Chi c’era, quel martedì della Befana del 1976, assistette a uno di quegli eventi che cambiano la percezione della televisione. Il primo episodio di Sandokan, sceneggiato televisivo (allora si diceva così, e noi useremo volutamente questa parola) concepito nel più classico dei formati della radiotelevisione pubblica, quello in sei puntate, incollò allo schermo più persone di quanti oggi sia solo immaginabile: ventisette milioni di italiani di tutte le età, di tutte le regioni, di tutti i gradi di istruzione. Era il canto del cigno della vecchia Rai e contemporaneamente l’inizio di una concezione nuova del “sei puntate”, quella che avrebbe portato al Cuore di Luigi Comencini e alla Piovra di Damiano Damiani.
I critici letterari e cinematografici
Certo, Sergio Sollima, il creatore della serie, dovette scontare due pregiudizi che si sommavano tra loro in un incastro mortale: il primo è che Emilio Salgari, dai cui romanzi d’avventura era tratto lo sceneggiato, era considerato dalla cultura italiana come uno scribacchino, persino al di sotto di Verne, a cui almeno veniva riconosciuta una visione: ancora oggi, d’altra parte, vari prosatori contemporanei di Salgari dalla scrittura illeggibile e contorta vengono giudicati degni di comparire nella linea primaria della storia della letteratura italiana, mentre il capitano di Verona no. Il secondo riguardava lo sguardo di sufficienza, quando non di aperto disprezzo, con cui gli accademici e i critici guardavano allo sceneggiato in sé come genere divulgativo della letteratura: qualche anno prima era stato sepolto da una valanga di gretti pregiudizi, per esempio, un capolavoro come l’Odissea di Franco Rossi.
Ecco qualche giudizio con cui Sandokan fu accolto, tratto dall’archivio de La Stampa di Torino. Questo, per esempio, tanto al vetriolo quanto fuori misura: “Sollima non avrebbe lavorato diversamente se lo avessero spinto intenzioni parodistiche: purtroppo fa sul serio. La demagogia terzomondista è per Sollima una pessima ispiratrice. Non s’avvertono gli accenti d’una passione autentica. Si ha il sospetto dell’ossequio conformistico a una moda. E con tante banalità retoriche e anacronistiche cacciate a forza nella bella avventura piratesca, riesce soltanto a guastarci Salgari e lo spettacolo" (c.c., La Stampa, 3 febbraio 1976, p. 1). Abbiamo appena letto il giudizio di chi non si rendeva minimamente conto che la scrittura e la televisione sono mezzi espressivi del tutto diversi e che pensava che la tv avesse un ruolo semplicemente ancillare: un errore di fondo a cui i nostri intellettuali indulgono spesso ancora oggi. Sollima, invece, come i fatti hanno poi dimostrato, ci ha presentato il ciclo indo-malese di Salgari nell’unico modo possibile, dopo che tutti i tentativi precedenti, fondati spesso su modelli di recitazione teatrale e non televisiva, si erano risolti in un fallimento.
Ancora nel 1990, un anonimo commentatore di Stampa Sera scriveva impunemente che “Sergio Sollima, regista, tentò, un po’ goffamente, di scavare nelle menti dei personaggi di Salgari per tirarne fuori due centimetri di spessore” (3 agosto, p. 19): non si capisce se l’offesa andasse al romanziere o al regista. Ma Sollima, evidentemente, per sua e nostra fortuna, non doveva essere facilmente impressionabile. Proveremo quindi a mostrare, nei limiti di spazio qui concessi, perché con Sandokan siamo davanti a un capolavoro senza tempo.
Tensione emotiva e cliffhanger
Lo stile visivo presenta colori dai toni caldi (l’opera è stata girata in India e in Malesia occidentale), in qualche caso persino accecanti, tutto sommato accettabili ancora oggi, che le tecnologie hanno fatto passi in avanti giganteschi: certo, nella prima visione questo fatto andò perduto, visto che era ancora l’epoca del bianco e nero. Le inquadrature sono sorprendentemente moderne, con qualche colpo da maestro non colto dai critici cinematografici (con ogni probabilità impreparati a cogliere il dato tecnico), come il magistrale primissimo piano a telecamera fissa sulla Tigre della Malesia che si arrende agli inglesi al termine del quarto episodio, con Marianna e due tigrotti sullo sfondo, ridotti alle dimensioni di statuine di un presepe. Vedere per credere. La tensione emotiva si scarica tutta sui movimenti impercettibili dei muscoli facciali di Sandokan e sui secondi cruciali della sua decisione finale: la colonna musicale tace, il solo rumore è quello del vento, in attesa della deflagrazione che la decisione della Tigre scatenerà. Il finale dell’episodio presenta così un cliffhanger drammatico inimmaginabile anche un solo minuto prima. Le soluzioni tecniche, in questo come in altri casi, lungi dall’essere fini a sé stesse, forniscono il miglior supporto possibile alla narrazione.
Ci sono aspetti che ricollegano Sandokan al vecchio sceneggiato con valore pedagogico, come il lungo prologo con una voce esterna che spiega il quadro storico reale in cui si svolgono le vicende fittizie: oggi probabilmente una scelta del genere sarebbe controcorrente, soprattutto nel panorama della fiction italiana generalista. A nostro avviso contribuisce invece all’autorevolezza complessiva dell’opera: alla sua ambizione di non essere, come non è, un’opera di passaggio.
C’è anche un altro aspetto temerario nell’andamento narrativo, ed è la presentazione artatamente ritardata dei personaggi principali, che vengono solo evocati, quasi chiamati in scena: Yanez è presentato al pubblico dopo mezz’ora abbondante, Sandokan a circa metà episodio, Marianna addirittura solo nella seconda puntata. Un grande azzardo, ma anche, evidentemente, una sfida vinta.
Il ciclo indo-malese
Sandokan comincia dalla vicenda del rapimento dei principini, che non c’è nei romanzi salgariani: e già qui il pubblico del romanziere, compreso lo scrivente di questa nota, che era ancora bambino al momento dei fatti ma aveva già letto Le tigri di Mompracem, non gradiva alcun tipo di allontanamento dall’originale. Ma la prima frase significativa, quasi a fare pace con il pubblico degli oltranzisti, è “la finirò col mio kriss”, e contiene una di quelle parole che a Salgari devono tutto. Pochissimi, ma significativi, sono i prestiti malesi nello sceneggiato; Sambigliong, nello stesso episodio, dice a Yanez “se vuoi ho del betel, di quello buono”, e più avanti ci sono anche rajah, praho, babirussa, e poco altro: quel che basta per dare il colore locale senza destabilizzare lo spettatore (ma è una prassi che poi si consolida: anche il Montalbano televisivo usa pochi sicilianismi concentrati in forme bandiera, rispetto all’originale di Camilleri).
Le sei puntate si basano principalmente sul ciclo indo-malese. La lunga sequenza della caccia alla tigre, la prima sfida tra Sandokan e il colonnello Fitzgerald per Marianna, quella che porta alla scena più spettacolare di tutto Sandokan, l’uccisione della tigre con il salto sopra-sotto (ben prima del digitale: e la vera tigre, sia chiaro, non ha riportato danni), porta in dono anche un inserto de I misteri della jungla nera, cioè la presenza del cacciatore indiano Tremal-Naik, uno dei personaggi-filosofi dello sceneggiato (“la morte non deve divertire, neanche se la morte è quella di un animale”, dice a muso duro a lord Guillonk nel secondo episodio).
Il serbatoio più importante è naturalmente Le tigri di Mompracem, con una scena tratta da I pirati della Malesia, il romanzo successivo (è quella di Yanez alle prese con le delizie del menu cinese), e qualche idea tratta dai romanzi di ambientazione indiana, come quella della guerra batteriologica ante litteram con cui viene indebolita Mompracem prima dell’invasione. Le cuciture tra le parti e la ridefinizione dell’impianto narrativo sono ovviamente di Sergio Sollima: a conti fatti, una buona parte del materiale. Ma questa è l’opera di Sollima e non la riduzione (come si diceva allora) di Salgari anche in un altro aspetto, di cui parleremo brevemente adesso, che rende problematico, a oltre quarant’anni di distanza, affrontare un’eventuale riscrittura televisiva delle opere salgariane: i personaggi e i loro interpreti.
Il moderno chiaroscuro dei caratteri
Al cambiamento della trama dei classici letterari eravamo stati cautamente abituati; pochi anni prima, il Pinocchio di Comencini presentava sin da subito un bambino in carne e ossa anziché il burattino (in Collodi la trasformazione avviene, come tutti sanno, soltanto alla fine). Ma con Sandokan il salto di qualità è innegabile, perché è la caratterizzazione dei personaggi, ancora prima della disposizione degli avvenimenti, ad essere diversa. C’è un personaggio silenzioso, la Malesia (prima ancora di Mompracem), senza il quale l’intero impianto non esisterebbe. E poi, intanto, scompare la visione sommaria, in bianco e nero, che distingueva in Salgari i personaggi buoni da quelli cattivi. Molti “cattivi”, nella serie, ridefiniscono la loro posizione in un chiaroscuro molto più moderno, aperto e articolato.
Il protagonista, Sandokan, insieme con quello di Marianna, è quello che meno varia dalle pagine dei romanzi allo schermo: un eroe tutto d’un pezzo, senza tentennamenti, in due dimensioni: bastano i primi piani di Kabir Bedi (anche quelli di Carol André sono pienamente convincenti) e il personaggio decolla. Yanez, il doppio dell’eroe, alla flemma abituale (è la parola che gli è accostata con più frequenza nelle opere di Salgari) aggiunge, grazie a Philippe Leroy, un’ironia che costituisce il lato comico della miniserie ed è quasi completamente sconosciuta ai romanzi. Già il colonnello Fitzgerald, il contendente di Sandokan (forse più per la mano di Marianna che per il campo di battaglia, in realtà), cambia la natura sommaria che aveva nel romanzo: ha una visione leale, da vero ufficiale di Sua Maestà la regina britannica, che ce lo rende meno irrimediabilmente antipatico anche quando prova a contendere la dolce Marianna all’eroe.
Ma il personaggio che compie una metamorfosi completa è James Brooke, che nei romanzi dello scrittore veronese è una comparsa schematica e a una sola dimensione e che con Sollima si pone come cerniera tra oriente e occidente: fra l’Inghilterra di Sir Fitzgerald e quella del rajah bianco c’è la stessa distanza che tra quella del rajah e i tigrotti di Mompracem. Il Brooke di Sollima ragiona in modo complesso, come un personaggio con chiari accenti shakespeariani: l’interpretazione di Adolfo Celi, qui, è un capolavoro con pochi eguali nella cinematografia del Novecento italiano. Vale la pena di riprodurre per intero uno di questi lunghi ragionamenti, qui fatto alla presenza di Sir William Fitzgerald (è l’inizio del secondo episodio):
Colonnello, cos’è l’Inghilterra per lei? Il verde dei prati della sua contea, le luci di Trafalgar Square la notte di Natale, il suo college, l’accademia militare. Il suo circolo, la corte di Saint James. Per gli inglesi come me, nati e vissuti lontano dalla madrepatria, è diverso. L’Inghilterra è l’Impero. Sono le corse dei Berberi nel deserto illuminato dalla luna, è il sergente irlandese che mi insegnava da bambino le canzoni militari, è il mercato di Lahore, dove mille dialetti indiani si confondono, è il ribelle mussulmano del Nilo, è la strage dei bambini afgani. È l’avventura. Ed è anche Sandokan.
Ed ecco perché, riprendendo il ragionamento precedente, sarà difficile, in futuro, riproporre una diversa interpretazione dell’opera che prescinda dalle magnetiche interpretazioni di Adolfo Celi, Philippe Leroy e, naturalmente, di Kabir Bedi senza che gli spettatori la confrontino con questa pietra miliare. Se la serialità televisiva è un’opera ad autorialità collettiva, il caso di Sandokan anticipa sorprendentemente tendenze che oltreoceano sono date per acquisite da tempo. Sandokan è l’opera dei fratelli De Angelis (senza la cui colonna sonora nessuno di noi avrebbe mai amato questa serie in modo viscerale), degli sceneggiatori, dei costumisti. Di Adolfo Celi, lo Shakespeare della Malesia. E naturalmente, di Sergio Sollima, non meno che di Emilio Salgari.
Riferimenti bibliografici
L’unica descrizione della lingua dello sceneggiato è nella scheda Sandokan di Francesca Sammarco e Debora de Fazio sul sito osservatorioserietv.it (link). Vi si rinvia per gli approfondimenti.
Immagine: Sandokan (1976), regia di S. Sollima
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