Quando Wilhelm Marr pubblicò Der Sieg des Judenthums über das Germanenthum (‘La vittoria del giudaismo sul germanesimo’), nel 1879, non poteva immaginare la terribile fortuna che il termine da lui introdotto, Antisemit (‘antisemita’), avrebbe riscosso nel corso del primo Novecento; tuttavia, già nel suo Testament eines Antisemiten (‘Testamento di un antisemita’, in Zimmermann 1986: 133-155), del 1891, denunciava il Geschäftsantisemitismus (‘business dell’antisemitismo’), ovvero lo sfruttamento politico, in chiave nazionalista e antisocialista, dei suoi scritti. Pur non sconfessando le deliranti convinzioni sul potere degli ebrei nella società contemporanea, Marr affermava: «Chiedo il perdono degli ebrei non per il mio antisemitismo, ma per i modi erronei dell'antisemitismo, in cui ho superato i limiti di responsabilità che una persona con esatta comprensione logica, come me, era autorizzata ad assumere» (trad. mia).

Il ricorso a semita come sinonimo di ‘ebreo’ affonda le radici nella linguistica comparata: il ceppo semita è infatti quello che comprende, oltre all’ebraico, l’arabo e l’aramaico. Definirsi antisemita significava andare al di là dell’antigiudaismo di matrice cristiana (cui sfuggivano gli ebrei battezzati) e spostare la questione sul piano razziale, assecondando la visione delirante dell’eterno ebreo (Der ewige Jude, come recita il titolo di un osceno film della propaganda nazista).

Per capire «il business dell’antisemitismo» dobbiamo spostarci nella Francia del 1889, cinque anni prima che scoppiasse l’affaire Dreyfus: la Terza Repubblica è in crisi, il boulangismo è stato sconfitto da poco (il generale Boulanger è fuggito all’estero all’inizio di aprile per evitare l’arresto), ma gli antisemiti non si nascondono, anzi ostentano la più becera propaganda, con manifesti e vignette. Bastino due esempi del medesimo personaggio, Adolphe Léon Willette, artista antisemita.

«Non è questione di religione, il Giudeo è di una razza differente e nemica della nostra», proclama (in questa locandina ritenuta da alcuni non corrispondente a un’effettiva candidatura) Willette, che due anni dopo pubblicherà, fra le tante, una vignetta intitolata Monsieur Isaac et son œuvre: la caricatura di un ebreo (con il naso adunco) che fuma sorridente, mentre ai suoi piedi il popolo muore di fame.

Del resto, anche la stampa italiana informa del successo della propaganda antisemita in Europa, in particolare a Vienna, dove Karl Lueger aveva potuto governare come borgomastro dal 1897 al 1910 attaccando sistematicamente gli ebrei (vd. Hamann 1998: 323-356). Si legga la corrispondenza di un giornalista italiano, (figura su cui torneremo più avanti):

«La guerra antisemita è organizzata e sistematica come una lotta sindacalista. Vi sono a Vienna potenti associazioni che hanno per loro programma una formula sola: “guerra agli ebrei”. Accade spesso di vedere nelle lotte elettorali amministrative e anche politiche di Vienna molti candidati definirsi ai loro elettori con una semplice parola: “antisemita”. E il grande trionfo del partito cristiano-sociale, che domina oggi sovrano fra le masse di Vienna e dell’Austria, si spiega appunto con l’inesorabile crociata antisemita che esso ha posto alle basi del suo programma […] Nei figli d’Israele ciascuno sente e combatte l’occulto nemico della sua fortuna che cade». (Virginio Gayda, I figli d’Israele, «La Stampa», 18/9/1910)

Il tradizionale antigiudaismo della Chiesa cattolica trovava compiuta espressione nel cosiddetto «improperio liturgico», ovvero nella preghiera dedicata ai perfidi Judaei ogni Venerdì Santo (senza genuflessione, a rimarcare il disprezzo per gli ebrei). Il testo, che sarà modificato soltanto nel 1959 da papa Giovanni XXIII (ma con oscillazioni fino al 2008), era il seguente:

«Oremus et pro perfidis Judaeis ut Deus et Dominus noster auferat velamen de cordibus eorum; ut et ipsi agnoscant Jesum Christum, Dominum nostrum. Omnipotens sempiterne Deus, qui etiam Judaicam perfidiam a tua misericordia non repellis: exaudi preces nostras, quas pro illius populi obcaecatione deferimus; ut, agnita veritatis tuae luce, quae Christus est, a suis tenebris eruantur».

[«Preghiamo anche per i perfidi Giudei; affinché il Signor Dio nostro tolga il velo dai loro cuori; onde anch'essi riconoscano Gesù Cristo Signor nostro. Dio onnipotente ed eterno, il quale non rigetti dalla tua misericordia neppure i perfidi Giudei, esaudisci le nostre preghiere che ti rivolgiamo a riguardo della cecità di quel popolo; affinché riconosciuta la luce della tua verità, che è Cristo, siano sottratti alle loro tenebre» (trad. di Edmondo Battisti, in Messale romano latino-italiano con note storico-liturgiche, Torino-Roma, Marietti, 1921)]

Nel gennaio del 1928  l’Opus sacerdotale Amici Israel, associazione cattolica, chiese a papa Pio XI di abolire la formula (considerata un forte incentivo per gli antisemiti), all’interno del programma Pax super Israel, che «prevedeva, tra l’altro […] il ritiro dell’accusa di deicidio e la soppressione delle celebrazioni richiamanti le leggende dell’omicidio rituale» (Stefani 2004: 214). L’associazione fu sciolta nel marzo dello stesso anno, su decisione del Sant’Uffizio, anche se nel decreto di scioglimento si precisava la condanna dell’antisemitismo: «Apostolica Sedes [...] maxime damnat odium adversus populum olim a Deo electum, odium nempe illud, quod vulgo ‘antisemitismi’ nomine nunc significari solet» (ivi [“La Sede Apostolica [...] condanna aspramente l’odio contro il popolo un tempo eletto da Dio, quell’odio, cioè, indicato di solito con il nome di ‘antisemitismo’”]).

Bisogna riconoscere che i pregiudizi nei confronti degli ebrei, risalenti alla letteratura patristica, non risparmiarono le menti migliori della cultura italiana. Si considerino le seguenti riflessioni, in cui si fraintendono passaggi della legge mosaica ed episodi biblici, peraltro considerando gli ebrei in modo unitario, attraverso i millenni; anche se l’obiettivo del ragionamento è condivisibile (il relativismo morale), gli argomenti portati provengono dagli scritti antigiudaici dei Padri della Chiesa:

«La nazione Ebrea così giusta, anzi scrupolosa nell’interno, e rispetto a’ suoi, vediamo nella scrittura come si portasse verso gli stranieri. Verso questi ella non avea legge; i precetti del Decalogo non la obbligavano se non verso gli Ebrei: ingannare, conquistare, opprimere, uccidere, sterminare, derubare lo straniero, erano oggetti di valore e di gloria in quella nazione, come in tutte le altre; anzi era oggetto anche di legge, giacchè si sa che la conquista di Canaan fu fatta per ordine Divino, e così cento altre guerre, spesso nell’apparenza ingiuste, co’ forestieri. Ed anche oggidì gli  Ebrei  conservano, e con ragione e congruenza, questa opinione, che non sia peccato l’ingannare, o far male comunque all’esterno, che chiamano (e specialmente il Cristiano) Goi […] ossia gentile, e che presso loro suona lo stesso che ai greci barbaro […] riputando peccato, solamente il far male a’ loro nazionali […] Soglion dire i teologi, i Padri, e gl’interpreti in proposito di molte parti dell’antica divina legislazione ebraica, che il legislatore si adattava alla rozzezza, materialità, incapacità, e spesso (così pur dicono) alla durezza, indocilità, sensualità, tendenza, ostinazione, caparbietà ec. del popolo ebraico. Or questo medesimo non dimostra dunque evidentemente la non esistenza di una morale eterna, assoluta, antecedente (il cui dettato non avrebbe il divino legislatore potuto mai preterire d’un apice); e che essa, come ha bisogno di adattarsi alle diverse circostanze e delle nazioni e de’ tempi (e delle specie, se diverse specie di esseri avessero morale, e legislazione), così per conseguenza da esse dipende, e da esse sole deriva?» (Giacomo Leopardi, Zibaldone, 881-882 [30 marzo-4aprile 1821], 2263-2264 [20 dicembre 1821])

Sul quotidiano «La Stampa», il 12 agosto 1899, esce la parziale traduzione di un articolo antidreyfusardo del marchese Henri Rochefort, dal titolo ossimorico La colpa dell’innocenza, contro la revisione della condanna di Dreyfus. Con toni fortemente antisemiti si presenta l’ufficiale Alfred Dreyfus come l’ebreo “perfido”, che in quanto tale deve essere rimosso dall’esercito francese, a prescindere dalla sua innocenza rispetto all’accusa di  tradimento:

«Siamo dunque al principio della fine di questa grande infamia: la riabilitazione di Dreyfus.

«Ammettiamo che l’ex-forzato, l’ex-capitano non più forzato, ancora capitano, ma sempre giudeo, Dreyfus, sia veramente innocente. Ebbene, egli è tanto più colpevole quanto più è innocente […]

«Egli con la sua immensa perfidia passiva, con la sua infernale forza di suggestione seduce i più prodi ufficiali del nostro Stato Maggiore e li conduce fino al furto, al falso, allo spergiuro, alla fellonia, e procura così alla Francia il rivoltante spettacolo della propria degradazione.

«Egli, sputo del giudaismo, si fa condurre a spese dello Stato, a peso delle nostre tasche, delle nostre fatiche, del nostro onesto lavoro, alla più amena isola delle nostre colonie; a spese della Francia vi si fa mantenere per anni ed anni; con l’oro francese questo prussiano si fa ricondurre in Francia sommovendo, l’indisciplinato e cattivo soldato, la coscienza dei suoi superiori. E tutto ciò egli compie con la sfacciataggine della sua innocenza!»

A cavallo tra Otto e Novecento, il periodico gesuita «La Civiltà Cattolica» intraprese un’aspra campagna di stampo antisemita, che poi nel 1938, di fronte alle leggi razziali, avrebbe creato non pochi imbarazzi al Vaticano. Vediamo alcuni esempi, in cui si succedono il complottismo (1), la metafora zoologica (2), il nesso con la massoneria in funzione anticristiana (3-4):

  1. «Come oggi non si può negoziare in Europa un prestito, senza il buon volere dei Rothschilds, così fra poco non si potrà nulla trafficare, senza il consenso e l'interesse della lega internazionale giudaica. L'ebraismo viene traendosi dietro il mondo incivilito, nell'adorazione del vitello d'oro, che rappresenta la sua potenza» (Della questione giudaica, «La Civiltà Cattolica», 1890, p. 394);

  2. «[Il popolo ebraico] è il polipo gigante che co’ suoi smisurati tentacoli tutto abbraccia e attira a sé; che ha lo stomaco nelle banche […] e le sue ventose o i suoi succhiatoi da per tutto […] rappresenta il regno del capitale, la feudalità finanziaria, l’aristocrazia dell’oro» (La morale giudaica, «La Civiltà Cattolica», 1893, pp. 145-146);

  3. «Ecco tutto il processo de’ religiosi e delle religiose; processo che, mentre ne forma la più bella apologia, rivela insieme la vera indole della presente persecuzione giudaicamente massonica che è, giova ripeterlo, di soffocare nella moderna società ogni alito di vita cristiana» (Gli ordini religiosi e l’odierna persecuzione, «La Civiltà Cattolica», 19/10/1901, p. 139);

  4. «Il potere giudaico-massonico che si è impadronito della Francia, e ripone ogni sua mira nello scristianizzarla, aveva risoluta la chiusura della Grotta di Lourdes» (Il Santuario della Nostra Signora di Lourdes nel 1903, «La Civiltà Cattolica», 2/7/1904, p. 122).

Il cospirazionismo antisemita non faceva altro che gettare una luce sinistra sulla Alliance israélite universelle, fondata in Francia nel 1860, per difendere gli ebrei perseguitati in Europa e in Russia; contro di essa Edouard Drumont aveva fondato, nel 1889, la Ligue antisémitique de France, dieci anni dopo la fondazione della Antisemitenliga da parte di Marr, a Berlino.

Simbolo dell’Alleanza israelita universale Simbolo della Lega antisemita di Francia

L’immagine del polipo verrà ripresa anche dal già citato Gayda, in un articolo sugli ebrei dei Balcani: «hanno propagato i loro tentacoli come un gigantesco polipo» (Virginio Gayda, Mercati ebrei, «La Stampa», 18/3/1910).

È proprio all’inizio del Novecento che si diffonde il più famoso falso della storia del secolo, il documento ancora oggi più citato dagli antisemiti di ogni risma: i Protocolli dei savi anziani di Sion. Il motivo oggi  noto come post-verità (dall’inglese post-truth) risale in realtà a quel periodo, in particolare a partire dal 1921, quando fu pubblicamente dimostrata la non autenticità dei Protocolli: allora intellettuali e politici antisemiti si affrettarono ad argomentare che “i fatti” dimostravano il nucleo di verità contenuto nel documento pur falso.

«Nessuno nega che un programma reso pubblico nel 1905 abbia oggi il suo pieno, stupefacente, spaventoso adempimento […] O il documento è formalmente autentico, od esso fu compilato su varii documenti autentici e su informazioni sicure, dando a queste membra sparse una unità di corpo». (Giovanni Preziosi, prefazione all’ed. it. dei Protocolli dei savi anziani di Sion, Roma, La Vita Italiana, 1921)

«Tutta l’esistenza di questo popolo poggia su una continua menzogna, come appare nei famosi Protocolli dei Savi anziani di Sion. Essi si fondano su una falsificazione, lamenta piagnucolando la “Frankfurter Allgemeine”, e in questo sta la miglior prova che sono veri. Ciò che molti ebrei vorrebbero inconsciamente fare, qui è consapevolmente dichiarato. Ed è quello che conta. Non importa invece sapere da quale cranio giudaico siano uscite tali rivelazioni; è essenziale però il fatto che essi rivelino con orrenda sicurezza la natura e l'attività del popolo ebraico, e li espongano nei loro rapporti interni e nei loro scopi finali. La migliore critica è fatta naturalmente dalla realtà. Colui che esamini lo sviluppo storico degli ultimi cento anni dal punto di vista di questo libro, capirà subito il frastuono della stampa giudaica. Quando questo libro diventerà patrimonio comune di tutto il popolo, il pericolo ebraico potrà essere ritenuto superato». (Adolf Hitler, Mein Kampf, Rendiconto [1925], cit. nella trad. di Galli 2002: 279)

Il popolo eletto diventa, nella penna degli antisemiti, la razza eterna e maledetta. Così, il 4 dicembre 1911, sulle colonne del quotidiano «La Stampa» (in questa sede più volte citato in quanto organo di stampa di linea moderata), Enrico Thovez, stroncando il lodevole saggio del lamarckiano Jean Finot Le préjugé  des races, del 1905, scrive, sotto l’ironico titolo Il distruttore delle razze:

«Il signor Jean Finot è un nemico personale delle razze […] L’egregio uomo, che è, dicono, un israelita polacco che ha tradotto il proprio nome in francese, nega persino la razza ebrea. Sicuro; quella razza ebrea conservatasi prodigiosamente pura ed intatta attraverso i tempi, così pura che i suoi membri attuali sembrano uscire dai bassorilievi egizi ed assiri che ce li rappresentano quali erano migliaia d’anni sono, egli non l’ammette in nessun modo. Per negarla fa persino il sacrificio di giovarsi di quella scienza antropologica che ha continuamente deriso. Si capisce come, negata la propria, gli sia riuscito facile distrurre le altre».

E il 2 maggio 1922, sullo stesso giornale, Arnaldo Cipolla, corrispondente dalla Palestina, così descrive Due giorni sul Lago di Galilea:

«Il lago di Tiberiade è stato invaso dai russi, dagli ebrei russi. Essi hanno portato qui l’alacrità, il lavoro, lo scetticismo, la coltura, la libertà dei loro costumi e delle relazioni fra i due sessi […] Le rive echeggiarono delle loro risa, stupirono di quelle nudità lattee di degeneri rampolli della razza maledetta e dispersa».

Nell’autunno del 1935, alla Scuola Normale Superiore di Pisa, Luigi Russo, commemorando il centenario della nascita di Alessandro D’Ancona (illustre italianista, senatore, sindaco di Pisa, scomparso nel ’14), conclude il discorso dichiarando che in lui, «così lontano da noi per una certa sua arida arguzia e un apparente scetticismo di semita lucido e smagato, noi sentiamo e riveriamo un maestro» (Maestri della vecchia scuola storica, in Russo 1967: 45). Colpisce la presa di distanze (spontanea, anche perché mancano ancora tre anni alle leggi razziali) rispetto all’ebraismo del letterato, nonché il ricorso al sostantivo semita. Giustamente Mauro Moretti osserva che «il giudizio di Russo, al di là della sua formulazione prudenziale, non è accettabile» (Moretti 1998: 282).

Nella primavera del 1942, anche Giovanni Gentile, commemorando il filologo Michele Barbi (scomparso l’anno prima), ricorda il D’Ancona: «israelita ma d’eccezione. Voi sapete che le regole sono facili a ricordarsi e ad applicarsi, ma difficile è ricordarsi delle eccezioni; e noi che avemmo la fortuna di essere stati alla scuola del D'Ancona, lo ricordiamo maestro di scienza e di vita» (Commemorazione di Michele Barbi, a cura della R. Scuola Normale Superiore di Pisa, Firenze, Sansoni, 1943, p. 6). Senz’altro «la ‘regola dell’eccezione’ gentiliana, pur nel suo tragico cinismo – ma il testo, non si dimentichi, è del 1942 –, contraddistingue comunque la posizione di Gentile rispetto […] al desolante spettacolo allora offerto dalla cultura italiana, con il suo consenso interessato, e con i suoi silenzi» (Moretti 1999: 115-116).

Ed è davvero desolante lo spettacolo offerto dal giornalismo italiano nell’anno delle leggi razziali: basti pensare alla cronaca della Kristallnacht, presentata come la legittima reazione del popolo tedesco alla violenza ebraica:

«Il dolore e l’indignazione popolare per la morte del consigliere di legazione Von Rath, caduto vittima dell’odio di razza e della sete di vendetta, e dell’organizzata delinquenza giudaica internazionale, hanno esploso stanotte  e tutt’oggi, in tutto il Reich, in spontanee, intrattenibili manifestazioni anti-giudaiche, le quali hanno dato la misura della delicatezza, profondità e sensibilità reattiva della zona di sentimenti nazionali, in cui l’incauto piombo giudaico di Parigi, più o meno diretto, organizzato ed educato da mandanti o aizzatori, ha creduto di potere colpire». (Giuseppe Piazza, Reazione del popolo tedesco per il delitto giudaico di Parigi, «La Stampa», 11/11/1938)

Ma facciamo un passo indietro per vedere come, negli anni Venti e ancora all’inizio degli anni Trenta, due figure diametralmente opposte fossero concordi nel negare l’esistenza dell’antisemitismo in Italia, legandola però all’assimilazione degli ebrei italiani:

«È facile prevedere che il tramonto del bolscevismo in Russia sarà seguito da un pogrom di proporzioni inaudite, al cui paragone impallidirà la notte di San Bartolomeo […] L’Italia non conosce l’antisemitismo e crediamo che non lo conoscerà mai […] in Italia non si fa assolutamente nessuna differenza fra ebrei e non ebrei, in tutti i campi, dalla religione alla politica, alle armi, all’economia. Abbiamo avuto al Governo persino tre ebrei in una volta. La nuova Sionne, gli ebrei italiani l’hanno qui, in questa nostra adorabile terra, che, del resto, molti di essi hanno difeso eroicamente col sangue. Speriamo che gli ebrei italiani continueranno ad essere abbastanza intelligenti, per non suscitare l’anti-semitismo nell’unico paese dove non c’è mai stato». (Benito Mussolini, Ebrei, bolscevismo e sionismo italiano, «Il Popolo d’Italia», 19/10/1920)

«In Italia non esiste antisemitismo proprio per le ragioni accennate dal Momigliano [in una recensione al libro di Cecil Roth Gli Ebrei in Venezia], che la coscienza nazionale si costituì e doveva costituirsi dal superamento di due forme culturali: il particolarismo municipale e il cosmopolitismo cattolico […] Che il superamento del cosmopolitismo cattolico e in realtà quindi la nascita di uno spirito laico, non solo distinto ma in lotta col cattolicismo, dovesse negli ebrei avere come manifestazione una loro nazionalizzazione, un loro disebreizzarsi, pare chiaro e pacifico»

(Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, XV [1933], § 41, ed. Gerratana)

Da un lato gela il sangue la cupa profezia mussoliniana, pur riferita alla Russia (anziché alla Germania), dall’altro suscita un certo fastidio il verbo disebreizzarsi, che non fa onore alla prosa gramsciana. Del resto, se si lega la fine dell’antisemitismo al giudizio arbitrario di assimilazione degli ebrei, si crea il paradosso per cui sarà sempre il lupo a stabilire se la pecora è ancora buona da mangiare.

Confutare Mussolini con Mussolini: diciotto anni dopo l’articolo succitato, ecco Il manifesto della razza, che contraddice lo stesso “duce”.

«GLI EBREI NON APPARTENGONO ALLA RAZZA ITALIANA. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani». (art. 9)

Un altro salto di qualità (in peggio) si avrà con il Manifesto di Verona (novembre 1943): «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica» (art. 7). Essere ebrei di per sé bastava per essere trattati come nemici.

Già nel discorso di Monaco del 28 luglio 1922, Hitler critica l’emancipazione degli ebrei, conquista fondamentale della rivoluzione francese:

«È una battaglia iniziata quasi 120 anni fa, quando all'ebreo furono concessi i diritti di cittadinanza negli Stati europei. L’emancipazione politica degli ebrei fu l’inizio di un attacco di delirio. Infatti furono dati pieni diritti di cittadinanza e uguaglianza a un popolo che era molto più chiaramente e sicuramente una razza a parte rispetto a tutti gli altri, che ha sempre formato e formerà uno Stato all’interno dello Stato. Ciò non è accaduto forse in un colpo solo, ma è venuto fuori come le cose accadono oggi e sempre si realizzano: prima un mignolo, poi un secondo e un terzo, e così a poco a poco, finché un popolo che nel diciottesimo secolo appariva ancora completamente alieno aveva conquistato diritti di cittadinanza alla pari con noi stessi». (trad. mia)

Il combinato disposto del rifiuto dell’emancipazione ebraica e dell’identificazione degli ebrei come “pericolosi nemici” apre la strada alla lenta ma inarrestabile parabola discendente degli anni Trenta.

Le radici austriache dell’antisemitismo hitleriano possono essere esemplificate in tre personaggi, studiati a fondo da Hamann (1998: 284-310, 323-356):

  1. Georg Heinrich von Schönerer (1842-1921), politico, protestante: fautore del pangermanesimo, introdusse il saluto Heil, si oppose ai matrimoni ‘misti’, esaltò la “razza ariana” (contrapposta a ebrei e slavi), visse nel culto di Bismarck; Hitler respinse la linea anticattolica (Los von Rom!, sulla scia del Kulturkampf) e l’antislavismo, teorizzando la necessità di individuare un solo nemico;

  2. Franz Stein (1869-1943), giornalista e politico, declinò l’antisocialismo in chiave antisemita;

  3. Karl Lueger (sindaco di Vienna dal 1897 al 1910, cattolico), ammirava Edouard Drumont ed era favorevole a leggi restrittive contro i migranti ebrei (dalla Russia e dalla Romania).

Si vedano, a mo’ di esempio, un paio di cartoline austriache antisemite dell’epoca della Grande Guerra: la prima, sulla «giustizia degli ebrei», la seconda sulla Dolchstoßlegende (‘mito della pugnalata alle spalle’).

Ma per capire il retroterra psicologico della mentalità tedesca è preziosa la testimonianza di Daniel Paul Schreber (1842-1911), giudice tedesco, autore delle Memorie di un malato di nervi (1903), libro analizzato da Sigmund Freud nel famoso saggio del 1911 “Il caso Schreber”. Osservazioni psicoanalitiche sul resoconto autobiografico di un caso di paranoia (dementia paranoides). Il giudice psicotico descrive, in una delle sue allucinazioni, la crisi della nazione tedesca, individuando l’esigenza di un salvatore e il pericolo rappresentato dalla “contaminazione” con gli elementi cattolici, ebraici e slavi:

«Il “primo giudizio di Dio” [aprile 1894] fu una serie di visioni continue […] Si trattava della rappresentazione secondo cui al popolo tedesco, in particolare alla Germania evangelica, non poteva più essere lasciata l’egemonia in quanto popolo eletto di Dio, dopo che, a partire dagli ambienti del popolo tedesco, era derivata una crisi pericolosa per la sussistenza dei reami di Dio, crisi dovuta al conflitto tra il professor Flechsig e me; inoltre il popolo tedesco doveva essere persino escluso del tutto nell’occupazione di  altre “sfere cosmiche” (“pianeti abitati”?), a meno che non si fosse fatto avanti un campione in favore del popolo tedesco che avesse dimostrato essere il popolo tedesco ancora degno di ci��. Questo campione ora dovevo essere io, ora doveva esserlo un’altra personalità che io avrei dovuto indicare, e io, in seguito a ciò, ho nominato […] i nomi di una serie di uomini eccellenti, secondo me adatti per una tale battaglia. In connessione col citato pensiero fondamentale del primo giudizio di Dio si trovava la penetrazione del cattolicesimo, del giudaismo e dello slavismo».

Il padre di Daniel era Moritz Schreber (1808-1861), medico ortopedico e pedagogista tedesco, autore del best-seller Die ärztliche Zimmergymnastik (1855), nonché esponente della cosiddetta ‘pedagogia velenosa’ (repressione dei bambini e dei ragazzi attraverso punizioni corporali e duri esercizi fisici). I suoi due figli maschi finirono il maggiore suicida (a 38 anni), il minore ricoverato per problemi psichiatrici (Daniel, appunto). «Hitler and his peers were raised when Dr. Schreber’s books, preaching household totalitarianism, were popular» (Schatzman 1973: 143). In effetti, i disegni di Schreber padre sono abbastanza inquietanti, e oggi metterebbero in allarme gli assistenti sociali anziché attirare folle di lettori come fece nel secondo dopoguerra The Common Sense Book of Baby and Child Care del pediatra Benjamin Spock.

Per comprendere il delirio di Schreber figlio dobbiamo ricordare che nel 1890 era finita l’era di Bismarck, a causa del conflitto fra il cancelliere e l’imperatore Guglielmo II (il Kaiser), contrario alla dura repressione dei socialdemocratici. Si noti che Hitler criticherà sempre Guglielmo II.

Centrale (come si è visto) è il ruolo degli intellettuali nella diffusione dell’antisemitismo. Passiamo in rassegna tre figure importanti nel periodo fascista:

  1. Virginio Gayda (1885-1944): laureato in economia, giornalista (corrispondente estero della Stampa [dal 1908] e del Messaggero [dal 1919], direttore del Messaggero [dal 1921 al 1926] e del Giornale d’Italia [1926-1943]), interventista, curatore della voce Razza: la politica fascista della razza nell’appendice all’Enciclopedia Treccani, morto sotto i bombardamenti della capitale.

  2. Telesio Interlandi (1894-1965): giornalista, direttore del quotidiano Il Tevere (1924-1943), ispirato al fascismo integrale di Farinacci, e del quindicinale La difesa della razza (1938-1943); segretario dei giornalisti romani, membro della Commissione superiore per la stampa, autore del libello Contra Judaeos (1938), recensito con lodi sperticate da Guido Piovene sul «Corriere della sera»; godette dell’amnistia Togliatti.

  3. Giovanni Preziosi (1881-1945): sacerdote dal 1904 al 1921 (all’inizio di orientamento cattolico democratico), inviato negli Stati Uniti per studiare l’emigrazione italiana (1906), giornalista, direttore della rivista La vita italiana (1915-1943), interventista, influenzato dal cospirazionismo antisemita (dall’agosto 1920), editore dei Protocolli dei savi anziani di Sion (1921), legatosi a Farinacci sotto il fascismo, consultato durante la preparazione delle leggi razziali, ispettore per la razza sotto la RSI (stese il regolamento dell’Ispettorato), suicidatosi alla fine della guerra.

Sul versante politico spicca il gerarca più “nero”, Roberto Farinacci (1892-1945): in origine socialriformista, poi interventista, caporale alla fine della Grande Guerra, fascista della prima ora, membro del Gran Consiglio del Fascismo, acceso sostenitore dell’antisemitismo, condannato a morte dal CLN.

Riassumendo, possiamo dire che la costruzione del nemico si sviluppa su quattro direttive, non parallele, con diversi punti di tangenza:

  1. Antigiudaismo di matrice cristiana: l’ebreo deicida, che mina le certezze del cristiano; l’ebreo traditore (Giuda = giudeo).

  2. Sovraccarico simbolico: l’ebraismo come paradigma negativo della modernità (laicismo, capitalismo, liberalismo, socialismo, internazionalismo ecc.).

  3. Neopositivismo pseudodarwiniano: neopositivismo pseudodarwiniano in chiave nazionalista; caratterizzazione psicofisica degli ebrei per dare un’identità contrastiva ai non ebrei dei vari Stati-nazione.

  4. Cospirazionismo: l’Internazionale ebraica.

Vogliamo qui ricordare, fra le tante (troppe) vittime italiane della Shoah, Clara Pirani (Milano, 23/6/1889 – Auschwitz, 6/8/1944), maestra elementare, ebrea, coniugata con un non ebreo (Francesco Saverio Cardosi): pur avendo vinto il concorso, non riuscì ad avere la cattedra, a causa delle leggi razziali; essendo sposata con un preside (figura in vista), non riuscì a nascondersi e fu arrestata il 12 maggio 1944, deportata il 2 agosto, uccisa con il gas (lo Zyklon B, prodotto dalla IG Farben) ad Auschwitz.

Nell’ultima lettera ai familiari, scritta quattro giorni prima di morire, Clara cerca di rincuorare i suoi cari: «la prova è dura eppure ho fiducia di superarla – la vostra tranquillità e la certezza che state bene mi daranno la forza di superare i disagi». Parole di amore, che svettano sulle parole di odio con cui (anno dopo anno) si gettarono le fondamenta per gli infernali campi di sterminio. Non è forse il lager «il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa coerenza» (Levi 1961: 9)?

Bibliografia

Galli 2002 = Il Mein Kampf di Adolf Hitler. Le radici della barbarie nazista, a cura di Giorgio G., Milano, Kaos.

Hamann 1998 = Brigitte H., Hitler: gli anni dell’apprendistato, trad. di Giuseppina Quattrocchi von Wissmann, Milano, Corbaccio.

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Moretti 1998 = Mauro M., La dimensione ebraica di un maestro pisano. Documenti su Alessandro D’Ancona, in Gli ebrei di Pisa (secoli IX-XX). Atti del Convegno internazionale (Pisa, 3-4 ottobre 1994), a cura di Michele Luzzati, Pisa, Pacini, pp. 241-282.

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Immagine: La degradazione di Alfred Dreyfus

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