di Massimo Arcangeli*

Fenomenologia ed eziologia dell’insulto

È fuor di dubbio. La communis opinio pare sempre più disposta a concedere alla parolaccia attenuanti generiche, se non a disinnescarne del tutto la portata offensiva: come si potrebbe mai oggi disconoscerle, se non il rispettabile ruolo di forma verbale che imprime maggior forza al pensiero, perlomeno la funzione di innocuo, automatico intercalare? A far testo anche molte clamorose sentenze della magistratura, applicate alle più svariate fattispecie. Ma procediamo per gradi.

Le ragioni di quel che si configura vieppiù come un’autentica escalation del “becerese” potrebbero essere diverse. La mia impressione è che il mondo imbarbarisca ogni giorno di più sotto i nostri occhi; lo sdoganamento dell’insulto e del frasario volgare potrebbe essere così, semplicemente, uno fra i tanti effetti di una tendenza più generale. Anche la pubblicità, che della realtà è per tradizione specchio fedele, registra con sempre minore imbarazzo il massificato involgarimento, non limitato certo al nostro paese, di toni, atteggiamenti, comportamenti. Qualcuno rammenterà lo spot Madza che ritraeva un automobilista ripreso nell’atto di scaccolarsi e fotografato con soddisfazione dal cellulare del conducente dell’auto vicina. O il claim delle patatine snack Amica Chips – testimonial un Rocco Siffredi un po’ in disarmo – che giocava in modo grossolano sul doppio senso: “a chi piace la patatina”. O le scorregge salva-ambiente dello scoiattolo e dei tre pinguini delle air action Vigorsol: grazie alle mitiche caramelle rinfrescanti pubblicizzate, con una potente, fragorosa emissione di gas intestinali l’uno spegne un immane incendio boschivo, gli altri salvano sé stessi e il piccolo di famiglia dalle devastanti conseguenze del global warming (la piccola lastra di ghiaccio che ospita i quattro animali diventa d’incanto una svettante montagna).

Ci sarebbe poi, a tralasciare la letteratura, il ragguardevole manipoletto dei trivialismi incorporati nei motivi delle più recenti edizioni del “borghese” e castigato Festival di Sanremo. Di cantanti un tantino sboccati non ne sono mancati nemmeno in anni addietro – nel 1994, per esempio: la Berté che va “a letto la mattina / incazzata come prima” (Amici come prima) e il Giorgio Faletti di “minchia, signor tenente” –, ma impallidiscono al confronto con i partecipanti alle rassegne degli ultimi tre anni. Se nel 2006 Dolcenera aveva sostituito, sembra volontariamente, l’originario “andare affanculo” con “andare lontano” (Com’è straordinaria la vita), nel 2007, in una bella canzone scritta per lei dal recidivo Faletti, Milva non la imiterà (“un’alba slavata da mandare affanculo”, The show must go on) e Alberto Silvestri e Pietro Baù, che danno alle loro ganze della stronza e figlia di puttana, fanno il resto. Quest’anno il clou: il record storico di male parole, secondo Vito Tartamella. L’autore di Parolacce. Perché le diciamo, che cosa significano, quali effetti hanno (Milano, BUR, 2006), in un intervento sul suo blog (www.focus.it), ne ha contate ben sette. Anche una volta sottratto alla lista un evidente intruso (se ne frega), e volendo ancora scorporare l’innocuo cazzata, ne rimarrebbero pur sempre cinque. Eppure pochi hanno gridato allo scandalo per la stronza e il vaffanculo dei Gemelli diversi (Vivi per un miracolo), la “gente di merda” degli Afterhours (Il paese è reale), la “solita merda” e “l’Italia che c’ha rotto i coglioni” di Marco Masini (L’Italia), un habitué del turpiloquio: da Vaffanculo (1993) a Bella stronza (1995). Avranno fatto senz’altro più scena la “conversione” eterosessuale di Povia (Luca era gay) e la disinvoltura sessuale della Zanicchi (Ti voglio senza amore), ma sembra comunque passato un secolo da quel 1981 che vide la censura imporre a Luca Barbarossa di cambiare il titolo della canzone in gara: da Roma puttana a Roma spogliata.

Intendiamoci, c’è insulto e insulto. Non solo: ogni ricorrenza va attentamente contestualizzata. Quando Rossano Rubicondi, fra i concorrenti dell’ultima edizione dell’Isola dei famosi, s’è n’è uscito con faggot (riferita a un ballerino) nella puntata del 13 ottobre 2008, il suo interlocutore isolano, l’ex-onorevole Vladimir Luxuria, ha risposto piccato: “Chi definisce storpio un portatore di handicap, terrone un meridionale, frocio un gay già discrimina quella persona”. Gli esponenti dell’estrema destra di Forza Nuova che, per protestare contro il gay pride di qualche anno fa, hanno tappezzato i muri della capitale di manifesti con su scritto “L’Italia ha bisogno di figli non di omosessuali”, e hanno esibito ignobili striscioni che recitavano “Il Colosseo ai gay? Coi leoni dentro”, non hanno tuttavia avuto bisogno di sostituire gay e omosessuale con checca o frocio per far arrivare forte e chiaro il loro squallido, penoso messaggio omofobo. E se una parte della comunità gay americana, con la fondazione della New Queer Politics, ha deciso di impossessarsi del termine dispregiativo queer non è poi così difficile capire perché: impadronirsi dell’offesa può voler dire rivendicare orgogliosamente la propria identità sessuale. Qualcosa di simile è avvenuto presso la comunità dei neri americani, alcuni dei quali, in barba a ogni possibile sostituto neutro o eufemistico (blacks, black people, Afroamericans, etc.), si sono autoassegnati tempo fa un termine fortemente denigratorio come niggers. E si pensi ancora alle attiviste del movimento americano Women’s Liberation, che si sono appropriate, negli anni Settanta, di termini come dyke ‘lesbica’ (ma con valore dispregiativo).

Se l’insulto va combattuto, il perbenismo politicamente corretto, quando è portato all’eccesso, è insostenibile. I gay, l’ho detto apertamente – chiamato a intervenire in tema di discriminazione verbale in un incontro organizzato da Anna Paola Concia, parlamentare del Pd, a Palazzo Marini –, non è male se dicessero ogni tanto di sé di essere froci; anzi, se affermassimo tutti di essere anche un po’ froci, il termine forse alla fine si neutralizzerebbe, o perderebbe molto del suo potenziale offensivo, perché spiazzerebbe chi lo utilizza per denigrare. Un modo per disinnescare l’offesa. Se oggi quasi tutti non userebbero mai la parola negro per rivolgersi a una persona di colore non è tanto perché, credo, i vocabolari o le redazioni giornalistiche l’abbiano stigmatizzata o bandita o abbiano consigliato almeno di sostituirla con nero, ma perché, in fondo, i neri hanno visto riconosciuti i loro diritti di persone più di quanto non sia riuscito di fare ai gay. Se un giorno gay si sostituirà ovunque a frocio o a checca o a qualunque altro analogo termine offensivo non potrò che rallegrarmene. E non perché avrò convenuto che alla fine è meglio usare gay piuttosto che frocio o checca, ma perché mi sarò convinto che, agli occhi del mondo, saremo diventati tutti finalmente gay; non ci saranno più froci perché saranno venute meno le ragioni per rivendicarne l’orgogliosa appropriazione.

Il linguaggio manifestamente offensivo ci può anche indurre, se abbiamo un po’ di coraggio, a portare alla luce il problema, a sollevarlo: è un nemico esterno ed è per questo che ci fa reagire. L’ipocrisia di chi vorrebbe mascherare la forma dell’offesa, infischiandosene in pratica della sua sostanza, è un nemico più difficile e insidioso da combattere: è un nemico interno, ed è per questo che ci può fregare.

“Realizzati” e sboccati: il “mal ton” in tv

A lamentare la scarsa qualità della televisione pubblica, negli ultimi anni, siamo stati in molti. Franca Ciampi, riferendosi allo show di Giorgio Panariello abbinato qualche anno fa alla Lotteria Italia, ha parlato a suo tempo di tv deficiente. C’è però assai di peggio degli show di Panariello. Come L’isola dei famosi, già ricordato; l’ultimo dei sopravvissuti tra i reality show che mamma Rai continua ad ammannirci gentilmente in prima serata: dalla Talpa al Ristorante, da Ritorno al presente a Music farm.

Ricordo la puntata del Ristorante, andata in onda la sera prima della giornata di lutto proclamata in quasi tutta Europa per le vittime dello tsunami abbattutosi sulle popolazioni del Sud Est asiatico, in cui le due “contesse” Marina Lante Della Rovere e Patrizia De Blanck si lanciarono offese da taverna scatenando le proteste dei telespettatori; la stessa Lante Della Rovere, ineffabile maestra di bon ton ed eleganza, protagonista di un celebre vaffanculo pronunciato all’indirizzo di Adriano Pappalardo nella prima edizione proprio dell’Isola dei famosi. E poi Paolo Bonolis che, non fossero bastati gli inviti ai concorrenti di Affari tuoi a toccargli il deretano per essere aiutati dalla sorte, si lasciava andare a doppi sensi e a espressioni pecorecce; l’assegnazione della palma di artista più puzzone, all’interno di una rosa di cinque nomi (Brad Pitt, il vincitore, e poi Russell Crowe, Britney Spears, Michey Rourke e il cane Rex, naturalmente, ultimo arrivato), nella gossippara Starflash condotta da Jerry Calà e Elenoire Casalegno; la pisciatina nella “cassetta del viaggiatore” di Marina Graziani, contenente i suoi effetti personali, raccontata diffusamente in Ritorno al presente; le bestemmie di Francesco Baccini e Massimo Ceccherini a Music Farm e (ancora) all’Isola della Ventura. La quale, non paga di aver invitato Alessandro Cecchi Paone a “mettersi in quel posto” – salvo negare, con finto candore da educanda, di aver pensato proprio a quel luogo lì – la sua spocchia, si è esibita in un doppio “figlio di puttana” (applaudita dal pubblico addomesticato presente in studio) rivolto all’ex partner di una sua concorrente per un’intervista al vetriolo contro la naufraga rilasciata a un settimanale scandalistico.

Fin qui la tv pubblica. Su quella privata – La7 a parte – sarebbe meglio stendere un velo pietoso: da Ciao Darwin del solito Bonolis (il nuovo era ancora peggiore del vecchio) all’incredibile Distraction di Teo Mammucari, che sembrava ritagliato dal perfetto manuale dei riti sadomaso, alle varie edizioni della Fattoria e del Grande Fratello.

In Spagna il governo di Zapatero ha tentato di restituire alla televisione pubblica la sua dignità, anche se questo ha determinato un certo calo degli ascolti. Perché mai questa strada non si tenta anche da noi? Perché tra i punti di share e il bollino di qualità sono destinati ad avere la meglio sempre i primi? E a chi giova una guerra senza esclusione di colpi in nome dell’audience? Penso in particolare alla vicenda di Striscia la notizia e Affari tuoi, con un Antonio Ricci che per recuperare ascolti le ha provate davvero tutte contro il conduttore di allora, Bonolis, sempre lui; il quale, non pago della melodrammatica replica, dal salotto familiare di Domenica in, a chi lo aveva accusato di speculare sul dolore, concludeva alla Totò, pochi giorni dopo, un pistolotto di 40 minuti dal suo preserale: “Nella vita ci sono le cose reali e le cose supposte. Se da una parte mettiamo le cose reali, le supposte dove le mettiamo?”.

Claudio Petruccioli, quando era ancora presidente della Rai, ha scritto che “il servizio pubblico non è obbligatorio; si può vivere anche senza”. Dovremmo prenderlo in parola, vista la pessima qualità di quello televisivo. Quanto sarebbe bella anche da noi quella tv che accompagna per quindici lunghi anni le giornate del recluso colpevole di uno splendido film del coreano Park Chan-wook (Old boy) e ha il “torto” di non avergli insegnato le parolacce; il protagonista se ne rende conto quando, una volta uscito dalla lunga prigionia, ha difficoltà a comprendere il frasario becero con cui lo apostrofano alcuni giovinastri. Avesse avuto il satellite, e fosse riuscito a sintonizzarsi su Rai Due, non solo avrebbe fatto tesoro di tutto il bagaglio espressivo necessario ma li avrebbe fatti ammutolire con qualche colpaccio verbale appreso alla scuola della Ventura e dei suoi isolani famosi e non famosi.

La parolaccia ai giudici (e ai politici)

A conformarsi al generale andazzo, stando ad alcune recenti sentenze, anche la magistratura. La faccenda, andrà detto, è però in questo caso un po’ meno semplice di quanto superficialmente appaia; non tutti, per fortuna, si adeguano. Nello scorso mese di marzo la Corte di Cassazione ha sentenziato: il dipendente che a un superiore eccessivamente esigente, diciamo pure un po’ rompiballe, si rivolga con un bel “ma chi cazzo ti credi di essere” non deve essere licenziato; la sua è una “reazione emotiva istintiva”, di liberatorio compenso all’esasperazione per i troppi rimbrotti subiti. Qualche anno fa sempre la Cassazione ha annullato la multa comminata dal tribunale di Perugia a un giovane automobilista che aveva insultato un suo coetaneo uscendo da un parcheggio: nella motivazione depositata, salita agli onori delle cronache nel giugno del 2002, si dichiara l’espressione insultante (“non rompermi i coglioni”) sintomo di una “coscienza sociale” resasi avvertita del “diffondersi di gratuite volgarità, fatte circolare anche attraverso il mezzo televisivo”. Diverso il ragionamento della quinta sezione penale della medesima corte, che ha così deliberato (sentenza n. 13263, 16 marzo 2005): se si dà dello stronzo a qualcuno, anche senza manifesta intenzione, si attenta comunque al suo onore. A essere punita, in questo caso, la semplice “volontà di usare espressioni offensive con la consapevolezza dell’attitudine offensiva delle parole usate”; colpevole un maresciallo dei carabinieri che aveva pronunciato la contumelia ai danni di un immigrato pescato a guidare un’auto con la patente scaduta.

L’ingiuria è rubricata dal nostro codice penale (art. 594) sotto i delitti commessi contro la persona: a essere lesi, come per la diffamazione (art. 595), reputazione e onore della persona offesa. Se l’ingiuria configura il reato alla sua presenza, mettendola in condizione di replicare, la diffamazione ne presuppone l’assenza; e se la vittima non può controbattere, mentre terzi leggono o ascoltano dal diffamante il resoconto delle sue presunte malefatte, la cosa è senz’altro più grave. Analogo il profilo giuridico della calunnia (art. 368), ma con un’ulteriore aggravante: l’infondata accusa, contenuta in una denuncia, un’istanza o una querela, di essersi macchiati di un misfatto. Nella fattispecie dell’intemperante automobilista perugino, in cui l’affondo portato è solo indirettamente lesivo dell’onore altrui, un pizzico d’indulgenza ci poteva forse anche stare. Per un’apostrofe diretta non dovrebb’esserci invece “coscienza sociale” che tenga. A subentrarle senz’altro l’accusa di ingiuria; per il sottoufficiale dei carabinieri, motivazione dei giudici della Suprema Corte alla mano, nemmeno presunta tale: è bastata, per condannarlo, la consapevolezza della portata offensiva del termine incriminato. Nel febbraio 2004 il Parlamento ha incluso pezzo di merda, pronunciato da Stefano Stefani all’indirizzo del fuoriuscito Daniele Apolloni, “nell’insindacabile diritto di critica e denuncia riconosciuta al parlamentare”. Per il deputato leghista la vicenda avrebbe preso una ben diversa piega se, anziché un esponente della solita “casta”, fosse stato un comune cittadino. E tuttavia, ammettiamolo, anche a quelli come noi talvolta va bene. Piero Ricca, giornalista free lance, è stato assolto dalla Cassazione (giugno 2006) per aver dato del buffone a Berlusconi nei corridoi del palazzo di giustizia di Milano, dove era allora in corso il processo Sme; nel febbraio 2007 un ventiduenne studente egiziano, Abdel Karim Nabil Suleiman, è stato condannato a 4 anni di reclusione per aver criticato la sua università e dato del “dittatore” al presidente Mubarak nel suo blog; se vigessero regole analoghe anche da noi un buon terzo della popolazione italiana si troverebbe oggi dietro le sbarre.

Due episodi della scorsa estate hanno riacceso ultimamente il dibattito sulle espressioni ingiuriose. Chiamino a rispondere del suo operato un utente che usi incautamente la lingua o chi esibisca invece, rinunciando alla significazione per verba o accompagnando l’atto alla parola, uno dei tanti esempi di quel vasto repertorio di gesti di cui gli italiani sono maestri: chi non ricorda, fra i tanti raccontati dal cinema, quello antioperaio dell’ombrello (con annessa, sonora pernacchia) reso immortale da Alberto Sordi nel felliniano I vitelloni?

Il primo episodio ha riguardato ancora una sentenza (n. 32978) della quinta sezione penale della Cassazione, investita del caso di un trevigiano che aveva detto a due suoi conoscenti, durante una concitata discussione: “chissà che te mori ti e to fia di tumore”. Gli oltraggiati, uno dei quali aveva visto spegnersi poco tempo addietro la moglie per un male incurabile, si erano costituiti parte civile contro l’assoluzione dell’uomo, decisa dal tribunale di Treviso; “nella decisione impugnata”, questa la motivazione di condanna espressa dalla Suprema Corte, “manca totalmente una giusta disamina dei fatti dal momento che si è limitata a considerare solo il significato logico e intrinseco delle parole adoperate senza minimamente apprezzarle in rapporto al contesto in cui erano state proferite, anche al fine di verificare la possibilità che esse costituissero una manifestazione di disprezzo verso le persone cui erano dirette, e quindi un’offesa all’altrui decoro, vale a dire al complesso di altre qualità, diverse da quelle morali, e circostanze che determinano il valore sociale di un individuo”.

Il secondo episodio è un’uscita a effetto di Umberto Bossi, a sfavore del quale (P. Desideri, L’italiano della Lega/2, in «Italiano e oltre», 9, 1994, pp. 22-28) parla la lunga teoria degli insulti gratuiti o volgari portati, nella fase caldissima degli anni Novanta, a vari esponenti politici: Andreotti (“l’unico gobbo che porta sfortuna”), dalla Chiesa (“Nando dalla Cosa nostra”), De Mita (“brutto anche di notte”), Fini (“cagnolino al guinzaglio dei boiardi”), Occhetto (“assomiglia al suo nome”), Rauti (“stortignaccolo come il suo partito”), Scalfaro (“gendarme del sistema”), Segni (“un travestito della politica”). Il leader leghista non è stato capace di trattenersi davanti alle camicie verdi riunite in congresso a Padova. Un bel dito medio alzato verso il cielo, per dare icastica sostanza alle sue parole: “Non dobbiamo più essere schiavi di Roma. L’inno dice che ‘l’Italia è schiava di Roma…’; toh!, dico io”.

Sulla sonnolenta capitale, ben nota residenza di ladroni, è piovuto ben altro. Ma il vilipendio a Fratelli d’Italia, come qualcuno si è precipitato a denunciare? Il fatto non sussiste: quello di Mameli non è ancora l’inno ufficiale della Repubblica Italiana e non è affatto detto che lo diventerà. Alla procura di Venezia, chiamata a giudicare l’operato del Ministro per le Riforme Istituzionali e la Devoluzione, non è così rimasto altro che trasmettere il relativo fascicolo al tribunale dei ministri con una richiesta di archiviazione: il vilipendio non c’è stato. Ai discendenti del povero Mameli, e a tutti i milioni di italiani (compresi i nostri olimpionici) che hanno intonato e continuano a intonare le parole del suo inno, la magra consolazione di un banner comparso sul sito della compagnia irlandese Ryanair, subito dopo l’esternazione bossiana, per protestare contro il comportamento del governo nella vicenda Alitalia. Sotto l’headline vendicatore (“Il ministro Bossi ai passeggeri italiani”), in bella mostra, il visual con il ministro e il suo dito alzato. L’impressione, alla fine, è che di rispetto ci abbiano mancato un po’ tutti e a quel paese siamo stati mandati in tanti: difensori degli italici simboli e valori e aficionados della compagnia di bandiera. Inutile protestare. Meglio abbozzare, dato l’imbarbarimento comunicativo ed espressivo generale, un mezzo sorriso di circostanza.

*Massimo Arcangeli è ordinario di Linguistica italiana presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Cagliari, che attualmente presiede. Linguista, sociologo della comunicazione, critico letterario e scrittore, è componente del collegio di dottorato in Linguistica storica e storia linguistica italiana dell’Università “La Sapienza” di Roma; collabora con la radio e la televisione pubblica (e con l’emittente SAT2000, come titolare di una rubrica di lingua) e con diversi siti culturali e giornalistici; scrive, anche da opinionista ed editorialista, su varie testate quotidiane e periodiche (“La Stampa”, “Il Manifesto”, “L’Unità”, “Liberazione”, “L’Unione Sarda”, “Terzo Occhio”, “L’Indice dei Libri”, etc.); è consulente scientifico per la Società Dante Alighieri, garante per l’Italianistica nella Repubblica Slovacca, referee per i progetti strategici d’ateneo dell’Università di Bologna. Il suo ultimo libro, Il linguaggio della pubblicità (2008), è uscito presso Carocci; di imminente pubblicazione, per LiberiLibri, il pamphlet Il Medioevo alle porte.Dirige da quest’anno, per l’editore Zanichelli, un Osservatorio della Lingua Italiana.

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