di Rodolfo Di Biasio*

Da poco, il 28 luglio 2013, è morto Gianfranco Palmery. È morto un grande poeta e un silenzio assordante ha accompagnato la sua dipartita. In questi ultimi tempi altri silenzi, altrettanto assordanti, hanno segnato la scomparsa di altri poeti, di Leonardo Mancino e di Achille Serrao, ad esempio. La cosiddetta grande stampa non ne ha dato notizia: la poesia pare davvero diventata un vizio solitario. La poesia che è fatta di parole acuminate e insostituibili pare non avere più udienza. La parola di ogni giorno è diventata invece vuota e si è fatta cicaleccio.

Gianfranco Palmery aveva settantatré anni e forse nessuno dei poeti della sua generazione si è fatto come lui sacerdote della poesia. La sua vita appartata, la dedizione completa alla scrittura intesa come necessità e assolutezza dell’esistere, si pongono come scelte esemplari. Mi vengono in mente ora a ripensare la vita di Palmery i versi che Foscolo nei Sepolcri dedica a Parini, anche lui sacerdote della poesia in perenne dialogo con la musa sotto la protezione del grande tiglio.

Palmery non era cambiato nel tempo, questo suo atteggiamento oltranzista gli è appartenuto da sempre. Continua infatti a persistere dentro di me il ricordo del nostro primo incontro, nella sede romana di «Rapporti», di cui ero direttore responsabile che gli aveva pubblicato una poesia intitolata Versi per C. In quell’incontro, era il 1976, il giovane Palmery già parlava così della poesia. Già gli appartenevano la determinazione e il rigore. Già poteva scrivere (e sono versi tratti da Versi per C.) che «La poesia / non viene dalla tranquillità ma / nell’affanno e nella mancanza…»

In questa sua scelta è stato però fortunato: la poesia non lo ha mai abbandonato. Autore di tredici libri negli ultimi tre anni ha dato alla stampa tre libri: Compassioni della mente (Passigli, Firenze 2011), Amarezze – Madrigali e altre maniere amare (Il Labirinto, Roma 2012) e Corpo di scena (Passigli, Firenze 2013).

Non sono libri aggiuntivi di un itinerario, ma piuttosto libri testamentari. Poteva apparire addirittura eccessiva, fino alla sua scomparsa, questa sua accelerazione improvvisa. Per un poeta come lui, abituato a lavorare la parola, tre libri devono essere stati un lavoro intenso, in più portato avanti da un uomo non più sorretto dalla buona salute. Sono libri invece che compattano il suo lungo percorso, perché ce lo consegnano a mo’ di bilancio. Ma se Sauro Albisani può scrivere che «la chiusa» di Compassioni della mente (il libro raccoglie testi che vanno dal 1997 al 2002) «è gravida d’un presentimento d’amputazione, di perdita della forma intera» e se sul risvolto di copertina di Corpo di scena (il libro raccoglie testi che vanno dal 2002 al 2011) si può leggere che il libro è la rappresentazione «di un destino personale e generazionale», è «un autoritratto con tenebre», è con Amarezze,l’esile bellissimo libriccino del 2012, che Palmery dice fino in fondo il suo rapporto con la vita e con la morte («Morte della mia vita, amata morte, / cuor mio, viscere mie, / – ti piace questa corte / d’amore che squaderna anatomie / alla maniera antica? – / oh ma niente è più mio ma dell’amica! / Sono tutto per te, tutte le vie / ti hanno portato a me, sempre più corte, / così dentro di me / che tu sei la mia vita e io la morte»), la disperazione del suo corpo malato («Povero corpo mio leso e stremato / non c’è più niente che possa salvarti / povero corpo mio / solo a metà, a tre quarti, decimato / da nemici mortali…»), la perdita di ogni gioia («Si perdono le gioie, non le pene, / le pene no, imperversano fantasmi / familiari, e ripetono le scene / più funeste, i tuoi furori, gli spasmi…»).

Così di testo in testo, sono ventidue i testi, brevissimi e concentratissimi: ventidue tessere in cui il poeta ci consegna tutto il suo essere poeta, in cui la parola non deborda, non indulge, ma trafigge e si fa canto. Amarezze è una partitura musicale, variazioni sullo stesso tema. Ne vien fuori il distillato di un percorso esistenziale e artistico che non è venuto mai meno all’affermazione premonitrice dei lontani Versi per C., che la poesia cioè nasce «nell’affanno e nella mancanza».

Le amarezze di Gianfranco Palmery sono infatti affanni e mancanze. È capace il poeta in una sorta di lucida consapevolezza di elencarle tutte, una per una, perché l’amarezza nella vita che si va allontanando da lui ormai «s’impietra nel cervello, in vene arterie».

Corollario uno

Ho parlato poco prima di “silenzio assordante” e credo di aver dato il senso, con questa espressione, del vuoto che si percepisce ogni volta intorno ai poeti (oggi tocca a Gianfranco Palmery) che ci hanno lasciato e che durante la vita si sono dedicati soprattutto al loro lavoro sulla parola e non si sono invece preoccupati più di tanto di costruirsi una visibilità consistente. Non è un fatto nuovo questo, anzi è abitudinario.

La riprova la ritrovo in un mio intervento apparso in Poesia della metamorfosi (Antologia e proposte critiche a cura di Fabio Doplicher_)_ intitolato Sulla poesia e sul Sud in cui facevo alcune considerazioni sull’emarginazione di tanti poeti del Sud, sulla loro quasi inappartenenza al circuito della poesia.

Quelle parole che dedicavo nel 1984 alla esistenza periferica del poeta meridionale, a distanza di trent’anni mi pare che possano essere applicate alla condizione altrettanto emarginata di quei poeti di ogni luogo d’Italia che non sono riusciti, come dicevo, a proporsi, a farsi visibili. Quel mio intervento si basava anche su quanto scriveva Edoardo Esposito su «Belfagor» (Anni XXXVII, I, 31 gennaio 1982) riprendendo Giulio Ferroni:

«Osservava tempo fa Giulio Ferroni che alla massiccia espansione quantitativa dei testi poetici negli anni settanta si oppone un altrettanto atteggiamento di non-lettura non certo nuovo ma è preoccupante proprio se coniugato a quella espansione: giacché di quei testi naturalmente si parla, siano essi letti o no».

Nasce cosi quell'openione di cui parla appunto Ferroni: «La consistenza di un testo nel mondo della comunicazione letteraria è data insomma da quella che i trattatisti cinquecenteschi definirebbero openione o reputazione: il testo non vale per le sue possibilità di essere letto, ma per il suo modo di porre se stesso nel mondo degli addetti ai lavori, di produrre openione di sé e dell’auto­re».

Ero giovane allora e speravo tenacemente che le cose cambiassero, ma a tutt’oggi non sono affatto cambiate. Tutt’altro.

Di tanto in tanto una nuova antologia che pare promettere chissà quali rinnovamenti ogni volta si riduce a una riproposta quasi in toto delle stesse presenze. Il margine di allargamento è cioè quanto mai esiguo e in questo modo l’openione intorno ai poeti immessi nel circuito cresce a dismisura. Sul fronte opposto cala sugli esclusi il silenzio assordante di cui dicevo. E allora occorre dire con chiarezza che la critica si è fatta latitante e può accadere che un poeta come Gianfranco Palmery può lasciarci senza che il suo lavoro venga valutato, storicizzato ed inserito al posto che gli compete nella mappa della poesia. Un grande critico della letteratura italiana che ci ha lasciato anche lui da poco, un maestro, così scriveva invece nella sua Storia della letteratura italiana contemporanea evidenziando le trascuratezze di tanta critica letteraria:

«A trenta anni di distanza dalla prima edizione, in cui l’indagine storico-letteraria si fermava alla data del 1965 (portata nei volumi successivi al 1975 e 1985), si ripubblica l’opera intera, 1940-1996, conservando i criteri che ci avevano guidato fin dall’inizio.

È stata sempre nostra intenzione fornire dell’argomento un quadro tanto organico quanto meticoloso, sí che la “storia” apparisse non una vicenda di protagonisti ma un quadro mosso e arricchito dalle molte componenti che contribuivano a disegnarlo.

In pratica, questo ha significato affondare la ricerca anche su riviste minori e minime e autori di non primaria importanza, nella convinzione che la dimensione del panorama sia costituita non soltanto dalle linee emergenti sulla superficie ma dal suo spessore in profondità, donde prendono ragione e alimento anche i fatti e i nomi destinati a primeggiare».

Manacorda in questo modo ribadisce programmaticamente la necessità etica di affondare la ricerca critica in profondità. Ribadisce che l’esercizio critico vuole pazienza. Quella pazienza su cui egli insisteva tanto da intitolare un suo volume di saggi del 1972 Vent’anni di pazienza. Una pazienza che molte volte non basta ancora a sanare le dimenticanze tanto variegato e complesso è il percorso della poesia dei nostri anni.

E allora se è vero che alla base del dibattito sulla poesia ci sono trascuratezze destinate ad alterarne o a falsarne la mappa, facciamoci noi lettori cercatori d’oro, andiamo a scovare noi quei libri, quelle singole poesie trascurate quando sono il risultato alto e compiuto del poeta. Facciamoci contemporaneamente contestatori di una auctoritas che molta critica non mostra di meritare.

Facciamoci insomma ricercatori pazienti e troveremo il filone d’oro.

Oggi la pepita che stringo nella mano è Amarezze di Gianfranco Palmery.

Corollario due

Le cose si aggiungono alle cose, sicché sento che è opportuno e doveroso ricordare anche il lavoro per la poesia fatto da Gianfranco Palmery. Un lavoro che egli svolse giornalmente accanto alla scrittura in proprio e che lo fa compagno di viaggio di molti altri poeti degli anni ’70, perché anche lui fu sospinto dalla consapevolezza etica che essere poeti significa riconoscere e promuovere la poesia degli altri.

La schiera di questi poeti è ampia, qualificata e attende ancora chi li studi organicamente e consegni loro il posto che ognuno merita nel quadro della poesia del secondo ‘900. Perciò, e solo a mo’ di esempio, due nomi: Fabio Doplicher che portò avanti una rivista come «Stilb», che fu redattore di alcune antologie oggi necessarie per chi voglia avere il quadro della poesia degli anni ’70 e ’80, che fu straordinario organizzatore di convegni nazionali e internazionali e Leonardo Mancino che dal Sud, da Bari, diede vita ad una collana di poesia (I testi di Lacaita) che riuscì a far distribuire da La Nuova Italia. Questo fu un piccolo grande miracolo operato da Mancino, una battaglia portata avanti e vinta in nome della poesia.

Dal suo angolo di osservazione Gianfranco Palmery non è stato da meno. Dopo la fondazione di «Arsenale» (era quello il tempo delle riviste, quando ognuna operava con la sua cifra e la sua incidenza, quando ognuna portava avanti proposte e apriva dibattiti, quando ognuna offriva spazi ai poeti fino a comporre una sorta di mappa con cui orientarsi) ecco l’idea di Palmery di dar vita a una casa editrice alternativa. Volle chiamarla Il Labirinto, titolazione intrigante e misteriosa, titolazione perciò quanto mai affascinante.

Oggi a guardare i poeti stampati da Palmery, poeti italiani e stranieri, si può verificare il lavoro amorevole che c’è dietro ogni libro: dal formato alla carta, al segno grafico. E allora la scelta di solitudine che ha caratterizzato la vita e il lavoro in proprio di Palmery alla luce dei fatti risulta essere una splendida partecipe solitudine.

Immagine sotto il titolo: Gianfranco Palmery, Manoscritto di O vita senza vita (poi in Amarezze, Il Labirinto 2012).

*Rodolfo Di Biasio, nato a Ventosa nel 1937, vive a For­mia. Ha diretto «L'Argine letterario» e «Rapporti». Ha colla­borato e collabora a numerose riviste e giornali con testi creativi, saggi critici, interventi, recensioni. È stato condirettore con Giuliano Manacorda della collana Le antologie della poesia_. Ha collaborato alla RAI. Ha pubblicato i seguenti libri: Poesia:_ Niente è mutato (Re­__bellato, Padova 1962), Poesie dalla terra (De Luca, Roma 1972), Le sorti tentate (Lacaita, Manduria 1977), I ritorni (Quaderni di Stilb, Roma 1986), Patmos (Stamperia dell’Arancio, Grottammare 1995), Altre contingenze (Caramanica, Marina di Minturno, 1998), Poemetti elementari (Il Labirinto, Roma 2008). Narrativa: Il pacco dall'America (Gremese, Roma 1977), La strega di Pasqua (Bastogi, Foggia 1982), I quattro camminanti (Sansoni, Fi­renze 1991 e Ghenomena, Formia 2008); Critica: Bonaviri (La Nuova Italia, Il Castoro, Firenze 1978). Suoi testi poetici e narrativi sono stati tradotti in diverse lingue.

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