di Domenico Adriano*

Rodolfo Di Biasio è poeta dalle forti interrogazioni, la cui parola e il timbro si fanno tutt’uno nel corpo del testo rendendo la musica della sua opera sùbito riconoscibile.

E la “misura” ha contraddistinto questo autore, compatta e sempre in sé conclusa, stile. Un lungo viaggio, solitario e inevitabile, ha formato il poeta con passo cosciente che la poesia non è letteratura. Pochi i libri: 7 di numero, piccoli e densi; il forte impegno civile e morale riemerso come da una ereditata incubazione della coscienza.

Aspra la scrittura, fatta di sassi e di vento, tesa a niente di più dell’essenziale, Di Biasio sa che la poesia è resistenza, è testimonianza, è vecchiaia, è giovinezza, è visione, è sguardo da infinite angolature.

Nel tempo, lo scavo in profondità ha aggiunto unità a ogni libro. Non c’è poeta in Italia che sappia come Di Biasio l’arte del togliere per disseppellire il corpo di un libro, e l’architettura che deve aprire nuove dimensioni all’individuo accompagnandolo a contemplare la vicenda dell’esistenza umana nel perpetuo divenire del cosmo.

Così ogni libro, dopo la prima prova (Niente èmutato, del 1962), si è imposto con un suo andamento poematico dal perfetto meccanismo narrativo. Pochi rastremati volumetti, con parole graffiate negli anni, dove non è più possibile trovare rami secchi: Poesie dalla terra (1972), Le sorti tentate (1977), I ritorni (1986), Patmos (1995).

I titoli “raccontano”. Ma forse nessuno ha saputo dire meglio, come Gianfranco Palmery per i Poemetti elementari (2008), l’ordito della scrittura di Di Biasio: «Una essenzialità minerale, riflessiva, è la caratura di questa poesia, che del resto ha in sé getti e arborescenze, nodi e radici da misurare con altri carati – giusta l’induzione lessicale che ha evocato il kerátion, o seme del carrubo, albero che scintilla nella terra e nell’opera del poeta... Sette poemetti, tutti articolati in tre strofe di varia lunghezza, o tre tempi; poiché il tempo signoreggia univocamente nei Poemetti elementari: è il primo elemento, non univoco nei suoi momenti e movimenti se di tutti gli elementi minerali e vegetali – fiume, terra, mare-specchio, ulivo – è corpo e moto: più Vertunno che Crono, monotono e mutevole, sempre uguale e irripetibile».

E ora, il più minuto dei suoi libri, Mute voci mute (2017), venuto da lontano, ricco di 188 versi, anch’esso dall’esecuzione perfetta, apice e sintesi della felicità espressiva del suo lavoro. Una poesia in bianco e nero per dire il dolore della storia (guerra, fame, peste), e gridare che tutte le guerre hanno fallito.

No, non è possibile che l’ultima disperata pietà debba consistere oggi nel poter solo contemplare gli avvenimenti e il cuore dell’uomo. Non dev’essere un caso che all’autore, nell’unica lettura in pubblico di questo libro, parlando del fare poesia gli è come sfuggito di dire del desiderio di una “resa serena”. Dunque, sulla carta, che la poesia con le sue intrinseche verità sia resa “integra”!

Ma noi siamo qui convinti che già una “resa serena” attraversa tutta l’opera di Di Biasio, una empatia percepibile che unisce ogni libro al precedente. E che infine il pathos che sanguina da Mute voci mute è davvero singolare se ha avuto la necessità, nelle sue parti dedicate alla guerra alla fame e alla nuova peste con la quale ci siamo fatti «untori di noi stessi», di saldare versi nuovi con versi assai antichi. I temi scottanti di Di Biasio sono sempre stati gli stessi; e antica è la disperazione del bambino che riceve «il tozzo di un nero pane» da un soldato tedesco che lo spezzò dal suo, nella guerra sulla linea Gustav che stava lacerando ogni filo d’erba. Un’assurda, devastante guerra dove si racconta che gli alleati e i tedeschi sulla montagna che guarda il mare di Gaeta attingevano, alzando una bandiera bianca, acqua dagli stessi pozzi allo stesso modo di quando raccoglievano i morti.

La poesia è stata una catarsi, si è fatta “respiro”. In tal senso l’invito è forte ad ascoltare il grido di Mute voci mute come un testamento, un’acqua per salvare i frutti della terra, una specie di altare per i vivi e per i morti che «ci sono accanto / e non abbiamo occhi a vederli».

P. S. Due testimonianze nelle quali le cose dette avrei voluto scriverle io.

Persuaso, come Walter Benjamin, che il valore di un’opera letteraria sia inversamente proporzionale alla sua lunghezza, Rodolfo Di Biasio, come già ne I poemetti elementari (2008) che lo precedono, in Mute voci mute porta a compimento la predilezione per il minus dicere, per la sintesi, le essenze, giungendo per sottrazione alla forma attuale, lapidaria, oracolare. «Nulla di troppo» diceva un’iscrizione presso l’oracolo di Delfi. «Il pane di troppo / ha un aspro sapore», scrive Rodolfo Di Biasio, rovesciando un principio estetico in principio etico universale. Anche perché la brevitas facilita la memoria, radice di civiltà e umanità, indispensabile per costruire un salvifico muro di uomini (il muro nostro di uomini), una casa aperta, una città nuova, che conservi la memoria del limite e del Paradiso perduto ‒ come già il poeta aveva profetizzato ne I ritorni. (Sandra Di Vito)

Se è vero, come è vero, che Di Biasio è convinto della necessità di una “permanenza” della poesia nell’esperienza prima individuale e poi collettiva, corale dell’umanità («La poesia scrive riscrive la sua storia») non desta meraviglia il fatto che la prima sezione del poemetto Mute voci mute si apre con i versi già consegnati a Le sorti tentate, libro, questo, davvero generazionale perché storia diuna generazione «che pare (e forse è) la più disperata e tradita, di quelli che hanno giocato tra le macerie delle bombe e ora si ritrovano senza passato né presente», come ebbe a scrivere Salvatore Mignano nel 1979). (Cinzia Monti)

Foto di Pierangelo Tieri

*Domenico Adriano è nato a Coreno Ausonio nel 1948. Per un tempo breve ha insegnato nelle scuole elementari. Dal 1976 al 1982 è stato libraio e editore nel quartiere romano di Testaccio. Collaboratore di varie riviste letterarie, iniziò a pubblicare i poeti tramite il quotidiano «Lotta Continua». È stato poi titolare dal 1989 al 2000, per «Avvenimenti», di una rubrica settimanale di poesia. Ha inoltre curato diverse antologie. Dirige e ha diretto collane di poeti. Cinque i suoi libri in versi: La polvere e il miele (L’Officina Libri 1977), Bella e Bosco (Stamperia dell’Arancio 1995), Bambina mattina (Il Labirinto 2002; versione inglese e francese, Ghenomena 2013), Papaveri perversi (Il Labirinto 2008), Dove Goethe seminò violette (Ivi, 2015 e 2016).