Il lettore C. F. chiede alla Treccani: «Mi domando come mai dobbiamo prendere tutte le parole inglesi che esistono e riempirci la bocca, in certi casi non si capisce niente, basta prendere un articolo di finanza… Ma è possibile che per parlare di banche e di soldi oggi non ci sono parole in italiano?»

Risponde Francesca Rosati

Da quando Alessio Petralli all’inizio degli anni ’90 definiva “democratica” la lingua italiana perché più aperta al contatto con altre lingue, in opposizione al francese, allo spagnolo e al tedesco considerate più “introverse”, il mondo è cambiato. L’UE si chiamava ancora CEE, la Germania Est e la Germania Ovest tornavano ad essere un unico Stato, in Italia dilagava lo scandalo “Mani Pulite”, alla Casa Bianca c’era il baby boomer Bill Clinton, il Sud Africa di Nelson Mandela iniziava il suo percorso post-apartheid, e sul mercato furoreggiava la prima playstation Sony. Oggi l’UE, con la Germania che si erge a paladina del rigore politico ed economico, conta ventotto Stati membri, alla Casa Bianca c’è il tycoon Donald Trump, il Sud Africa fa parte dei BRICS, l’Italia è in una fase di stallo tra la seconda e la terza Repubblica, e gli appassionati di videogiochi possono godere delle numerose risorse di una console Sony di ottava generazione.

Afflitti come i tedeschi

Dal punto di vista dell’influsso che l’inglese esercita sulle lingue europee e sull’incidenza degli anglicismi in ognuna di esse, tuttavia, l’italiano svetta ancora sulle lingue su citate per la sua pressoché totale acquiescenza ad accogliere nel proprio lessico lemmi ed espressioni perlopiù di matrice angloamericana. L’ingresso degli anglicismi nello spagnolo continua ad essere molto più contenuto rispetto all’italiano: “quando un anglicismo si diffonde, spesso non solo non fa morire la parola autoctona, ma viene utilizzato in forma minore e con una frequenza più bassa”. Lo stesso avviene in Francia dove, nonostante i tantissimi anglicismi, il francese gode di una protezione molto forte da parte dello Stato, al punto che le alternative tradotte ci sono e circolano. Il tedesco, invece, pare avere gli stessi problemi che affliggono l’italiano.

Doni mal pronunciati

Ma sono veri problemi? Nel senso: l’inglese è da considerare davvero un intruso nella nostra lingua oppure, per tante ragioni – non ultima quella di non restare ancorati ad uno splendido isolamento linguistico – non sarebbe meglio vederlo come una donor language e i suoi prestiti e/o calchi come delle Gastwörter che, se è vero che nei linguaggi settoriali attecchiscono, si stabilizzano e si integrano con maggiore facilità grazie alle forze di mercato di cui ho parlato altrove (2016), nell’italiano quotidiano possono dipendere da componenti esterne più volatili, per così dire, quali la moda, la musica, la pubblicità, lo sport, la cultura angloamericana in genere e sono spesso, proprio per questi motivi, meno stabili? Inoltre, visto che i soliti monitoraggi più o meno ufficiali che misurano la conoscenza dell’inglese dei cittadini europei pongono gli italiani sempre in fondo alla classifica, non potrebbero questi anglicismi essere un utile strumento per conoscere meglio quella che il mondo considera ormai una lingua franca ed evitare pronunce errate? Naturalmente, siccome è l’uso a fare la regola, questa sorta di alfabetizzazione dovrebbe cominciare a monte – da chi cioè propone nelle pubblicità o nei servizi giornalistici termini ed espressioni inglesi che, seppure usati ad hoc, vengono pronunciati male nella maggior parte dei casi. Potremmo così evitare di continuare a sentire svarioni sul genere di all-inclusive, colossal, continental, horizon, management, performance, reception, talk show (anziché all-inclusive /ˌɔːl ɪnˈkluːsɪv/, colossal /kəˈlɑːsl/, continental /ˌkɒntɪˈnentl/, horizon (/həˈraɪzn/, management /ˈmænɪdʒmənt/, performance /pəˈfɔːməns/, reception /rɪˈsepʃn/, talk show /ˈtɔːk ʃəʊ/), tanto per citare quelli più frequenti.

Il linguista: osservare, analizzare, proporre

Questo per dire che il fenomeno del contatto linguistico è inevitabile e inarrestabile, quali che siano i tentativi dei puristi per arginarlo e contrastarlo, e un linguista dovrebbe essere uno spettatore attento e interessato che lo osserva con occhio sì critico ma anche scientifico, lo analizza e propone soluzioni fattibili:

  1. evitare gli anglicismi là dove possibile, cioè dove l’italiano ha un’alternativa valida o almeno fare in modo che le due forme coesistano e si alternino, sia nello scritto che nel parlato (ad esempio: attachment/allegato, budget/bilancio, covered bonds/obbligazioni garantite, download/scaricare, spending review/revisione di spesa; trader/operatore finanziario in proprio cui si contrappone broker/intermediario finanziario per conto terzi; trend/tendenza);

  2. dietro ad ogni anglicismo o forestierismo che sia c’è un corrispondente significato in italiano, a volte troppo lungo per essere usato come alternativa, ma comunque da conoscere per non fare un uso errato o fuori luogo del prestito/calco, come succede con to implement che troppo spesso assume in italiano il significato di ‘migliorare’ anziché quello proprio di ‘attuare, applicare’;

  3. da evitare in ogni caso gli anglicismi superflui (wishful thinking, alias ‘pio/a desiderio/chimera/illusione’, ma tanto più accattivante in inglese nelle intenzioni di chi lo usa) o quelli creati ad hoc (dai classici footing, speaker, ticket che tuttavia hanno assunto una dimensione semantica propria fino al più recente Jobs Act), che a volte neanche esistono in nessuna varietà dell’inglese con quel particolare significato, solo per far sfoggio delle proprie competenze linguistiche e per dare una patina di pseudoeleganza al proprio eloquio;

  4. che ci piaccia o no, l’inglese è e sarà la lingua dominante e, poiché «there are some things that can be said only in English» (cit. Aravind Adiga: “ci sono delle cose che possono essere dette soltanto in inglese”), evitare traduzioni italiane di anglicismi necessari che risulterebbero forzate, a volte perfino ridicole, e non avrebbero comunque l’ampiezza semantica né l’immediatezza nella trasmissione del messaggio del lemma originale.

Dove domina il mercato

Il problema è che in alcuni settori della lingua italiana – informatica, economia e finanza, e di recente anche in ambito medico-scientifico – l’inglese domina perché le forze di mercato che li controllano sono tali che la nostra lingua non ha la capacità di opporvisi. Sono tanto più forti nel settore dell’economia, della finanza e, quindi, del mondo bancario. È vero che la BCE, come tutte le istituzioni dell’UE, redige documenti, rapporti, leggi, direttive nelle 24 lingue ufficiali, ma è altresì vero che nella documentazione che le banche italiane trasmettono ai propri clienti gli anglicismi pullulano e costituiscono una sorta di codice internazionale che ci unisce all’Europa e al mondo.

Cambiare IBAN e POS?

Basti pensare all’IBAN, il codice alfanumerico che identifica ciascun conto corrente e viene utilizzato nelle transazioni nazionali e internazionali: sin dalla sua introduzione nel 2008 abbiamo accolto questo acronimo nel nostro lessico, lo abbiamo adottato e ne abbiamo adattato solo la pronuncia (in inglese sarebbe /ˈaɪbæn/). Fa insomma parte della nostra vita quotidiana e il suo ingresso nell’italiano ricorda un po’ quello degli inizialismi DNA ed RNA in biochimica, con la differenza che, mentre questi ultimi un equivalente ce l’hanno (ADN e ARN rispettivamente) per quanto misconosciuto, nel caso di IBAN nessuno ha mai neanche pensato di proporre l’improbabile equivalente NC(C)BI.

Altri acronimi/inizialismi di uso comune per i quali non abbiamo una nostra soluzione alternativa sono POS (Point of Sale), PIN (Personal Identification Number), SIM (Subscriber Identity Module) Card.

Scorrendo alcune recenti note informative tra banche e clienti, mentre si rileva l’uso dell’inizialismo ATM (Automated Teller Machine), pochissimo conosciuto fra gli utenti che preferiscono il più comune bancomat per riferirsi sia allo ‘sportello per il prelievo di denaro contante’ che alla carta di debito.

Bail in e privacy, per non parlare di spread

Lemmi come bail in e privacy pongono problematiche simili: il bail in è ben noto ai titolari di conti correnti ed è funzionale proprio nella versione inglese che ha una portata semantica decisamente meno preoccupante, giacché ‘modalità di risoluzione di una crisi bancaria tramite l’esclusivo e diretto coinvolgimento dei suoi azionisti, obbligazionisti e correntisti’ non solo suona minaccioso, ma è anche troppo lungo, e l’alternativa ‘salvataggio (dall’)interno’ forse poco chiara. Privacy, dal canto suo, racchiude in sé il significato di ‘trattamento dei dati personali’ e ipotetiche soluzioni alternative come riservatezza/privatezza non hanno la stessa efficacia.

Su spread si è già espresso Cortelazzo (2015), ma la stessa precisione denotativa che ha determinato l’adozione di questo anglicismo vale per commodity, il cui equivalente italiano, bene indifferenziato, non rende a sufficienza l’idea di un bene come il petrolio per cui c'è domanda ma che è offerto senza differenze qualitative sul mercato e che, inoltre, deve essere facilmente immagazzinabile e conservabile nel tempo, senza perdere le caratteristiche originarie; leasing, che sarebbe riduttivo tradurre semplicemente con contratto d’affitto; banking che, variamente accompagnato da modificatori quali corporate, home, mobile, private, indica la gamma delle funzioni e dei servizi di una banca quando si rivolge ad aziende e/o a privati; outsourcing e offshoring che sembrano sinonimi nei rispettivi equivalenti italiani, esternalizzazione e delocalizzazione, almeno agli occhi di un profano.

L’inglese non è un morbo

In conclusione, non credo che il continuo apporto dell’inglese nei vari ambiti della nostra quotidianità sia un rischio per la lingua italiana o per il suo patrimonio culturale e letterario: è nella natura di una lingua rinnovarsi per via endogena e, quando le risorse interne non sono adeguate per esprimere un nuovo concetto, anche per via esogena. Tanto più che la diffusione dell’inglese, così “svelto, comodo e cosmopolita”, è solo un aspetto di un problema molto più ampio che riguarda l’internazionalizzazione della società e la globalizzazione degli scambi, sia economici che culturali – un circuito da cui l’italiano non può e non deve stare fuori.

Biblio/Webgrafia di riferimento

  • Castorina Giuseppe G., 2001: “L’insostenibile leggerezza dell’informazione: Samurai, Kamikaze, Sinhalesi e Gastwörter”, in Quaderni di Studi Linguistici, 8/9, 211-249.

  • Cortelazzo Michele A., 2015: "Per un monitoraggio dei neologismi incipienti", in

Marazzini Claudio e Alessio Petralli (eds), La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi, Firenze, goWare, 27-36.

  • De Mauro Tullio e Marco Mancini, 2003: Parole straniere nella lingua italiana, Milano, Garzanti.

  • Marazzini Claudio e Alessio Petralli (eds), 2015: La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi, Firenze, goWare.

  • Petralli Alessio, 1992: “Tendenze europee nel lessico italiano. Internazionalismi: problemi di metodo e nuove parole d’Europa”, in Moretti Bruno (ed), Linee di tendenza dell’Italiano contemporaneo, Atti del XXV Congresso Internazionale di Studi sulla SLI, Roma, Bulzoni, 119-134.

  • Rosati Francesca e Francesca Vaccarelli, 2016: “A Corpus of Anglicisms in Italian Domains of Economics and Finance”, in Scritti in Onore di Enrico Del Colle, Napoli, Editoriale Scientifica, 449-467.

  • Rosati Francesca, 2012: “EuroEnglish and Scientific Domains. Issues, Trends and Perspectives in VetMed/BioTech Terminology”, in Quaderni di Linguistica, 4, 115-124.

  • Rosati Francesca, 2004: Anglicismi nel lessico economico e finanziario italiano, Roma, Aracne.

  • Valle Gabriele, 2016: Italiano Urgente. 500 anglicismi tradotti in italiano sul modello dello spagnolo, Trento, Reverdito.

  • Zoppetti Antonio, 2017: Diciamolo in italiano. Gli abusi dell’inglese nel lessico dell’Italia e incolla, Milano, Hoepli.

*Francesca Rosati è professore associato di “Lingua e Traduzione – Lingua Inglese” presso la Facoltà di Scienze Politiche, Università degli Studi di Teramo. Il suo ambito di ricerca principale è la linguistica inglese, con particolare riferimento ai Domain-Specific Englishes e ai processi di word-formation – con l’ausilio degli strumenti elettronici della Corpus Linguistics_. Si occupa, inoltre, di_ varieties of English (in particolare Canadian English_,_ South African English e EuroEnglish_), nonché di multilinguismo e politiche linguistiche nei Paesi anglofoni (Sud Africa, Ghana, Canada, India). Il filone di ricerca permanente riguarda gli anglicismi in uso nella lingua italiana specialistica, con particolare riferimento agli ambiti economico-finanziario e, più di recente, medico-bio-veterinario, e alle problematiche connesse al fenomeno del_ language contact_. Un altro settore di ricerca è rappresentato dagli aspetti lessicali e traduttivi della letteratura africana e canadese in lingua inglese._

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