Ruggero Cappuccio, nato a Torre Del Greco nel 1964, è un artista che ha un percorso creativo fecondo e originale: ha curato regie di teatro, lirica e cinema, è autore di testi teatrali pluripremiati, di tre romanzi (La notte dei due silenzi, finalista al Premio Strega 2008; Fuoco su Napoli, 2010; La prima luce di Neruda, 2016) e dal 2017 è direttore del “Napoli Teatro Festival Italia”, una rassegna di grande prestigio culturale, con una ricca programmazione multidisciplinare di eventi teatrali anche internazionali, letteratura, musica, danza, cinema, mostre, laboratori per giovani registi e attori.

Dopo Eduardo, oltre Eduardo

Nel teatro di Ruggero Cappuccio, la scena, ispirata a rêverie di nostalgica elegia, diventa sede di un “mistero profano” e di un rituale magico dominato dalle pulsioni sensoriali, sospeso tra presenze oniriche e memorie letterarie, con una forte intertestualità e citazioni da fonti privilegiate, in particolare dagli avantesti letterari delle opere di Shakespeare, Cervantes, Basile, Tomasi di Lampedusa. La sua lingua di scena si basa sulla ricerca della musicalità della parola e soprattutto sull’esaltazione del segno sonoro. Le scelte formali, fortemente ancorate alla dialettalità del napoletano, ma anche del siciliano e, con minore frequenza, del veneziano, si affrancano dalla koinè regionale del napoletano, perché superano la diglossia italiano-dialetto della drammaturgia di Eduardo, per dare corpo a una lingua di scena di invenzione poetica, lontana dal realismo mimetico, resa attraverso un raffinato e originale pastiche verbale carico di sonorità, con un ben consolidato livello di scelte pluristilistiche. Da qui la grande varietà di toni, di stili anche distanti dal punto di vista diatopico e diacronico (con l’accostamento del siciliano al napoletano, l’uso della lingua del Seicento e dell’inglese), e soprattutto la grande varietà dei generi per una drammaturgia spesso “di secondo grado”, che appare per questo difficilmente riconducibile ad un’unica cifra stilistica.

Le lingue in scena: napoletano, veneziano e siciliano

Ruggero Cappuccio, dopo una formazione umanistica ed esperienze nel campo della critica teatrale e del teatro in veste di attore di radiodrammi, irrompe sulla scena teatrale italiana a poco più di ventinove anni con Delirio marginale, in napoletano e veneziano, le due lingue di scena che Cappuccio considera tra le più importanti della nostra tradizione, insieme al siciliano, poiché il teatro in lingua italiana è «spesso debole, tendenzialmente antimelodico, non ritmico, non musicale, troppe volte asettico». Nel 1994 Cappuccio scrive e dirige Shakespea Re di Napoli, presentato in prima nazionale al Festival di Santarcangelo di Romagna, diretto da Leo De Berardinis. L’opera, pluripremiata, è una rapsodia unica, una riscrittura, con esiti di stilizzata rappresentazione dei sonetti di Shakespeare, contaminati con il dialetto napoletano del Seicento, saturo di sonorità e suggestioni allusive che rimandano a Basile. Tra una marina desolata e il ricordo evocato del castello del Viceré di Napoli, Zoroastro ascolta il racconto del naufragio di Desiderio, un giovane attore napoletano che, in una misteriosa notte di Carnevale, fu rapito da Shakespeare e portato a Londra per recitare le parti di Ofelia, Desdemona, Giulietta, nel Globe Theatre, il più importante Teatro di Londra. Nel ricordo di Desiderio prendono corpo i segni di un agone impietoso tra l’autore, il genio, la bellezza e la morte, in una favola che è per l’autore «luogo dei sensi […] in un dedalo di note rarefatte, visionarie, corporee […] grazie alla guida cieca dei suoni, ciechi e per questo straordinariamente veggenti» (R. Cappuccio, Shakespea Re di Napoli, Roma, Gremese, 1997, p. 6).

Il topos dominante del Gattopardo

Nel 1996, al Teatro Valle di Roma, debutta Desideri Mortali, oratorio profano per Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel centenario della nascita dello scrittore palermitano. Lo spettacolo evoca sulla scena le ossessioni e i fantasmi non solo del Gattopardo, ma anche dei racconti di Tomasi: costruito con continui echi e intrecci di voci, si presenta come un «pianto rituale» e – a riprova della permanenza degli impianti classici nel teatro di Cappuccio – appare sulla scena come un thrênos, un lamento di morte, proprio come nelle antiche cerimonie greche (con il cerimoniale del morto, próthesis, eseguito da un coro di donne accompagnato da un aedo).

Il coro di donne ricorda le pulsioni della vita, le “voglie” (di amore, come di cibo – le cozze) che appaiono sospese, come in un limbo di ricordi, un limbo che raggela la memoria dei pensieri, delle parole, dei gesti. Come carillon antichi e quasi usurati dal tempo, in gesti di danze quasi meccaniche, gli spettri delle donne danzano e si esprimono in un sabba di lingue in cui si contaminano il siciliano, il napoletano, il francese e la lingua del romanzo di Tomasi di Lampedusa, avantesto e fonte primigenia dell’opera. La “voglia” è la parola-chiave reiterata in una nekuia negli inferi della morte, dove resta ancora un barlume, un desiderio, nonostante la perdita della vita.

Drammaturgia di secondo grado

Nel 1996 Ruggero Cappuccio scrive Edipo a Colono. Anche in quest’opera si contaminano l’italiano, il napoletano e il siciliano, dando vita a una lingua di grande valore evocativo. Il copione verrà pubblicato nel 2001, per Einaudi, con la prefazione di Roberto De Simone. Nel 2008 il testo verrà ancora recitato in un assolo da Roberto Herlizka, che nella parte del cieco venerando ed ex re di Tebe riesce, in uno schizofrenico flusso di coscienza, a trasfigurare la follia e l’inquietudine di un’inchiesta, accompagnata dall'ombra di Antigone, marionetta e metonimia dell’angoscia di ogni ricerca, che lo guida in un manicomio artificiale, in cui prendono corpo i fantasmi del suo passato. La classicità diventa una fonte a cui attingere per riscritture che connotano una drammaturgia di secondo grado, in cui l’avantesto dei classici latini deformato e manipolato diventa una metafora per leggere e interpretare il presente.

Lighea****, la transcodificazione dal racconto al cinema

Un capitolo importante dell’attività multiforme di Cappuccio è rappresentato dalla transcodificazione della dimensione letteraria o teatrale a quella cinematografica. Nel 2003, Cappuccio si sposta ancora da Napoli a Palermo, intese entrambe come radici culturali, ideologiche e di poetica. E Lighea, o i silenzi della memoria, transcodificazione cinematografica di un racconto di Tomasi di Lampedusa, rappresenta un nuovo omaggio all’autore palermitano: Lighea - La sirena (1956-1957) è un racconto fantastico, in cui l’incontro tra l’anziano professore ellenista e il giovane giornalista Corbera si dilata in un crescendo visionario da Torino con i «casermoni che sembrano soldati» alla Sicilia assolata e mitica, in cui prende corpo il racconto dell’epifania di una sirena, Lighea. Il “racconto nel racconto” ha toni fortemente sensuali ed erotici: Lighea è il simbolo dell’erotismo supremo, creatura del mare, il mare principio e fine, immagine di nascita e morte, di voce e di silenzio. La canicola estiva è complice delle seduzioni di questo strano mostro marino, che, nell’eccezionalità della sua presenza, incarna la metafora della felicità improvvisa e caduca.

Paolo Borsellino Essendo Stato****, fra drammaturgia e documentazione d’archivio

Nel 2004, scrive e dirige Paolo Borsellino Essendo Stato. Il testo teatrale viene transcodificato in un docufilm prodotto per Raistoria (Diario Civile), diretto e interpretato da Cappuccio, diffuso sui canali RAI, nel ventiquattresimo anniversario della strage di via D’Amelio. L’opera è una tragedia metafisica sugli ultimi istanti di vita del magistrato palermitano: è frutto di un’invenzione poetica, ma si contamina con brani di audizioni tesissime davanti al CSM, mai rese pubbliche integralmente, e frutto di un attento lavoro di ricerca dell’autore (si può vedere qui il docufilm, cliccando su youtube). In questo monologo-confessione in limine mortis, Paolo Borsellino è il magistrato, che, sul confine tra vita e morte, s’interroga sui conflitti tra Stato e Mafia, ma è anche un uomo semplice, che parla delle sue origini, delle persone che ha amato, dell’infanzia condivisa con l’amico magistrato Giovanni Falcone in quella terra, la Sicilia, che entrambi impararono ad amare, per difenderla. L’intensa testimonianza parte dall’ultimo secondo di vita di Paolo Borsellino, il 19 luglio del 1992, e si basa su fonti d’archivio, ovvero sulle dichiarazioni del magistrato rese davanti al CSM: in questo perfetto intreccio tra drammaturgia e documentazione d’archivio, tra invenzione poetica e ricerca storica, si concentra l’opera di Ruggero Cappuccio, che dilata un singolare residuo di tempo, gli ultimi istanti di vita del magistrato, in un intenso film documentario, anche attraverso il contributo di molti filmati della RAI. Nasce un genere ibrido che si contamina con i registri del teatro, del cinema e della non fiction novel. Paolo Borsellino Essendo Stato si connota anche come un iper-testo, per l’alternanza del registro cronachistico e la dimensione onirica, la commistione tra fonti d’archivio e i registri elegiaci della drammaturgia di Ruggero Cappuccio.

Il cortocircuito delle lingue, sospese tra realismo e visionarietà

In una produzione vasta, caratterizzata da una linea precisa di coerenza, è possibile portare l’ultima opera, Circus Don Chisciotte (2017) a sintesi del senso dell’arte di Cappuccio e del suo originale lavoro di riscrittura del linguaggio e delle lingue teatrali. Si tratta di una nuova riscrittura, su un’altra delle sue fonti privilegiate, Cervantes e il Don Chisciotte, il visionario hidalgo, in uno spettacolo che narra la storia, ambientata a Napoli nei giorni nostri, di Michele Cervante, una singolare figura di vagabondo colto che esplora le ombre urbane della città. Presunto discendente dell’autore del Don Chisciotte della Mancia, il professor Cervante attiva una lotta personalissima contro il processo di disumanizzazione che sta attanagliando il mondo. In una delle sue peregrinazioni notturne si imbatte in un girovago nullatenente fuoriuscito dalla sfera della società civile. Tra i due nasce un’amicizia fulminante che darà vita ad un corto circuito tra realismo e visionarietà, sogno e saggezza materica, mentre inizia il loro viaggio alla ricerca dei nemici dell’essenza spirituale dell’umanità. Cervante rappresenta un’ipostasi o reincarnazione dell’autore spagnolo, perché l’ex professore napoletano reca traccia nella sua memoria genetica del passaggio di Cervantes a Napoli nel 1575. Geloso custode di libri, li salva dall’apocalisse come se i libri fossero, alla stregua di J. L. Borges, il suo paradiso, il suo sogno utopico che non può essere sommerso dal naufragio dei valori, dalla disumanizzazione che condanna l’uomo alla brutalità in nome del progresso.

In uno dei suoi malinconici vagabondaggi, Cervante, interpretato da Ruggero Cappuccio, incontra un «figuro magico, un essere luminoso», Salvo, che ribattezzerà, Salvo Panza. All’inizio della prima scena, Salvo rievoca l’innocente bellezza del suo paese, l’arcana semplicità di una cultura popolare e preindustriale, come in una nostalgica litanìa orchestrata con intonazione piena, circolare, abbondante di timbri pastosi, viscerali e di parole unite per richiami di assonanze e costrutti formulaici:

«Ah! Paese mio bello paese, cu lu campanaro, li campane, cu l’aulive e li castagne, cu la sorgente fresca e la fonte, cu lu ruscello e li vasche, cu ll’aria fina comm’a seta de sultanessa, cu li stelle ca iocavano a toccame ca te tocco».

Salvo è un “fermiere”, un infermiere che rappresenta metonimicamente un’evocazione simbolica di un’età scomparsa, innocente e spontanea, ma ormai contaminata e avvilita dal progresso e dall’interesse. Insieme a Salvo Panza, altri emarginati, si ritroveranno su quel binario morto, come relitti di una società malata e inconsapevole della sua crescente perdita di senso. Queste grottesche figure, pur essendo vittime di turbamenti e di emozioni che li estraniano dalla normalità del mondo, si riveleranno però subito ricche di una incoercibile vitalità.

A unire queste parvenze oniriche la nostalgia dei legami perduti e l’impossibilità di ritrovarsi nelle nuove forme che la città e il progresso impongono loro. Il rovello mentale, le asfissianti ripetizioni di gesti ne comprimono le figure in maschere grottesche, ma, sotto il cocente rasoio dell’abbrutimento della follia, si scoprirà la loro grande umanità. Tutti insieme ritroveranno un’armonia esemplare sui binari di quel non-luogo da cui inizieranno un’immaginaria “rivoluzione”, spronati da Michele Cervante che li coinvolgerà in un viaggio fantastico e surreale, nell’innocenza delle sue terrene e metafisiche peripezie.

Le iperboli di Cervante, i quiproquo di Salvo Panza

L’aspetto più dirompente dell’opera risiede poi proprio nello scontro tra i diversi linguaggi: il linguaggio di Cervante gravido di iperboli, metafore baroccheggianti e di un lessico tutto concluso nel campo semantico della guerra e dell’onore («Ed ora hai da sapere che io nacqui per favore del cielo in questa età nostra di ferro per far rivivere quella dell’oro o l’età dorata siccome noi siamo soliti nomarla. Quegli son io a cui riserbati sono i perigli, le alte imprese di memorabili avvenimenti; quegli son io cui si aspetta di far venire a nuovo rinascimento i tempi della Tavola Rotonda, dei dodici paladini di Francia, dei Nove della Fama») viene come abbassato e desublimato da Salvo, secondo lo stesso pattern retorico che domina nelle schermaglie dialettiche tra l’irriverente Pulcinella e il vanaglorioso capitan Matamoros, erede del plautino miles gloriosus. E come nella Commedia dell’Arte e in Pulcinella, tutto il dialogo tra Cervante e Salvo si basa sui meccanismi del comique du mots e sulle fantasie verbali del quiproquo, dei doppi sensi, delle ambiguità semantiche e delle storpiature (si pensi alle battute riferite ai merli delle torri, scambiati da Salvo per uccelli), tutti mezzi stilistici usati proprio come nelle commedie del ’500, per segnare le frontiere dell’incomunicabilità e dell’incomprensione:

Cervante: La speranza della fama tiene alta la fronte.

Salvo: No io per la fama tiempo de na mez’ora chiavo de faccia ’nterra.

Riattualizzazioni e parodie

Sicuramente la riscrittura si configura come una cifra costante della drammaturgia del Novecento e del teatro contemporaneo: da Pirandello a Pasolini, da Eduardo De Filippo a Testori, Dario Fo, Ugo Chiti, Vincenzo Pirrotta, Enzo Moscato. Il processo della riformulazione, in cui la fonte viene come ritagliata rapsodicamente, anche in chiave dissacrante o parodica, nel teatro di Cappuccio appare costante sia per la riattualizzazione dei modelli tragici della classicità (si pensi a Le Bacchidi, al Tieste, all’ Edipo a Colono), a cui attinge come da un patrimonio creativo sempre suscettibile di nuove ipotesi ermeneutiche, sia per la ripresa costante di modelli letterari, in primis Tomasi di Lampedusa, considerato tra gli scrittori «capaci di travolgere la ragione, i sensi, nel naufragio di una scrittura che sentita e consentita, continua a lavorare dentro chi ha letto, per anni, imperterrita, spietata» (R. Cappuccio, La morte come scrittura del desiderio, pp. 243-246, in Antologia teatrale, a cura di A. Lezza, A. Acanfora, C. Lucia, Liguori, 2015).

*C_armela Lucia, dopo la Laurea in Lettere classiche (Università degli Studi di Salerno), ha conseguito, presso la stessa Università, il Dottorato di Ricerca in Scienze della Comunicazione. È impegnata da anni nell’attività di ricerca sulla letteratura e sul teatro contemporaneo. Si è occupata dell’analisi dei romanzi insigniti del “Premio Strega” e ha scritto saggi scientifici di critica teatrale sulle opere di: Enzo Moscato, Marco Baliani, Ascanio Celestini, Giovanni Testori, sul teatro di Annibale Ruccello, sul Teatro di narrazione, sui romanzi e sul teatro di Ruggero Cappuccio. Insieme con Annunziata Acanfora e Antonia Lezza, ha curato il volume_ Antologia teatrale (Liguori, 2015). È redattrice del sito www.teatro.unisa.it dell’Università degli Studi di Salerno (un progetto multimediale sul teatro napoletano ideato e curato dalla professoressa Antonia Lezza). Ha ideato e curato la Prima edizione del “Premio per la Legalità” ispirato all’opera Paolo Borsellino Essendo Stato di Ruggero Cappuccio (Teatro Leo De Berardinis, 19 marzo 2018, Vallo della Lucania).

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