Un teatro di periferia

Nato a Novate Milanese da una famiglia cattolica della borghesia industriale, Giovanni Testori (1923-1993) è stato critico d’arte, poeta, romanziere e drammaturgo. Fin dall’inizio della sua attività di scrittore Testori ha trovato ispirazione nelle periferie della metropoli investite dal boom economico: qui ha ambientato il ciclo dei “Segreti di Milano” (1954-1962) di cui fanno parte anche due opere teatrali, L’Arialda e La Maria Brasca (1960). Pur diversi – il primo è una tragedia, il secondo una commedia – i due testi sono molto simili dal punto di vista tematico (mettono in scena il quarto stato proletario delle periferie) e linguistico (sono scritti in una lingua aperta ad apporti regionali).

L’italiano regionale

Nell’Arialda e nella Maria Brasca Testori adopera un italiano regionale già sperimentato nei racconti del Ponte della Ghisolfa (1958). Sono anni decisivi per l’evoluzione linguistica  del nostro paese: l’italiano è sempre più una lingua parlata in larghi strati della società, e si comincia a prendere coscienza della sua articolazione in varietà regionali.

Di questa situazione Testori offre una testimonianza sostanzialmente realistica; nei due testi sono infatti ben colti vari tratti fonetici, morfologici, sintattici e lessicali tipici dell’italiano regionale lombardo: tra gli altri l’uso degli articoli un e il davanti a parole inizianti per s implicata (quei scemi, un scemo); il ricorso a verbi sintagmatici, cioè composti da una base verbale arricchita da un avverbio (chiudi su tutto, tagliato giù con l’accetta etc.); serie come fabbricone, merdone e scemate, baggianata, morosate ‘amoreggiamenti’ etc.; l’impiego dell’articolo determinativo davanti ai nomi propri (la Maria, l’Arialda); voci come frigna ‘omosessuale’, palta ‘fango’, michetta di pane, sgamellare ‘sgobbare’ etc. (per un quadro organico cfr. D’Achille 2012: 325-344).

Religioso, verbale, materico

Dopo Arialda e Maria Brasca, che segnano la fine del ciclo dei “Misteri di Milano”, Testori prende altre strade, ma non perde di vista il teatro. Nel 1965 pubblica con Feltrinelli un libro dedicato a Gaudenzio Ferrari, artista rinascimentale noto soprattutto per la sua attività al Sacro Monte di Varallo: fin dal titolo – Il gran teatro montano (Testori 2015) – Gaudenzio è visto come un artista drammatico, capace di grandi prove di «teatro popolare» (Testori 2015: 52). Poco più tardi, nel 1968, appare lo scritto Il ventre del teatro (Testori 1968), nel quale si trovano riflessioni che aiutano a capire l’imminente svolta drammaturgica di Testori. In particolare: a) il teatro è un fatto religioso (103); b) il teatro non è «scenico, ma verbale», e la sua parola è «orrendamente (insopportabilmente) fisiologica» (96); c) il teatro deve «passare [...] dal naturalismo alla natura; dall’atteggiamento storico della materia alla materia» (97).

Un Amleto degli anni di piombo

Frattanto la contestazione è iniziata, e anche dagli ambienti teatrali italiani si levano voci di radicale alterità, sia ideologica sia linguistica (al 1969 risale non per caso un testo-simbolo come Mistero Buffo di Dario Fo); per Testori la svolta arriva nel 1972, quando nel giro di pochi mesi scrive L’Ambleto, andato in scena il 16 gennaio 1973 con Franco Parenti nei panni del protagonista.

L’Ambleto rifà il dramma shakespeariano ambientandolo in una Lombardia arcaicamente barbarica e iper-contemporanea insieme, nella quale il regno di Lomazzo – usurpato da Arlungo, lo zio di Ambleto – è minacciato da anarchici e sediziosi extraparlamentari. Lo stesso protagonista è presentato come un eroe ‘contro’, che dopo aver vendicato l’assassinio del padre si suicida vagheggiando la fine della proprietà privata e il crollo della piramida dell’ordeno e del potere.

Una lingua inaudita

Se L’Ambleto appare ancora oggi un testo potente è soprattutto per la lingua in cui è scritto. Il lettore si trova davanti a un’acre fricassea di idiomi diversi, nella quale un prevalente strato italo-lombardo (dove spiccano voci come nìgore ‘nuvole’, fudesse ‘fosse’, borlato ‘caduto’, lumagotti, ciappini ‘diavoli’, pampurzini ‘ciclamini’ etc.) si accompagna a farciture sgangherate di latino, spagnolo, inglese e francese. Ecco una delle prime frasi pronunciate da Ambleto (Testori 2008: 1147):

Inzipit Ambleti tragedia. Inzipit qui, a Elzinore. Inzipit a Elzinore o in n’importa che àltero paese. Mettiamo in del regno de Camerlata. Mettiamo in de quello de Lomazzo. O anca un po’ più in de giù, squasi alle porte della illustrissima e magnificentissima Mediolanensis urbiz. Tanto fa l’istesso. Quando si è chiavati indidentro della cassa, cassa è e chiavata resta per totos quantos e in totos quantos i loca locorum dell’univerzo mondo.

Perché la lingua di questo breve brano appare così perturbante e innaturale? Anzitutto perché dialetto, italiano, latino e spagnolo vi si mescolano senza regole, con voci ‘sbagliate’ (urbiz, univerzo) e sintagmi cangianti (totos quantos i loca locorum dell’univerzo mondo); e poi perché se facciamo attenzione notiamo la presenza di forme ibride, che stanno a cavallo di lingue diverse: per esempio àltero deriva dal dialettale alter ma gli è stata attaccata la desinenza italiana, con il risultato che non abbiamo né il dialetto (alter) né l’italiano (altro), ma una strana forma che sta a mezza strada (nelle righe che abbiamo letto dal dialetto dipenderanno anche squasi e in de ‘in’ e in del ‘nel’).

In un certo senso, e adoperando altri ingredienti, Testori si comporta come i poeti macaronici del Rinascimento, che mescolavano sintagmi volgari a desinenze latine, costruendo parole comprensibili ma inesistenti. Se però pensiamo allo scritto sul Ventre del teatro possiamo anche vedere in queste forme un inveramento dell’auspicata corporeità della parola: è come se Testori frugasse nel corpo della lingua e incidesse la carne delle singole parole, storpiate e deformate per ottenere un impasto in grado di comunicare il disagio, la frustrazione e il furore in cui si dibattono i suoi personaggi (cfr. Lazzerini 1973, D’Achille 2012: 366-369, D’Onghia 2017).

Dopo gli scarozzanti

L’Ambleto è il primo pannello di una trilogia che prosegue con Macbetto (1974) ed Edipus (1977): la lingua resta quella che abbiamo visto, e i testi compongono un ciclo detto ‘degli ‘scarozzanti’ perché, con gusto metateatrale, alla trama dei grandi drammi evocati nei titoli (Hamlet, Macbeth e l’Edipo Re sofocleo) si intreccia la vicenda della scalcagnata compagnia di provincia che li mette in scena (compagnia composta per l’appunto da miserevoli attori scarozzanti di paese in paese). Nelle opere teatrali successive Testori abbandonerà l’impasto inaudito dell’Ambleto (così nella ‘seconda trilogia’: anni 1978-1981), oppure tenterà di potenziarlo in esperimenti sempre più oltranzistici che non raggiungeranno la potenza dei testi degli anni Settanta (così nello Sfaust scritto per Franco Branciaroli nel 1990; per il teatro di Testori in generale cfr. Taffon 1997).

Studi e testi citati

Paolo D’Achille, Parole: al muro e in scena, Firenze, Cesati, 2012.

Luca D’Onghia, «L’Ambleto di Testori», ovvero Ruzante a Lomazzo. Schede storiche e linguistiche, in «Quaderni veneti», 6, 2017/1, pp. 169-184.

Lucia Lazzerini, «L’Ambleto», o della barbarie ritrovata, in «Paragone - Letteratura», XXIV, 282, 1973, pp. 56-73.

Giorgio Taffon, Lo scrivano, gli scarrozzanti, i templi. Giovanni Testori e il teatro, Roma, Bulzoni, 1997 (ed. rivista e accresciuta: Dedicato a Testori. Lo scrivano tra arte e vita, Roma, Bulzoni, 2011).

Giovanni Testori, Il ventre del teatro, in «Paragone - Letteratura», XIX, 220, 1968, pp. 93-107.

Giovanni Testori, Opere [1943.1961], a c. di F. Panzeri, introduzione di G. Raboni, Milano, Bompiani, 2003.

Giovanni Testori, Opere [1965.1977], a c. di F. Panzeri, introduzione di G. Raboni, Milano, Bompiani, 2008.

Giovanni Testori, Opere [1977.1993], a c. di F. Panzeri, introduzione di G. Raboni, Milano, Bompiani, 2013.

Giovanni Testori, Il gran teatro montano, nuova edizione a c. di G. Agosti, Milano, Feltrinelli, 2015.

*Luca D’Onghia insegna Storia della lingua italiana alla Scuola Normale Superiore. Si è occupato soprattutto di pluriliguismo letterario e di storia del teatro italiano, pubblicando edizioni commentate di Calmo (Il Saltuzza, 2006), Ruzante (Moschetta, 2010) e Aretino (Teatro comico. I., 2014), oltre a una serie di studi su Machiavelli, Andreini, Goldoni, Testori e Fo; alla lingua del teatro ha dedicato anche il capitolo Drammaturgia nella Storia dell’italiano scritto pubblicata dall’editore Carocci (2014).