di Valentina Grassi*

Da una tradizione antica e prettamente religiosa, di un mondo non occidentale, l’idea di “casta” arriva al dibattito politico italiano ed entra nel linguaggio dell’opinione pubblica nel 2007, con la pubblicazione del libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili, che riscuote subito un discreto successo. Giocando con le parole casta e intoccabili, dove più o meno consapevolmente l’aggettivo intoccabili oscilla nell’ambiguità del significato letterale e nel rimando all’impurità dei “fuori casta”, il libro consolida la progressiva costruzione di un immaginario su una classe politica popolata da persone che godono di diritti speciali, di privilegi quasi “naturali” ed esclusivi, ma allo stesso tempo immorali e corrotte. Il libro denuncia tutta una serie di condotte dei politici che vanno da finanziamenti sconsiderati a enti pubblici, a spese elevatissime per il funzionamento di strutture come il Quirinale e le Camere, fino a tutta quella serie di privilegi legati alle spese quotidiane, ormai largamente noti. La paternità dell’espressione “casta” associata ai politici si deve a Walter Veltroni, che nel 1999, come segretario dei DS, affermò: «Quando i partiti si fanno casta di professionisti, la principale campagna anti partito viene dai partiti stessi».

Accoppiamenti endogamici

Ben prima di arrivare al linguaggio politico e giornalistico dell’Italia della Seconda Repubblica, il termine casta ha una sua origine semantica legata alla struttura piramidale della società indiana di tradizione induista. In tale società, casta indica la posizione sociale acquisita per nascita e mantenuta stabile per tutta la vita: le caste sono endogamiche, ovvero tendono ad autoriprodursi attraverso accoppiamenti interni, senza alcuna possibilità di passaggio da un casta a un’altra, se non nelle vite future (l’induismo concepisce la reincarnazione). È quindi l’appartenenza a un gruppo, determinata per natura, a segnare il destino dell’individuo nella vita. Nella tradizione occidentale, i significati di casta possono essere compresi nel raffronto con le due nozioni di classe e di ceto, molto utilizzate nell’analisi delle società premoderne e moderne.

La classe di Marx

Fu Karl Marx, alla metà dell’Ottocento, a dare al termine classe sociale l’importanza che ha poi continuato ad avere nel linguaggio sociologico e non solo: per classe sociale s’intende la posizione che un individuo occupa nella piramide sociale in base al suo ruolo all’interno del processo di produzione capitalistica. Laddove, nel periodo in cui Marx scrive, l’industrializzazione è nel suo pieno sviluppo e le classi sociali affermatesi sono sostanzialmente due, la classe borghese e il proletariato. La prima è la classe che possiede i mezzi di produzione, la classe dei capitalisti, mentre la seconda è quella che possiede solamente la prole, quella che lavora per il capitale: la classe degli operai.

Il ceto di Weber

È poi Max Weber, sociologo tedesco poco più giovane di Marx, a mettere a confronto la classe e il ceto sociale: quest'ultimo rappresenta la posizione sociale che un individuo occupa per nascita, con tutti i privilegi che ciò comporta. La differenza tra il ceto e la classe è quindi che il primo è ascritto, ovvero è un attributo che si ha in funzione della famiglia e del gruppo sociale al quale si appartiene dalla nascita, mentre la seconda è prevalentemente acquisita, la si ottiene quindi in base alla collocazione in una determinata posizione sociale in funzione del ruolo nel processo produttivo, anche se nelle società proto-capitalistiche nascere figlio di un operaio determinava sostanzialmente la propria appartenenza alla classe operaia.

Due modelli di società

Ma soprattutto, tra ceto e classe, vige una differenza legata ai due modelli di società ai quali le due categorie rimandando: se il ceto ricorda una società prevalentemente aristocratica, dove la nascita determina i privilegi sociali delle persone, la classe rimanda a una società borghese e industrializzata, dove la collocazione sociale è strutturata rispetto al processo di produzione delle merci nel mercato capitalistico.

Tra rivoluzione collettiva e ascesa individuale

Il dinamismo delle società capitalistiche in Occidente produce due grandi ideologie del cambiamento: quella della rivoluzione proletaria preconizzata da Marx ed Engels, che avrebbe dovuto portare all’abolizione della proprietà privata e a una società “senza classi”, e l’ideologia dell’ascesa sociale borghese, secondo la quale l’individuo, grazie al lavoro e all’impegno, può salire nella scala sociale e raggiungere le vette del successo. Quest’ultima rimanda a quell’ideologia del self made man che tanto ha segnato l’immaginario americano almeno dall’inizio del secolo scorso, e che il resto del mondo occidentale ha sostanzialmente recepito, in modi diversi rispetto alle diverse culture nelle quali essa si è radicata.

Intoccabili perché corrotti

Ecco spiegato il motivo per cui in Italia, oggi, per rimandare al massimo della rigidità sociale, quella in cui le élite dei privilegiati sono “intoccabili”, si usa il termine casta: si tratta della categoria che più di tutte evoca la rigidità della stratificazione sociale di una cultura non occidentale, che non ha conosciuto l’ideologia borghese dell’ascesa sociale. Nell’India tradizionale, il sistema della stratificazione sociale si articola in quattro caste: “il re e i guerrieri”, “i sacerdoti”, “gli agricoltori e i mercanti” e “i servi”. Nel tempo, esse si sono articolate ulteriormente in un sistema di sottocaste, mentre il concetto di purezza delle caste fa nascere l’idea dei “fuori casta”, i cosiddetti “paria” o “intoccabili”, che sono appunto impuri, corrotti. Se si pensa alla lingua italiana, in effetti il termine “casto” rappresenta proprio l’essere puro, incontaminato, e nella religione cristiana viene associato alla purezza dai piaceri della carne, che sono fonte di contaminazione e peccato. Come contaminata dalla corruzione è rappresentata proprio la casta dei politici italiani dell’ultimo trentennio, “intoccabili” rispetto ai problemi quotidiani e a una crisi che tocca solo, tristemente, la gente comune.

*Valentina Grassi è ricercatrice in sociologia all’Università di Napoli “Parthenope”. È autrice dei testi Introduzione alla sociologia dell’immaginario _(Guerini, 2006) e_Mitodologie. Analisi qualitativa e sociologia dell’immaginario (Liguori, 2012). Ha curato inoltre, con Francesca Colella, il testo Comunicazione interculturale. Immagine e comunicazione in una società multiculturale (Franco Angeli 2007).

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