Dario Fo, con Luigi Pirandello ed Eduardo De Filippo, è tra i drammaturghi che hanno segnato la storia del teatro italiano del Novecento. Naturalmente, sarebbe sbagliato fare sbrigative analogie: sono personalità che hanno retroterra differenti ‒ sia dal punto di vista della loro formazione culturale, sia da quello della loro provenienza regionale ‒ che li hanno condotti verso soluzioni drammaturgiche completamente diverse tra loro. Ciò che li accomuna è la ricerca di un linguaggio teatrale efficace rivolto verso la nuova società che si stava creando nell’Italia unita, nel quadro di una situazione linguistica e sociale complessa e in movimento che metteva alla prova la capacità del teatro di comunicare e coinvolgere.

Doti di improvvisazione scenica

Dario Fo è nato a Sangiano, piccolo centro sul Lago Maggiore in provincia di Varese. Durante tutta la sua infanzia, ha continuato instancabilmente ad ascoltare i fabulatori nelle piazze che mescolavano i loro racconti a pungenti satire politiche: come afferma lo stesso Fo, «io ho imparato il dialetto da questi fabulatori, da loro ho imparato il dialetto più arcaico». La fonte del suo dialetto teatrale, dunque, non è la lingua madre, quella imparata in famiglia; è, piuttosto, una lingua appartenente a epoche aurorali, dotata di un potere evocativo che lo affascinava e lo coinvolgeva proprio perché non riusciva a comprenderla. Ha esordito, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, al Piccolo Teatro di Milano insieme a Franco Parenti e Giustino Durano con le commedie Il dito nell’occhio e Sani da legare, che rivelarono subito l’inclinazione dell’artista nei confronti della satira politica e sociale. Agli anni in cui Dario ha formato stabilmente compagnia insieme alla moglie Franca Rame, risalgono gli atti unici Non tutti i ladri vengono per nuocere, Gli imbianchini non hanno ricordi, La Marcolfa, I tre bravi. Recuperando forme popolari, grazie anche ai canovacci della famiglia Rame, commedianti da varie generazioni, Fo mostrava già in queste prime rappresentazioni il suo spirito di provocazione, le sue doti di improvvisazione scenica, la sua tecnica del pastiche farsesco. Ma il testo considerato dalla critica come l’esordio vero e proprio di Dario Fo drammaturgo è la commedia in tre atti Gli arcangeli non giocano a flipper, del 1959, che, come ha dimostrato il linguista Pietro Trifone, rappresenta un brillante esempio del parlato popolare di area lombarda. In questa commedia emerge un sintomo di quella che rappresenterà l’innovazione più nota di Fo, il grammelot: durante l’inaugurazione di una scuola, un guasto del microfono fa sì che il discorso inaugurale del sindaco venga recepito dal pubblico come un coacervo di parole senza senso accompagnate dalla mimica del personaggio.

Il veneto arcaico del nano Brancaleone

Alle soglie degli anni Sessanta la situazione sociale e linguistica italiana iniziava la sua trasformazione rispetto alla prima metà del secolo: i fenomeni sociali emergenti (l’urbanizzazione, le migrazioni interne, la diffusione della radio e della televisione, la ripresa produttiva che preludeva al “miracolo economico”) incidevano sulla situazione linguistica, nella direzione di quella unificazione a lungo perseguita ma non ancora raggiunta, anche a causa dei persistenti alti livelli di analfabetismo. In questo contesto linguistico, nel 1965, si è affacciato per la prima volta sul palcoscenico un personaggio che parla una lingua diversa, «una voce che parla in veneto arcaico», come è scritto in una didascalia: si tratta del nano Brancalone in La colpa è sempre del diavolo. La suggestione evocativa, emanata da un dialetto ormai disusato, riemergeva dunque in questa commedia, rompendo quel tessuto dell’italiano popolare parlato che costituiva ancora la lingua prevalente del testo.

Mistero buffo

L’alternanza dell’italiano ‒ che connota il presente ‒ con il dialetto ‒ che rappresenta il passato ‒ è un elemento caratteristico anche dell’opera forse più nota di Dario Fo, Mistero buffo. Rappresentata per la prima volta a Genova nel 1969, la commedia si struttura mediante il succedersi di parti discorsive ‒ nelle quali l’attore instaura un rapporto di “cooperazione interpretativa” con il pubblico, tramite la lingua parlata dai più, l’italiano ‒ che introducono i monologhi composti in un linguaggio dialettale reinventato entro il quale emergono, di tanto in tanto, parole dialettali riconoscibili; questi brani assumono così il ruolo di un discorso citato rispetto a quello in italiano, che svolge invece un ruolo metadiscorsivo.

La scoperta di Ruzante

Certamente, nella continua revisione di questa sorta di opera aperta, ha avuto un ruolo significativo, a partire dalla fine degli anni Sessanta, la scoperta di Ruzante, non perché Fo ‒ come ha dimostrato il linguista Ivano Paccagnella ‒ abbia realizzato un calco linguistico ma perché il dialetto del drammaturgo veneto deve avere riportato Dario alle suggestioni di una lingua aurorale analoga a quelle dei fabulatori della sua infanzia. Contemporaneamente al teatro rivolto al dialetto, proseguito nei decenni successivi con commedie come Johan Padan a la descoverta de le Americhe e Il diavolo con le zinne, Fo ha sempre mantenuto vivo anche il percorso del teatro recitato nell’italiano dell’uso, con opere di denuncia e di impegno civile come Morte accidentale di un anarchico, Il caso Moro, L’anomalo bicefalo. Sono commedie scritte in un linguaggio parlato, sia pure con venature tratte da registri popolari, perché Fo aveva particolarmente a cuore il coinvolgimento degli spettatori, per svolgere mediante il teatro la sua battaglia politica.

Grammelot, mélange giullaresco

La reinvenzione dialettale iniziata con Mistero buffo è comunque un terreno che Fo non ha mai abbandonato; i legami personali e la convinzione della valenza teatrale insita nella dialettalità non sono mai venuti meno. E tuttavia, il dialetto reinventato e composito di Fo è sintomo di quella morte «dei dialetti come ultima frontiera della libertà e dell’autenticità espressiva» di cui ha parlato Folena perché, effettivamente, la sua non è un’operazione filologica di recupero di un linguaggio autentico, ma la creazione di un mélange giullaresco rivolto a suscitare la comicità: è l’affermarsi del grammelot, che si inserisce ben presto nei testi delle commedie, realizzandosi nel monologo. Il grammelot si presta, come scrive Trifone, «ad essere descritto piuttosto che ad essere trascritto»: ogni rappresentazione è infatti un evento unico a causa delle numerose possibili varianti che intervengono nella combinazione tra fonemi, profili intonativi, gesti ed espressioni del volto; rimane stabile soltanto una sorta di canovaccio rappresentato dalla trama narrativa dell’episodio messo in scena, quella appunto che viene anticipata da Fo nella sua introduzione. Qui davvero la ricreazione del dialetto sconfina nell’irrealtà e mantiene soltanto raramente rapporti lessicali o sintattici significativi con il linguaggio di origine, tanto è vero che Fo ha applicato la stessa tecnica inventiva anche ad alcune lingue straniere, come all’inglese nel Grammelot dell’avvocato inglese o al francese nel Grammelot detto “di Scapino”, ma anche a varietà linguistiche specifiche, come quella dei giornalisti televisivi.

Il monologo e il teatro di narrazione

La reinvenzione del dialetto operata da Fo, nella modalità monologica fondata sugli elementi della mimica e della gestualità, ha richiamato al presente il passato dialettale in un Paese, l’Italia, proprio quando sembrava che venisse rimosso dalle scene teatrali. Ne sono testimonianza gli autori-attori del teatro di narrazione che proseguono la lezione di Fo, sia nella forma teatrale del monologo, che nella riproposizione dei loro dialetti, che nei contenuti improntati alla protesta civile. Dario Fo, insomma, è stato più dello straordinario attore e autore teatrale premiato con il Nobel: per mezzo del suo teatro, ha risvegliato con leggerezza la memoria linguistica e storica degli italiani.

Bibliositografia

T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari-Roma, Laterza, 1963.

D. Fo, Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, la follia e la ragione, con L. Allegri, Bari, Laterza, 1990.

D. Fo, Manuale minimo dell’attore, a cura di F. Rame, Torino, Einaudi. 1997.

G. Folena, Il linguaggio del caos. Studi sul plurilinguismo rinascimentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.

C. Giovanardi, Dario Fo e il parlato teatrale dell’uso. La scienza del teatro, in Omaggio a Dario Fo e Franca Rame, a cura di R. Brusegan, Roma, Bulzoni, 2013, pp.47-62.

I. Paccagnella, Ruzante «à la manière de» Dario Fo, in Omaggio a Dario Fo e Franca Rame, a cura di Brusegan R., Roma, Bulzoni, 2013, pp. 25-46.

M. Pizza, Ritorno a Ruzzante. Analisi di uno spettacolo di Dario Fo e Franca Rame, Perugia, Morlacchi editore, 2012.

A. Pozzo, Grr… grammelot parlare senza parole. Dai primi balbettii al grammelot di Dario Fo, Bologna, CLUEB, 1998.

S. Stefanelli, Grammelot, in Enciclopedia dell’italiano Treccani, 2010 https://www.treccani.it/enciclopedia/grammelot\_(Enciclopedia-dell'Italiano)/

P. Trifone, L’italiano a teatro. Dalla commedia rinascimentale a Dario Fo, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2000.

*Stefania Stefanelli (Scuola Normale Superiore - Pisa) si occupa della lingua della letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato tra l’altro I manifesti futuristi. Arte e lessico (2001), Va in scena l’italiano. La lingua del teatro tra Ottocento e Novecento (2006) e, con Lamberto Pignotti, Scrittura verbovisiva e sinestetica (2011). Ha curato gli Atti dei convegni Avanguardie e lingue iberiche nel primo Novecento (2007), Varietà dell’italiano nel teatro contemporaneo (2009), La lingua italiana e il teatro delle diversità (2012). Ha curato e introdotto la ristampa anastatica del Primo dizionario aereo italiano (futurista) di Marinetti e Azari (2015).

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