Sostituire gli anglicismi con i corrispettivi italiani non è un vezzo da puristi anacronistici, non significa tornare alla guerra contro il “barbaro dominio” di epoca fascista, né negare che le lingue vive evolvono anche attingendo da quelle straniere (ed è un bene che lo facciano). La questione della lingua, nel nuovo Millennio, riguarda l’abisso tra l’interferenza dell’inglese e quella delle altre lingue.

Perché sostituire

La penetrazione degli anglicismi “crudi”, cioè non adattati, è recente, esplode dal Secondo dopoguerra per poi crescere sempre più intensamente. Nel Devoto Oli del 1990 se ne contavano 1.600, ma oggi, in meno di trent’anni, sono almeno 3.500, contro un migliaio di francesismi e un centinaio di ispanismi o germanismi (lo Zingarelli restituisce dati simili). Stando al dizionario Gradit del 1999, le parole di origine francese sono state italianizzate nel 70,5% dei casi, quelle inglesi solo nel 31,6%, e nel nuovo secolo ancora meno (28,5%, Gradit 2007). Davanti a questi numeri lo stesso Tullio De Mauro, nella Storia linguistica dell’Italia repubblicana (2016), scriveva: “Negli ultimi anni gli anglismi hanno scalzato il tradizionale primato dei francesismi e continuano a crescere con intensità, insediandosi (...) anche nel vocabolario fondamentale.” Le voci inglesi rimangono in larga misura “corpi estranei”, per dirla con Arrigo Castellani: senza adattamenti violano le nostre regole di pronuncia e ortografia e il loro accumularsi sta snaturando l’idioma del “bel paese là dove 'l sì suona”. In certi ambiti come l’informatica, il lavoro, la moda, le scienze o l’economia è sempre più frequente il ricorso a un ibrido che è stato definito “itanglese”. Dalle datazioni di Zingarelli e Devoto Oli, la metà dei neologismi del XXI secolo è in inglese. E allora dobbiamo domandarci come l’italiano si stia evolvendo, il rischio è che non lo sappia più fare con le proprie risorse.

Sostituire è possibile, in teoria

Spesso si dice che ricorriamo all’inglese perché non abbiamo parole nostre per esprimere certi concetti o certe innovazioni che arrivano d’oltreoceano. Ma parlare di “prestiti di necessità” è una presa di posizione ideologizzata: come ha osservato Paolo Zolli, nulla è “intraducibile” o “necessario”, in teoria. Importare senza adattare è una ben precisa scelta perpetrata dalla nostra classe dirigente e dai mezzi di informazione che preferiscono utilizzare l’inglese vissuto come più evocativo e moderno, e talvolta contrabbandato come internazionale anche quando non è affatto così. L’epoca delle grandi invenzioni, tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, ci ha portato la lampadina e la televisione, non la lamp e la television. Oggi, invece, davanti a termini come smartphone preferiamo ripetere l’inglese invece di adattarlo per esempio in smartfono o reinventarlo magari con furbofonino o furbofono, che ci appaiono soluzioni impraticabili o ridicole. Eppure, davanti alle “parole mancanti” non c’è solo la soluzione di importare forestierismi crudi, si possono anche coniare neologismi e soluzioni creative (nelle traduzioni dei Peanuts i marshmallow diventarono toffolette; link).

Storicamente perlopiù si italianizzava (revolver: “Il popolo ha già formato la voce Rivoltella” scriveva Rigutini nel 1886) ed erano frequenti i calchi fonetici (bistecca da beefsteak) o strutturali (grattacielo da skyscraper). Ma si può anche ricorrere a trasposizioni concettuali, per cui un bug (cimice, insetto) in informatica diventa un baco, per assonanza e analogia, oppure si può recuperare una parola preesistente e allargarne il significato (singolo da unico diventa anche scapolo, per l’influsso di single). Queste soluzioni non snaturano la nostra identità linguistica, ma una volta erano istintive, oggi sono invece state abbandonate. Se in passato il purismo – che ammetteva solo le parole toscane o letterarie e bandiva voci dialettali, barbarismi e neologie – rischiava di ingessare l’italiano nella “lingua dei morti”, oggi a cristallizzare l’italiano nei suoi significati storici e a impedire che si evolva c’è una prassi che si potrebbe definire “anglopurismo”: ciò che è nuovo e arriva in inglese si esprime in inglese puro, non si italianizza più. Perciò, anche se i prestiti in molti casi possono essere una ricchezza, o dei “doni” come li ha definiti Mario Alinei (link), davanti all’invadenza degli anglicismi sempre più spesso si trasformano al contrario in un impoverimento della nostra lingua. Un tempo si diceva calcolatore e poi anche elaboratore, ma dagli anni ’90 c’è solo il computer. Se una parola come autoscatto si è evoluta insieme alle tecnologie – prima indicava un sistema collegato a un filo, poi i dispositivi elettronici a tempo – oggi l’allargamento di significato si è interrotto: gli autoscatti fatti e condivisi con il telefonino si dicono selfie. Sui giornali pusher sta sostituendo sempre più spacciatore, e killer assassino. Insomma, gli anglicismi sempre più spesso diventano “prestiti sterminatori” che fanno regredire le nostre parole e viene da chiedersi per quanto tempo potremo continuare a dire parrucchiere invece di hair stylist o trucco invece di makeup senza che suonino come un linguaggio da “vecchie signore cotonate”.

Dai "prestiti" a una rete di emulazioni

La categoria di “prestito”, che tutti criticano ma che nessuno sembra voler abbandonare, non riesce più a rendere conto dell’espansione dell’inglese e forse bisognerebbe spostare l’attenzione dai singoli anglicismi alle relazioni tra le radici inglesi, che formano ormai una rete collegata che si sta espandendo nel nostro lessico in modo tentacolare. I due terzi delle parole inglesi che circolano in italiano sono infatti parole composte o locuzioni (link), e non prestiti isolati. Sul modello di babysitter, per esempio, oggi circolano senza alternative pet sitter, dog sitter o cat sitter. Ma anche la radice baby è diventata un prefissoide che vive di vita autonoma e genera decine e decine di parole macedonia (baby gang, babypensionato, babycalciatore, babycriminale...). Pet sitter è a sua volta in relazione con pet shop (gli shop e gli store costituiscono famiglie sempre più numerose) o pet food (cibo per gli animali). Quanto a food, entrato all’inizio degli anni ’80 attraverso fast food (sui giornali richiedeva ancora una spiegazione: pasti veloci), oggi indica l’intero settore alimentare, e si parla di street food (cibo di strada), junk food (cibo spazzatura), truck food (chiosco-furgone), finger food (cibo al cartoccio o che si mangia con le mani), comfort food (cibo consolatorio), raw food (crudismo) e la nuovissima mania di condividere le foto di piatti e pietanze in Rete è il food porn. Secondo Valeria Della Valle: “Tra il 2008 e il 2018 (...) sono apparse 15 nuove parole composte da ‘food’ e solo 2 da ‘cibo’; hanno fatto il loro ingresso 17 termini con ‘gender’ contro 13 con ‘genere’, stessa cosa per ‘smart’, che ha la meglio sulla sua traduzione italiana, ‘intelligente’”. Qui non siamo di fronte a semplici “prestiti”, ma a un fenomeno di emulazione più generale in cui si inseriscono anche i numerosi pseudoanglicismi (pile, slip, smoking, footing, autostop, beauty case...) che sono reinvenzioni da radici inglesi assenti nei Paesi anglofoni (“prestiti apparenti”?). La sostituzione di certi anglicismi con parole italiane è allora più che mai importante per spezzare questo lievitare, ma il problema non sta nella sostituibilità teorica, bensì in quella pratica: il ricorso all’inglese è ormai una strategia e gli anglicismi sono preferiti.

Le sostituzioni nella pratica

Se alcune proposte sostitutive di Arrigo Castellani avessero preso piede, per esempio guardabimbi invece di babysitter, forse oggi diremmo guardagatti al posto di cat sitter o badacani invece di dog sitter. Ma a “fare la lingua” non sono i linguisti e, almeno in Italia, non si possono imporre soluzioni a tavolino di questo tipo. Dopo l’epoca dei modelli letterari, nel Novecento l’italiano è stato unificato e plasmato soprattutto da giornali, radio, cinema e televisione, oltre che dall’industria del Nord, come aveva compreso Pier Paolo Pasolini. Ma oggi sono proprio i mezzi di informazione i principali “untori” dell’inglese, e la lingua tecnologizzata è quella delle multinazionali. I dizionari, inoltre, nel riportare gli anglicismi che si diffondono puntano spesso alla definizione e al significato, ma non sempre li affiancano ad alternative o traducenti italiani, come ha notato Claudio Giovanardi. E la gente che cosa può fare se non ripetere ciò che passa il convento? Ognuno parla come vuole, naturalmente, ma per poter scegliere è necessario che i sostitutivi esistano e circolino, e perché accada, in assenza di altri modelli, ci vorrebbero interventi istituzionali. Ciò non significa guardare alla politica linguistica del fascismo, ma a quel che fanno i nostri vicini. Nel modello plurilinguistico svizzero, davanti alla supremazia del tedesco e del francese, il Consiglio federale ha varato un progetto per la cultura 2016-2020 con ingenti fondi per rafforzare la lingua italiana, nell’insegnamento e attraverso una serie di manifestazioni culturali. Mentre a Milano l’azienda dei trasporti promuove il pagamento contactless senza alternative, oltre confine si chiama pagamento senza contatto. In Parlamento e sui giornali del Ticino il question time si dice l’ora delle domande. In Italia assistiamo al contrario a un’anglicizzazione sempre più profonda del linguaggio politico e istituzionale, e si diffonde l’inglese “in locuzioni formali e ufficiali (education, jobs act, spending review e via governando)” per citare De Mauro. Si parla sempre più di premier invece che di presidente del consiglio, di welfare (previdenza, stato sociale), di privacy (privatezza c’è ma non la usa nessuno), si introduce il navigator o si edulcora un condono con voluntary disclosure. In Francia è invece esplicitamente vietato, perché nella Costituzione è scritto che la lingua è il francese, e nel linguaggio istituzionale, politico e lavorativo è inammissibile usare espressioni non francesi, per rispetto ai cittadini e in nome della trasparenza. Quando un’azienda straniera si stabilisce nel territorio, tutti i contratti e i documenti, inclusi i programmi informatici (chiamati logiciel e non software), devono essere disponibili in francese. Alcune società sono state condannate e multate severamente per avere infranto queste leggi. Da noi un’azienda italiana come Italo ha invece da poco immotivatamente sostituito la figura del capotreno con quella del train manager non solo nella comunicazione ai passeggeri, ma persino nei contratti di lavoro.
In Spagna, pur in assenza di leggi specifiche, esistono una ventina di accademie che erogano consulenze linguistiche anche sulla sostituzione degli anglicismi. Il Dizionario panispanico dei dubbi (2005) rappresenta un punto di riferimento per tutti i Paesi ispanici, e la sua presentazione, a Madrid, avvenne alla presenza dei responsabili dei principali giornali che si impegnarono a seguirne le indicazioni “consci della responsabilità che nell’uso della lingua ci impone il potere di influenza dei mezzi di comunicazione”, come ha ricordato Gabriele Valle (link).
Soprattutto, in Francia e in Spagna esistono organi istituzionali che suggeriscono e promuovono i sostitutivi attraverso campagne mediatiche che ridicolizzano l’abuso dell’inglese e diffondono le alternative possibili. Il risultato è che la circolazione delle espressioni inglesi è enormemente più contenuta che da noi.
In conclusione, il “liberismo linguistico” ci sta portando verso l’itanglese, e per attuare concretamente la sostituzione degli anglicismi con i nostri corrispettivi dovremmo cominciare anche noi a porci il problema della tutela della nostra lingua, così come tuteliamo il nostro patrimonio artistico, culturale, storico, culinario e tutte le nostre eccellenze. Come fanno all’estero, dall’Islanda alla Cina. Perché le sostituzioni entrino nell’uso occorrerebbe una politica linguistica, ma soprattutto una campagna culturale. Nel caso della femminilizzazione delle professioni, per esempio – senza entrare nel merito di un tema che ha suscitato anche molte polemiche – da tempo sono state emanate e recepite direttive amministrative, e i dizionari hanno introdotto parole come sindaca o ministra che sono sempre più utilizzate anche dai mezzi d’informazione. Analoghe raccomandazioni per le pari opportunità anche degli equivalenti italiani, oltre che del gentil sesso, potrebbero sortire qualche effetto e porre al centro dell’attenzione un problema da troppo tempo negato e sottovalutato.

Testi citati e utilizzati

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Immagine: Selfie nello spazio dell'astronauta Luca Parmitano

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