Sapienza, una ricerca – mai compiuta – delle sue tracce sparse nel mondo, nelle bellezze artistiche, nei corpi, soprattutto nei corpi femminili. Quasi una sua dichiarazione testamentaria in questo senso è quanto egli scrive in una delle ultime opere da lui pubblicate, dal titolo eloquente, Per le strade della Vergine (una sorta di diario del decennio 1988-1998): «La Vergine è un’idea limitata, ma tutto ne è testimone. Ne parlano innumerevoli libri; capolavori dell’arte che lasciano il segno le danno voce. Il ventottesimo di Giobbe la chiama Sapienza e più volte ripete di non sapere dove si trova […]. La Vergine è il cuore e il segno dell’Occidente simbolico. È lo Jesus patibilis omnis suspensus e ligno. È il Gesù soffrente, l’Agnus Dei che porta (e non toglie affatto) i mali del mondo. Ed è le prove che subiamo, tra un simulacro di nascita e una immaginaria morte, il tutto imbevuto di vero dolore. È l’Ente che gonfia la vela delle traversate del Tragico dell’Essere […]. Che attesta la perduta certezza dell’Assoluto». In realtà Ceronetti sapeva benissimo dove si trova questa Vergine-Sapienza. Nella conclusione dell’articolo dedicato alla mia raccolta di testi catari Ceronetti scriveva: «Mentre frughiamo invano in cerca di segnali di catarismo qualche cimitero piemontese o lombardo, abbiamo forse nella borsa, ignorandolo, un libro dove la misteriosa eredità spirituale del catarismo giace, in prosa o in versi, attivamente dissimulata. Gli autori stessi sono, talvolta, dei catari che s’ignorano…». Perché, ha dichiarato altrove, «anche se non sempre gli artisti conoscono la Sapienza, sono da lei conosciuti; tutti i loro nomi sono scritti nel suo libro». E quali siano questi nomi non è difficile immaginare per il suo lettore: Blake, Leopardi, Baudelaire, Schopenhauer, Zola, Dostoievskij, Céline, Kafka, Seferis, Beckett…

*Francesco Zambon è professore emerito presso l’Università degli Studi di Trento; ha insegnato anche nelle Università di Grenoble, Padova, Trento, Tolosa e Montpellier; nel 2018 ha tenuto una chaire d’état al Collège de France. Ha studiato la letteratura allegorica e religiosa del medioevo latino e romanzo (in particolare i bestiari), il ciclo romanzesco del Graal e altri aspetti della narrativa francese medievale, la poesia politico-religiosa occitana del XIII secolo, la dottrina e i testi catari, la mistica amorosa del XII e XIII secolo, la letteratura italiana delle origini (in particolare Dante). Ha scritto anche su diversi poeti italiani ed europei del Novecento, fra cui Montale, Pasolini, Pierro, Zanzotto e Pessoa. Fra le sue pubblicazioni: Il Fisiologo (Adelphi 1975), Robert de Boron e i segreti del Graal (Olsckhi 1984), L’iride nel fango. L’anguilla di Eugenio Montale (Pratiche 1994), La cena segreta. Trattati e rituali catari (Adelphi 1997), El legado secreto de los Cátaros (Siruela 1997), Paratge. Els trobadors e la croada contra els càtars (Columna 1998; trad. italiana Carocci 1999), (con altri) Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda (Mondadori 2005), Trattati d’amore cristiani del XII secolo (Mondadori / Fondazione Valla 2008-2009), L’alfabeto simbolico degli animali. I bestiari del medioevo (Carocci 2009; trad. spagnola Siruela 2010), Metamorfosi del Graal (Carocci 2012), L’elegia nella notte del mondo. Poesia contemporanea e gnosi (Carocci 2017), Bestiari tardoantichi e medievali. I testi fondamentali della zoologia sacra cristiana_. Dirige insieme a Mario Mancini la «Biblioteca Medievale» (Carocci). È socio dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, e Maître ès Jeux all’Académie des Jeux Floraux di Tolosa. Nel 2017 ha ricevuto la medaglia del Collège de France._

Immagine:francesca sara [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)]