di Luigi Matt*

Nel volume Scorciatoie e raccontini, pubblicato nel 1946, Umberto Saba raccoglie due diverse serie di testi, frutto entrambe di una predisposizione per le misure brevi manifestata sin dagli anni giovanili. Dopo aver scontato nell’immediato un deludente insuccesso, il libro verrà nei decenni successivi valorizzato opportunamente da numerosi critici. Particolarmente interessante è la prima sezione, in cui trovano luogo 165 brani scritti a partire dalla metà degli anni Trenta, molti dei quali costituiscono un esito tra i più convincenti della scrittura aforistica novecentesca (per un certo numero di scorciatoie, invece, si può parlare di versioni moderne dell’apologo).

L’ultimo testo è costituito dalla nuda esplicitazione di due punti di riferimento: «GENEALOGIA DI SCORCIATOIE. Nietzsche – Freud» (165). Ma altre tangenze sono ipotizzabili: oltre ai riconosciuti maestri del genere (perlopiù stranieri), andranno citati il Guicciardini dei Ricordi e il Leopardi dei Pensieri, da cui Saba eredita la capacità di individuare con pochi tratti di penna certi aspetti peculiari dell’italianità.

Come capita di fronte ad ogni scrittura di valore, non è affatto necessario far propri tutti i giudizi, spesso taglienti, emessi da Saba per apprezzare le sue prose e trarne spunti di riflessione: anche nel caso che le idee espresse appaiano non condivisibili, si rimarrà sempre colpiti dalla finezza e dall’anticonvenzionalità dello sguardo di uno scrittore che ha nella libertà intellettuale un irrinunciabile habitus mentale.

Una prosa scarnificata

La caratteristica stilistica più evidente delle Scorciatoie è l’andamento estremamente sintetico ed ellittico della prosa. Il fatto che un ridotto numero di parole debba veicolare molti concetti ha come conseguenza l’amplificazione della densità semantica richiesta ad ogni singolo elemento dello scarno quadro; ciò si traduce in una peculiarità grafico-interpuntoria che salterebbe agli occhi anche del lettore più distratto se pure l’autore non la denunciasse in apertura: «Sono piene di parentesi**,** di “fra lineette”, di “fra virgolette”, di parole sottolineate nel manoscritto e che devono essere stampate in corsivo, di parole in maiuscolo, di “tre puntini”, di segni esclamativi e di domanda» (1). In casi estremi, si può arrivare a rompere per via grafica l’unità della parola: «per l’inconscio – mare = ma(d)re» (86).

Spesso è ad un inciso (fatto di una semplice frase o anche di un solo vocabolo) che viene affidato il compito di svelare il senso di un intero aforisma. Il caso forse più notevole è quello della velenosa scorciatoia contro Benedetto Croce, in cui il riconoscimento dell’altissimo livello culturale non ha funzione elogiativa, ma costituisce un’aggravante per la mancata militanza politica del filosofo napoletano durante il ventennio fascista: «In una casa dove uno s’impicca, altri si ammazzano fra di loro, altri si danno alla prostituzione o muoiono faticosamente di fame, altri ancora vengono avviati al carcere o al manicomio, si apre una porta e si vede una vecchia signora che suona – molto bene – la spinetta» (3).

Com’è ovvio, questo procedere “in levare” richiede un lavorio maggiore di quello necessario per un brano di prosa tradizionalmente distesa. Il programma di Saba è chiaramente delineato da questa efficace formulazione, che sembra anticipare una pagina delle Lezioni americane di Italo Calvino: «Mi sono sempre piaciute le frasi [...] brevi e nette. Compendiano – sin dove possibile – una situazione. Ci vuole a volte – per farne una – il travaglio di tutta una vita» (155).

Sintetizzare per chiarire

È fondamentale specificare che le proprietà formali fin qui descritte non rispondono in alcun modo ad intenti sperimentali – dai quali pochi letterati novecenteschi sono rimasti programmaticamente lontani quanto Saba –, ma vanno interpretate come strumenti utili (malgrado la non canonicità) ad attuare quello “scrivere chiaro” che è certamente un obiettivo fondamentale dell’autore, tanto in prosa quanto in poesia. Il principio di base a cui si rifà Saba sembra in effetti quello della funzionalità espressiva anche a scapito dell’eleganza, d’altronde apertamente richiamato a proposito di un suo grande concittadino: «SVEVO poteva scrivere bene in tedesco; preferì scrivere male in italiano» (100).

Rispondendo ad una lettera di Saba che lo aveva contattato dopo essere rimasto impressionato dalla lettura di Se questo un uomo («più che un bel libro, [...] un libro fatale»), Primo Levi mette in luce alcune consonanze tra il suo memoriale e le Scorciatoie (in particolare il comune tentativo di «fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano») e dichiara di ammirare in queste ultime la capacità «di nulla lasciare inesplorato, di tutto sollevare dal buio del sottosuolo alla luce della consapevolezza». Si può dire sulla scorta di questa lettura che l’insolito lavoro sul linguaggio compiuto negli aforismi sia avvertito da Saba come indispensabile per il faticoso percorso dall’oscurità alla chiarezza.

Non stupirà allora notare come dal punto di vista lessicale non ci siano palesi sortite fuori dai territori – d’altronde molto vasti – dell’italiano medio. Un’eccezione richiesta dal contesto è la neoformazione scorciatorizzato (129); si può citare inoltre un verbo molto letterario (anche se non si può considerare un vero e proprio arcaismo) come attossicare (77). Per il resto non si registrano voci poco comuni. Solo episodiche anche le varianti fonetiche o morfologiche antiquate: figliale (141), ommessa (122) e ommettermi (124), sieno (73); è appena il caso di menzionare il plurale psicologhi (144), che oggi suonerebbe come marcatamente popolare, ma che nella prima metà del Novecento è tutt’altro che inusitato.

Attenersi alla medietas non significa naturalmente che debba essere esclusa la possibilità di attivare una figuralità non ovvia e persino immaginifica: si veda ad esempio la brillante formula utilizzata per definire lo stile delle Grazie di Foscolo: «gelatinose iridescenze» (141).

La psicanalisi divulgata

In parecchi dei suoi testi Saba non si fa scrupolo, quando se ne presti il caso, ad evocare immagini sgradevoli, come la seguente: «fare una guerra per prendere la Dalmazia, sarebbe stato come fare all’amore apposta per prendere la sifilide» (116). L’attenzione per gli aspetti fisiologici e patologici della vita è perfettamente coerente con quell’esplicito freudismo che rappresenta la stella polare della cultura dell’autore. Le categorie psicanalitiche vengo spesso applicate all’interpretazione di fenomeni politici ma anche – in anni in cui la critica freudiana in Italia è ancora di là da venire – alla messa in luce delle pulsioni che possono agire nell’opera di scrittori, musicisti o pensatori. Leggendo le Scorciatoie, tra le altre cose, si viene indotti a riflettere sul fatto che Giuseppe Verdi è «quasi troppo genitale, per essere un artista» (48), o che «Nietzsche non fu un filosofo; fu il caso estremo di una quasi completa sublimazione di Eros» (59). Un piccolo capolavoro è la definizione dell’origine della creatività di D’Annunzio: «Come gli schizofrenici – dai quali lo divise un niente – scambiò – fu, ahimè!, precursore – la parola col sentimento, l’ombra della cosa con la cosa» (98). Quale che sia l’accettabilità di questi giudizi, è difficile negarne la carica suggestiva.

È opportuno, per concludere, dar conto della capacità dimostrata da Saba – in linea con quanto detto in precedenza – di rendere le categorie psicanalitiche in un linguaggio piano e scevro di tecnicismi (un insegnamento, bisogna, notare, non sempre messo a frutto dagli intellettuali delle generazioni successive). Ecco ad esempio come le due opposte pulsioni alla base dei conflitti della psiche, messe in luce dal Freud di Al di là del principio del piacere, vengono descritte in un tono marcatamente colloquiale, ma senza che il processo di radicale semplificazione vanifichi il potenziale conoscitivo: «EROS è chiassoso; fa molto baccano sulla superficie della terra. Il suo nemico – l’istinto di Morte – è (come l’eminenza grigia dei romanzi popolari) silenzioso. Ma è lui che, in fine, prende tutto» (147).

*Luigi Matt insegna Storia della lingua italiana nell’Università di Sassari. È condirettore degli «Studi linguistici italiani». Ha pubblicato tra l’altro Teoria e prassi dell’epistolografia italiana tra Cinquecento e primo Seicento. Ricerche linguistiche e retoriche (Roma, Bonacci 2005), Gadda. Storia linguistica italiana (Roma, Carocci 2006), La narrativa del Novecento (Bologna, Il Mulino, 2001), ‘Quer pasticciaccio brutto de via Merulana’. Glossario romanesco (Roma, Aracne, 2012), Forme della narrativa italiana di oggi (Roma, Aracne, 2014), Giorgio Manganelli ‘Verbapoiete’. Glossario completo delle invenzioni lessicali (Roma, Artemide, 2017).