«La lirica del pieno e tardo Settecento e anche dell’Otto non è concepibile senza le arie metastasiane, e ai grandi recitativi di Metastasio deve molto non solo Calzabigi, ma Alfieri»: il nesso tra poesia e poesia per musica, che in Italia è fatto particolarissimo e originario, è ben esemplificato in queste parole di uno dei massimi storici della lingua italiana, Pier Vincenzo Mengaldo.

Eppure il massimo poeta per musica del Settecento si ritiene soggetto a qualche vincolo in più rispetto al poeta: Giuseppe Baretti osservava che dei quarantaquattromila vocaboli registrati nel Vocabolario della Crusca, un autore come Metastasio era riuscito nel prodigio di dire cose nuove, belle e difficili con solo sei-settemila parole: un numero bassissimo, che nessun altro genere di versificazione avrebbe mai potuto eguagliare.

Modernità prosastica del dialogato

È anche attraverso una drastica selezione del vocabolario, infatti, che il parlato dei personaggi di Metastasio raggiunge un’impareggiabile leggerezza, ascoltabilità e freschezza. Ma la modernità del dialogato è ottenuta anche con scelte coraggiosamente innovative, come ad esempio l’uso frequente di sostantivi astratti in -ezza per rappresentare caratteristiche e atteggiamenti dell’animo umano, riprendendo voci note (tenerezza, sicurezza, fierezza, debolezza, bellezza) e usandone di inedite (dubbiezza e placidezza). In nome delle personali esigenze espressive, Metastasio non esitava infatti a discostarsi da quanto prescritto dalla Crusca. Il poeta riteneva ad esempio che una parola come grossolano, che ritroviamo in un verso dell’Adriano in Siria («È la menzogna ormai / grossolano artifizio e mal sicuro») è tale «che non saprei trovar l’eguale per ispiegare il mio sentimento. Il vocabolario della Crusca nella voce grossolanamente spiega semplicemente, rozzamente, senza delicatezza; ed è appunto quello che io voglio dire in una sola parola. Il vocabolo è bello, usato, sonoro e significativo. Perché non vi finisce? Questi sono odii peccaminosi». C’è un che di prosastico, nei versi di Metastasio, e questo dipende dalla poetica dell’epoca: poiché i suoi personaggi parlano «all’improvviso», il poeta per musica dovrà evitare quegli «ornamenti» tipici della poesia (ad esempio le inversioni tra le parole) e provare invece ad avvicinarsi «quanto si possa senza avvilimento, al parlar naturale, ch’è quello della prosa».

Un attacco dal librettista verdiano

Da questo punto di vista, e non solo, la lingua dei libretti di Metastasio e quella delle opere di Verdi non potrebbero essere più lontane. Sostantivi astratti in -ezza come quelli citati sono ad esempio pochissimi nei testi verdiani. Se Metastasio preferisce bellezza a beltà, rifiutando beltade, nell’epoca di Verdi si preferirà beltà a bellezza e anche una voce arcaizzante come beltade troverà piena circolazione.

Il cambio di rotta, cioè di “poetica”, è netto, tant’è che Metastasio, dopo gli elogi di Baretti, riceve, di lì a pochi anni, gli strali di un altro critico nonché librettista verdiano. Nella sua Poetica ad uso dei librettisti (1854-55), Antonio Ghislanzoni, autore dei versi dell’Aida, ricorda il poeta cesareo come «il corruttore di questo genere perfettissimo di Poesia». Il giudizio si inquadra in una diversa concezione del rapporto tra musica e poesia: «Se la Musica esprime poco di sua natura», dice ancora Ghislanzoni, «il verso dee supplirvi coll’esprimere troppo. È tanto raccomandata l’esagerazione, che si tollera perfino se giunge alla bestemmia». Ecco quindi che «la robustezza del verso si ottiene colle parole vendetta, furore, acciaro, ec. e la dolcezza del verso colle parole angelo, paradiso, amore, ec.», mentre sono «proibite» espressioni come mio tesoro e oh stelle. In effetti, le invocazioni alle stelle, tipicamente metastasiane, in Verdi non compariranno, anche se di quel modello rimarranno le tracce, magari anche inavvertite, di alcune espressioni («Sogno o son desto!», «Mancar mi sento!», «Senti», «M’odi»).

Il melodramma declamatario tra storia e politica

L’allineamento tra poesia e poesia in musica rimane però sostanzialmente invariato, tant’è che nel 1847 il musicista Luigi Ferdinando Casamorata, intervenendo sulla «Gazzetta musicale di Milano» a proposito del Macbeth verdiano, osserverà che «è un fatto incontrovertibile che nella poesia per musica (perchè possa essere favorevole all’effetto musicale) è d’uopo che concorrano i caratteri della lirica vera e propria. Ricchezza di concetti, vivacità e contrastata varietà d’immagini, calore di affetti diversi, ecco quello che a fine di variare il colorito musicale esige dal poeta il maestro».

Da un dettato semplice e naturale si passa a un altrettanto tipico “graviloquio”. Aulicità, concentrazione espressiva, antirealismo, immagini ricorrenti e caratterizzanti sono i nuovi elementi che pervadono i versi declamatori di poeti attenti agli avvenimenti storici e politici del proprio tempo quanto quelli del melodramma verdiano coevo, condividendo temi e pose linguistiche, dalle iuncturae poetiche (aer puro, amare lagrime, leggiadro viso, ora estrema), alla figuralità di certe espressioni: «Invan la libertà sui labbri suona» (Pananti), «Strinse a destra il brando» (Biondi), «Ti affretta, bevi, porgi il nappo a quella / che desïosa i tuoi pensier seconda» (Bandettini), «un ministro si sacri e il marmo inscritto / sorga all’ara vicino» (Zanoia).

L'apertura di fine secolo

Un repertorio di espressioni e di immagini si sedimenta così, sulle ali di una musica trascinante ed espressiva e dal forte sentimento di riscatto nazionale, nella memoria di un pubblico sempre più ampio, entrando a far parte di un patrimonio culturale collettivo vivo ancora oggi. Solo verso il finire del secolo, mentre la poesia va incontro a un rinnovamento radicale e irreversibile, anche la lingua librettistica si aprirà a diverse soluzioni espressive: il punto di svolta si ha notoriamente con la collaborazione tra Verdi e Boito, ovvero con l’Otello e con Falstaff, e infine con La Bohème di Puccini, con i quali la fisionomia del dialogo in scena e il rapporto tra personaggio e lingua apparirà definitivamente rinnovato.

*Stefano Telve insegna Linguistica italiana all’Università della Tuscia di Viterbo. Si occupa della lingua dei libretti d’opera, della sintassi in diacronia, della lingua cancelleresca del ’500 e di altri aspetti storico-grammaticali. Ha pubblicato, tra l'altro, L’italiano: frasi e testo _(_Carocci, 2008), Ruscelli grammatico e polemista. I “Tre discorsi a Lodovico Dolce” (Vecchiarelli, 2011), Linguaggi specialistici dell'italiano (con Riccardo Gualdo, Carocci, 2011), That's amore! La lingua italiana nella musica leggera straniera (Il Mulino, 2012).

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata