Dario Fo è stato uno dei maggiori esponenti del teatro del secondo Novecento. Dopo l'interruzione imposta dal ventennio fascista e dalla seconda guerra mondiale, il grande teatro italiano della tradizione trovò una degna continuazione nelle opere di Dario Fo e di Giorgio Strehler, che ripresero rispettivamente la prima fase della commedia dell'arte e la successiva fase goldoniana che vedeva centrale l'utilizzo del copione.

I copioni antichi della famiglia Rame

Il teatro di Fo fu incentrato sullo studio filologico delle fonti e dei copioni antichi conservati dalla famiglia Rame, a cui apparteneva la moglie Franca, con la quale condivise la carriera artistica per tutta la vita. I Rame facevano risalire le origini del loro teatro al XVII secolo, come amava ricordare lo zio di Franca, Tomaso Rame, appassionato e stimato drammaturgo. Fo ebbe la fortuna di accedere direttamente a questo immenso patrimonio storico-artistico, elaborando progressivamente i caratteri fondamentali del proprio teatro che vedeva centrale il ruolo del corpo e del gesto, attraverso cui Fo e Rame articolavano il discorso parallelamente a quello espresso dalle parole. In teatro, infatti, la componente mimica non accompagna mai la battuta, rinforzandone il contenuto, ma ne riempie i vuoti, realizzando una piena armonia tra gesto e parola. Sulla base di questa definizione risulta evidente la profonda differenza tra il gesto teatrale e la gesticolazione che invece traduce mimicamente «in diretta» quanto espresso a parole.

Ritmo, corpo, gesto e parola

Grazie alla straordinaria plasticità del suo corpo e alle disinvolte capacità gestuali, Fo diventò un punto di riferimento per quanti volessero approfondire le possibilità della componente mimica. Celebri sono le lezioni tenute con altri grandi maestri della scena teatrale, come Mimmo Cuticchio, erede della tradizione dei cuntisti siciliani, con il quale Fo condusse dei seminari che si incentravano sul dialogo tra i suoi gesti e le parole di Cuticchio. Rifacendosi agli studi dell'antropologo russo Georgij Valentinovič Plechanov, Fo sostenne la stretta relazione tra le attività compiute quotidianamente, come quelle imposte dal mestiere esercitato, e i gesti compiuti abitualmente con disinvoltura. Come sottolineò Fo stesso nel suo Manuale minimo dell'attore, è il ritmo la componente fondamentale del rapporto che l'individuo instaura con il proprio corpo nell'articolare i movimenti. Proprio questo elemento lega ulteriormente il gesto alla battuta: il movimento stesso in Fo diventò espressione del senso più profondo del testo.

Nonno Bristin tra i mezaràt

A conferma di questa stretta relazione, Fo ipotizzò che i vogatori «rubassero» le metriche dei poeti, in particolare «il classico settenario che troviamo negli strambotti e nei contrasti all’inizio della letteratura italiana». La vocazione di Fo all'iperbolico, al surreale e al paradossale trovò nel gesto un canale espressivo libero e svincolato. Le radici di questa natura meravigliosamente folle e disinibita si rintracciano negli anni della sua infanzia trascorsi a Porto Valtravaglia, come spiegato più volte dallo stesso Dario Fo in numerosi appunti manoscritti e nel suo autobiografico Il paese dei mezaràt. La famiglia Fo trascorse diversi anni in un paese lombardo, i cui abitanti, come dei veri e propri attori di strada, erano soliti cimentarsi in racconti surreali e iperbolici, con cui intrattenevano i compaesani. Bristìn, il nonno materno di Fo, era uno di loro e non a caso Fo stesso lo ricordò come il primo Ruzante che conobbe nella propria vita.

Valorizzare il corpo sgraziato

Fo fu fortemente influenzato da questa idea di narrazione, che si incentrava sul ruolo del gesto. Per questa ragione, egli seppe coniugare i suoi studi da pittore presso l'Accademia di Brera e da architetto presso il Politecnico di Milano, che gli offrirono strumenti utili per la realizzazione delle scenografie e per comprendere il ruolo centrale delle forme e delle proporzioni, con discipline come la scherma che gli permettevano di assumere maggiore controllo dei propri movimenti. Gli studi di Jacques Lecoq permisero a Fo di comprendere che anche l'aspetto più grottesco e sgraziato del proprio corpo può essere valorizzato e trasformato in un utile strumento scenico. Fo si allontanò poi da molte posizioni di questo attore-pedagogo, giudicandole troppo imparziali e distanti dalla critica sociale sulla quale, secondo il drammaturgo, doveva incentrarsi la vera comicità. Ma anche il taglio definito da molti «politico» del teatro di Fo e Rame vede centrale il ruolo del corpo in movimento. Innanzitutto, è opportuno puntualizzare che Fo disprezzava questa precisazione, riteneva, infatti, «politico» un aggettivo superfluo in riferimento al teatro che, come tutta l'arte, non può non avere sottintesa questa accezione.

Autore, attore, investigatore

Alla luce di questo, è più opportuno inquadrare l'opera di Fo e Rame nel teatro d'inchiesta. Infatti, come si evince dai numerosi appunti e materiali d'archivio, Fo era solito indagare come un vero e proprio investigatore, per la stesura del copione, consultando atti giudiziari e documenti analoghi. È il caso della commedia Morte accidentale di un anarchico, che, ispirata alla misteriosa morte dell'anarchico Pinelli presso la Questura di Milano, dove veniva interrogato per la strage di Piazza Fontana nel 1969, procurò alla coppia di attori innumerevoli minacce e violenze. In commedie come questa, Fo presentava sulla scena il personaggio chiave del matto che, ispirandosi ai giullari medievali, portando il caos tra le vicende, riusciva paradossalmente a riportare a galla la verità, volutamente messa in ombra dalle strategie del potente di turno. Il primo strumento utilizzato dal matto, per svolgere il suo ruolo, è offerto proprio dalla componente mimica che, oltre a renderlo buffo, contribuisce ad esaltare la dinamicità del personaggio, alla stessa stregua del servus currens delle commedie plautine.

Una «lingua-non lingua» universale

Se in Italia Fo e Rame subirono l'onta della censura, all'estero ricevettero, al contrario, largo consenso, diventando gli autori italiani contemporanei più rappresentati. E anche questo successo è legato al genio mimico di Fo. Infatti, uno degli strumenti scenici più noti da lui utilizzati era il grammelot, ovvero quella lingua inventata, ottenuta combinando onomatopee e dialetti dell'Italia settentrionale, come in particolare il lombardo, il veneto e l'antico pavano. Questa «lingua-non lingua» rendeva universale il teatro di Fo, perché, nonostante le parole pronunciate non avessero un significato di per sé, la narrazione risultava chiarissima al pubblico, a prescindere dalla nazionalità, attraverso il ruolo più che mai esplicativo dei gesti e dei movimenti. Nel 1997 Dario Fo ricevette il Premio Nobel per la Letteratura, a cui egli non diede mai maggiore rilievo di altri riconoscimenti avuti dal suo pubblico più affezionato. Non a caso, Fo sottolineò in un appunto che la sua abitudine al figurativo lo spinse a «rappresentare più che dire i fatti», nella convinzione che il teatro sia «soprattutto spettacolo: la letteratura viene dopo».

Testi citati e letture consigliate

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*Alessio Arena (Palermo, 1996) è laureando in Lettere presso l’Università degli Studi di Palermo. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali, tra cui il Premio Internazionale «Salvatore Quasimodo». È annoverato tra i «Poeti italiani del nostro tempo» dall’Accademia de’ Nobili di Firenze, della quale è il più giovane Cavaliere Accademico. È presidente dell’Osservatorio Poetico Contemporaneo, responsabile della rubrica culturale del «Moralizzatore», direttore del Sito archeologico di Calathamet, curatore della collana di poesia «Metro» per Edity e direttore di produzione del Playful team. Ha pubblicato con Mohicani Edizioni le raccolte Discorsi da caffè, Cassetti in disordine e Lettere dal Terzo Millennio. Nel 2017 pubblica la raccolta Campi aperti (Edizioni Ex Libris). Ha pubblicato, inoltre, numerosi contributi in antologie ed articoli in ambito letterario, storico, artistico e teatrale.

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