“Basta una parola per aprire un mondo nuovo davanti a noi”. Con queste parole il maestro Alberto Manzi il 15 novembre del 1960 iniziava la prima puntata del noto programma di alfabetizzazione “Non è mai troppo tardi” entrato nella storia della tv e del nostro paese. In quella frase, oltre a una prospettiva ispirata sull’importanza della conoscenza della lingua, c’era un messaggio che oggi particolarmente attuale e rilevante per società iperconnessa. Il maestro aveva sintetizzato in quell’espressione la sfida della comunicazione, che non si gioca solo sul piano delle parole, ma soprattutto su quello dei mondi che le parole schiudono.

È quello che vediamo quotidianamente accadere: persone con differenti percezioni su cosa sia il mondo si incontrano e si scontrano online, spesso proprio perché le parole che adoperano sono ormai ridotte a vessilli e barriere difensive delle loro divergenze. E ciò accade non solo quando l’incontro è tra culture diverse – quando alle parole non si assegnano gli stessi significati – ma succede anche tra chi ha in comune la stessa lingua e lo stesso mondo. Si pensi al dilemma proverbiale del “bicchiere mezzo pieno/vuoto”: anche se si è d’accordo su ciò che si intende con le parole “bicchiere”, “mezzo”, “pieno” e “vuoto”, si potrebbe discutere all’infinito su quale formula descrive meglio quel contenitore in base alla quantità d’acqua che contiene.

Non solo parole: relazioni

Il punto infatti non è mai solo ciò che diciamo con le parole, ma ciò che quei contenuti esprimono della relazione tra noi, gli altri e il mondo attorno a noi. Le funzioni principali del linguaggio – parlare di sé e descrivere il mondo – avvengono sempre all’interno della terza dimensione: quella della discussione con gli altri. Non c’è mai un momento puramente solipsista in cui il singolo definisce la sua identità e si pone in un certo modo davanti alla realtà, è piuttosto una costante negoziazione con gli altri. Il web e i social network hanno di fatto amplificato questa dimensione, tanto che l’incontro con la diversità (il diverso modo di vedere il mondo da parte degli altri) avviene online costantemente e intensamente, senza neanche doverlo cercare intenzionalmente.

Questa moltiplicazione dell’incontro con la differenza è alla base di molti dei disagi e delle reazioni scomposte che oggi possiamo osservare. Ad esempio l’istinto alla chiusura in gruppi omogenei di opinione, oppure la pratica della cancellazione dai social di interlocutori che non aggradano, fino ad arrivare ai fenomeni di disattivazione degli account o la disinstallazione delle applicazioni di messaggistica per porre fine ai continui scontri.

Il problema non riguarda solo utenti indifesi e frustrati, ma di fatto include anche i media tradizionali, i comunicatori di professione e in generale quelli che potremmo definire i “competenti”. Lo si nota in quella tendenza (che nel dibattito pubblico va per la maggiore) a definire indistintamente come “odio” e “aggressività” proveniente da “webeti”, “hater” e “imbecilli”, qualsiasi espressione di dissenso online. Gran parte delle volte invece quelle esternazioni, al netto della scompostezza dei modi, contengono argomenti reali che richiedono risposte. Liquidarli genericamente come irrazionalità dovuta a un fantomatico “meccanismo perverso dei social” (come a volte si legge) è di fatto l’affermazione di una relazione di esclusione, come a dire: “non sono degni di attenzione”. È la manifestazione di quella insofferenza per l’esposizione alla diversità a cui l’interconnessione ha sottoposto anche coloro che tradizionalmente erano in posizione di vantaggio nel dibattito.

L’incapacità di discutere non è nata con i social

Già Platone nel Gorgia parlava dei litigi che sorgono nelle discussioni quando uno “pensa che l’altro non parli bene e con chiarezza” e si finisce “a fare la gara per avere la meglio, rinunciando alla ricerca sull’argomento proposto”. Ci ricorda che il problema non è solo di ignoranza e nemmeno è nato con le tecnologie: anche quando venti secoli fa a discutere era solo una piccola minoranza erudita, che lo faceva a voce, di persona, in piccoli gruppi, si finiva per litigare. Da questo punto di vista i social ci stanno solo mettendo di fronte a una realtà pienamente umana: discutere e confrontarsi con gli altri è un impegno faticoso per tutti, non solo per i meno colti.

Un impegno che oggi non si può aggirare visto che l’intera umanità, proprio perché connessa in rete, sta usando, ormai da tempo, la scrittura come forma di comunicazione pubblica ordinaria. Ognuno di noi online compie una serie di atti pubblici di cui rimane traccia, che raggiungono un pubblico incontrollato e indefinito rispetto alle cerchie sociali in cui ci si muove abitualmente. Siamo diventati tutti, di fatto, piccoli personaggi pubblici per i quali qualsiasi azione online (dalla pubblicazione di una foto alla scrittura di un post o di un commento) diventa una dichiarazione ufficiale della nostra identità e della nostra visione del mondo, che è esposta agli altri (potenzialmente tutti gli altri) e da essi perciò criticabile, commentabile, rielaborabile.

Un bel tacer non fu mai screenshot

Non basta adottare sistemi di privacy e di chiusure, non si è al riparo nemmeno con i messaggi privati sulle app di messaggistica. In quei casi anche un semplice screenshot (un’istantanea dello schermo) può riprodurre e diffondere tra una moltitudine ciò che ritenevamo destinato a pochi. Tanto che ci sarebbe da correggere e attualizzare il famoso detto “un bel tacer non fu mai scritto” con un più digitale “un bel tacer non fu mai screenshot”.

Al di là delle battute la questione è davvero rilevante, perché da quella dimensione dell’incontro/scontro tra mondi – una dimensione non di semplice scambio di parole o informazioni, ma di costruzione (o distruzione) di relazioni – dipende la salute delle nostre società in rete. Come abbiamo cercato di mettere in evidenza in Tienilo acceso Vera Gheno e io, c’è bisogno di una nuova ondata culturale ed educativa che metta al centro non la paura o l’entusiasmo per gli strumenti (pro o contro la tecnologia) ma le capacità di comunicazione online delle persone che, attraverso quegli strumenti, stanno coltivano (o deteriorano) una parte rilevante delle relazioni sociali.

Quattro livelli: disputa, relazioni, argomenti, nessuno escluso

La proposta si sviluppa su quattro filoni principali. Il primo riguarda la perdita di un’illusione: quella della comunicazione felice che mette tutti d’accordo. In un mondo iperconnesso l’esperienza più comune sarà quella di incontrare il dissenso degli altri, i loro fraintendimenti, le loro obiezioni. Si deve entrare nella prospettiva della disputa: bisogna esser pronti a rispondere e a discutere ogni atto di comunicazione che compiamo online (foto, testi, parole, like, retweet), facendo la fatica di capire e di farsi capire.

Da qui il secondo aspetto: la riscoperta dell’importanza della dimensione relazionale. Il punto non sono le parole che usiamo in sé, ma il fatto che quelle parole trasmettono atteggiamenti e intenzioni nei confronti dell’altro: da quelli dipende se il legame si costruirà o se si finirà in litigio. Il problema degli scontri non scaturisce dalla presenza di troppe discussioni, ma dal suo contrario: ci sono così tanti litigi proprio perché non curiamo abbastanza la nostra capacità di discutere. Litigare infatti è il miglior modo per porre fine a un confronto: appena inizia, si rinuncia al tema su cui si stava argomentando.

È il terzo aspetto: la centralità degli argomenti, che sono il bene più prezioso della discussione. Mettere gli argomenti in cima a tutto spinge a riconoscerli sempre, anche quando vengono da qualcuno che si è espresso con violenza, con mancanza di rispetto, con parole inadeguate: un argomento c’è sempre. Si potrebbe dire che un argomento c’è perfino laddove non ci sono le parole o le parole non sono il principale mezzo di espressione: anche un’immagine contiene un argomento perché sceglie di mostrare la realtà in una certa forma o con una certa inquadratura, rivelando qualcosa dell’identità e della visione del mondo di chi la pubblica. Quando gli argomenti vengono messi così al centro, perché presi sul serio e discussi, le persone si sentono valorizzate e ascoltate, e si finisce a curare di più anche i modi e gli atteggiamenti – il “come” assieme al “cosa” – proprio con l’intento di favorire il clima costruttivo per poter dissentire e non andare fuori argomento.

Si arriva così al quarto aspetto: il compito di ciascuno. Quello che si delinea nella conversazione pubblica generalizzata online, è un sistema da cui nessuno può tirarsi fuori. È una sfida di rete, e come in ogni rete, ogni “nodo” deve fare la sua parte. Occorre anzitutto mettere ogni cittadino nelle condizioni di padroneggiare le sue capacità di comunicazione per parlare di sé, del mondo e con gli altri. È una sfida culturale ed educativa. Ma a farlo devono essere anche le istituzioni, le aziende, i personaggi pubblici, i giornalisti e in generale chiunque ha un ruolo sociale. Ciascuno al suo livello ha un compito da contadino digitale: coltivare attorno a sé discussioni proficue proprio laddove sembrano solo scomposte e incolte (guarda caso la parola corrisponde fuori e dentro la metafora).

Tra parole e mondi: dove sono le persone

E per chi resiste all’idea di un dibattito disintermediato in cui non c’è riconoscimento dell’autorevolezza e della competenza, noi rispondiamo che è proprio quel tipo di dibattito che richiede l’impegno dell’intervenire-coltivando. Le interazioni online infatti hanno la caratteristica di essere sempre pubbliche, avvengono cioè non solo tra gli interlocutori che stanno attivamente interagendo, ma c’è sempre ad assistere una moltitudine silenziosa di lettori che non reagisce. Quella moltitudine è il pubblico più importante a cui rivolgersi con il proprio argomentare. Nulla infatti va perduto quando si dà una risposta articolata e pacifica a un’istanza aggressiva e scomposta: c’è sempre una platea che leggerà e si farà non solo un’idea più chiara, ma vedrà che è possibile uno stile di relazioni online diverso dal semplice rifiutare l’ignoranza quando la si incontra.

Citavamo all’inizio il maestro Manzi e l’importanza della sua opera di alfabetizzazione tramite la tv. Oggi serve un’alfabetizzazione all’altezza delle sfide dell’iperconnessione, che sappia rispondere alla prova sociale a cui il sapere viene sottoposto dalla pretesa di disintermediazione e di autonomia di ogni utente.

Non basta fermarsi alle le parole in sé: le persone attribuiranno loro differenti significati e soprattutto saranno sempre gli impliciti, i “non detti”, i “tra le righe” a trasmettere le intenzioni verso l’altro nella discussione. Da questo punto di vista è riduttiva la prospettiva – che rappresenta una nuova forma di politicamente corretto –  che si illude di poter prescrivere regole sull’uso o non uso di certe parole per eliminare aggressività e discorsi d’odio. Si può odiare benissimo usando termini eleganti e formule cortesi, così come si può manifestare ascolto e rispetto pur usando espressioni aspre per discutere le idee: dipende da qualcosa che va oltre le parole.

Non è la pluralità di mondi il problema: che siano diversi e entrino in conflitto rappresenta un'occasione, quella di spingerci a mettere alla prova costantemente ciò che diamo per scontato e certo, è ciò che ci fa progredire. Su questo occorre stare attenti perché si diffonde una sorta di nuovo principio di autorità riveduto e corretto che, ad esempio, pone al di sopra di tutto la scienza o la cultura, facendone una specie di totem, quando il meglio del sapere scientifico e dei nostri capisaldi culturali è venuto proprio dalla capacità di discussione degli stessi e dalla dialettica della messa alla prova delle idee.

Insomma la nostra proposta è quella di avventurarsi nel terreno rischioso che sta tra le parole e i mondi, lì dove sono le persone che, ogni volta che si esprimono, stanno dicendo di fronte agli altri qual è il posto che vorrebbero ritagliarsi nel mondo. Da lì – dove l’altro rivela di posizionarsi in base ai suoi argomenti –  si può e si deve partire per costruire relazioni generative.

In una rete oggi fatta di guerrieri blastatori (dal verbo to blast, far esplodere) che stigmatizzano l’ignoranza ma non la risolvono; o di nobili intellettuali che di fronte al “dibattito indegno” consigliano di tirarsene fuori cancellandosi dai social; abbiamo bisogno di contadini digitali che tengano accesi i dispositivi e il cervello, facendosi carico della discussione così come è, senza paura di trovarsi talvolta di fronte a un terreno brullo e aspro: è proprio così che appare il campo quando ha bisogno di essere coltivato.

*Bruno Mastroianni è filosofo, giornalista, social media manager di trasmissioni Rai. Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze, si occupa di relazioni digitali e di discussioni online (www.brunomastro.it). Insegna Reti e social media e Etica della comunicazione presso Uninettuno. Autore de La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico (Cesati, 2017) e, insieme a Vera Gheno, Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello (Longanesi, 2018)__.

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