di Marcello Ravesi_*_

Durante una trasmissione televisiva, di fronte a un pubblico diviso in due fazioni e assiepato sui gradoni di uno studio che ricorda piuttosto un’arena gladiatoria, il giovane regista emergente Michele Apicella sta per affrontare in un serrato faccia a faccia il regista rivale, Gigio Cimino, autore di un musical sulle lotte del ’68. Il moderatore (straordinariamente somigliante a un giovane Giampiero Mughini), con un «siete pronti? mi raccomando mettiamocela tutta»,  invita i due ad alzarsi in piedi e a confrontarsi. Dopo un silenzio da mezzogiorno di fuoco (sguardi di sfida dritti negli occhi), il Cimino attacca con pacata sicumera un discorso apologetico sul proprio modo di fare cinema. Apicella lo interrompe aggredendolo verbalmente, ma poi s’interrompe, non ce la fa ad andare avanti, non è a suo agio. Prontamente, il suo uomo d’angolo (un assistente-consigliere seduto alle sue spalle, sorprendentemente simile a un giovane Tatti Sanguineti) si alza dallo sgabello, chiede un time-out e sussurra qualcosa nell’orecchio di Michele: «Non mi va», risponde Michele con insofferenza. «È l’unica arma che abbiamo!», replica il secondo. Persuaso che lo strumento argomentivo suggeritogli sia l’ultima risorsa possibile, Apicella procede rivolgendosi di nuovo al Cimino: «A stronzo, e ffamme ’na pippa, anvedi ’sto bburino ancora parli, ma se n’ t’areggi ’n piedi, sei alto ’n cazzo e du’ bbarattoli, co’ no sputo t’affoghi, ma vvaffanculo va’, anvedi che ssei, a bbrutto stronzo». A questo punto il conduttore sollecita la dirimente votazione del pubblico in studio: la vittoria di Apicella è schiacciante (senza stupore né troppo rammarico il moderatore commenta: «la volgarità, purtroppo, ha trionfato ancora una volta»).

Il romanesco tra stereotipi e parolacce

Molti, nell’episodio, avranno riconosciuto una scena del film Sogni d’oro (1981) di Nanni Moretti, regista che, fra le altre cose, ha il dono di saper descrivere, e in certi casi prefigurare, le metaforfosi intervenute nel costume degli italiani dagli anni Settanta in poi. A questa dote va aggiunta «una spiccata sensibilità metalinguistica che rende l’opera di Moretti ricca di riflessioni e prese di posizione in tema di comportamenti linguistici» (cfr. Picchiorri, p. 109, cui rimando per un’eccellente disamina linguistica dei film morettiani). Nel caso in esame – come in altri casi in cui la situazione diafasica sia quella del turpiloquio e dell’aggressione verbale (cfr. Picchiorri, p. 113) – Moretti può avvalersi anche di un’arma potentissima e a lui familiare: il romanesco. Nella tirata di Michele, al di là di un lessico disfemico geograficamente non marcato (stronzo, cazzo_,_ vaffanculo_), si apprezzano tratti sintattici genuinamente romaneschi come un_ a allocutivo (a stronzo) e un vaffanculo con foderamento (ma vvaffanculo va’), confortati da un lessico altrettanto topico (anvedi, burino, pippa) e da una fonetica inequivocabilmente romana (fatta eccezione per alto_,_ che a rigore avrebbe richiesto la rotacizzazione della laterale / l /  > / r / davanti consonante, cioè arto). Negli utimi decenni, infatti, il dialetto di Roma tocca il minimo storico nell’apprezzamento degli altri parlanti italiano; e ormai non è solo il dialetto stricto sensu a essere socialmente squalificato, bensì anche la pronuncia della varietà romana dell’italiano (cfr. Serianni, 2002, pp. 93 e 104). Del resto il romanesco non ha mai goduto di uno stereotipo linguistico favorevole. Al di là del paradigmatico caso del Belli (quella «romanesca» – dice il poeta stesso – è «una favella tutta guasta e corrotta»), sembra che a Roma la parlata locale porti impresso ab origine il marchio della violenza e dell’abiezione, e che il suo uso implichi «una trasgressione» o comunque «un’espressività bassa violenta» (cfr. Trifone, p. 543). Si pensi alle battute messe in bocca ai personaggi – a mo’ di fumetto – negli affreschi di San Clemente a Roma (sec. XI ex.): «Fili de le pute, traite», grida il prefetto Sininnio agli sgherri che devono trascinare in prigione il santo martire (la prima attestazione di ‘puttana’ è offerta dunque da un affresco, tecnica pittorica che – va detto –  è il più potente mass-media dell’epoca).

Abboccaperta, co’ la ggente

Gli ingredienti linguistici del turpiloquio e del “romanaccio” buffonesco, greve e materiale, costituiscono la ricetta di base delle prime risse televisive. Telerissa è neologismo apparso nel 1981 (lo stesso anno di Sogni d’oro) con riferimento al programma di Gianfranco Funari Aboccaperta (e credo che l’arena televisiva parodiata da Moretti sia proprio questa), in cui due tribune contrapposte di ggente qualsiasi  –  che «parla come magna», a detta dello stesso Funari – si scontravano su un argomento qualsiasi (costume, politica, attualità, ecc.), aizzate da un anchorman perfettamente padrone del mezzo televisivo ed «efficace nell’uso della cadenza e dei modi del dialetto, cui diede la forza di grimaldello plebeistico per arrivare dritto al cuore del pubblico» (cfr. Novelli). In realtà, per trovare l’archetipo del talk-rissa occorre retrocedere al 1980, quando Funari debuttò come conduttore sul piccolo schermo a Telemontecarlo con la trasmissione (rifiutata dalla Rai) Torti in faccia, poi ribattezzata Aboccaperta e infine, visto il successo, traslocata come tale su Raidue per volontà di Giovanni Minoli (dal 1984 fino al 1989). Fra alti e bassi, la carriera televisiva del nostro continua negli anni ’90, sempre dando «legittimità al senso comune dei ragionamenti da bar, alle trivialità di cui si nutre l’egoismo e l’individualismo atavico presente in tutti i men in the street» (cfr. Novelli). E di qui la deriva inarrestabile del funarismo (coniazione di Aldo Grasso: «Corriere della sera», 10 novembre 1991), che lo stesso Funari ha finito col deprecare: «Ormai non sanno più dire nemmeno le parolacce. Quando le dicevo io era diverso: se dicevo cazzo, si capiva che cazzo era» («La Repubblica», 5 gennaio 1999).

Ai tempi della paleotelevisione perbenista

Dando un’occhiata alle date, si capisce che la grande svolta innovativa, quella con cui si dà il lasciapassare al turpiloquio teleschermico, avviene intorno agli anni Ottanta, quando si passa dalla paleotelevisione alla neotelevisione (coniazioni di Eco). Nell’epoca del monopolio di Stato (dal 1954 al 1976) l’attività televisiva era animata da una triplice vocazione: informare, divertire, istruire. Le scelte linguistiche favorivano quindi «il predominio d’un italiano medio, rispettoso (talora velleitariamente) della norma anche fonetica, nonché perbenista» (cfr. Raffaelli, p. 287). Erano tempi in cui agli addetti ai programmi si consigliava di dire mucca anziché vacca, cucinaria anziché culinaria (cfr. Migliorini, 1990, p. 17); in cui un ultraottantenne Cesare Zavattini provocò un piccolo terremoto tuonando cazzo! in diretta radiofonica, per rimarcare con forza un concetto cui teneva particolarmente (si trattava della rubrica Voi ed io, punto e a capo del 25 ottobre ’76). Naturalmente, anche in questa paleotelevisione, le strategie comunicative si andavano lentamente modificando. Specialmente dopo il ’70, infatti, «accanto all’italiano medio [...] cominciarono a presentarsi [...] fenomeni anche spiccati di matrice dialettale. Il parlato teleschermico andò così riducendo gradualmente – come da tempo aveva fatto il cinema – il proprio distacco dalla lingua viva [...]» (cfr. Raffaelli, p. 288), e nella lingua viva la parolaccia è moneta corrente. Ma la radicale metamorfosi avvenne col sistema radiotelevisivo misto, cioè con la dichiarazione di legittimità delle fonti private d’emittenza (1976) e il conseguente affermarsi nei network commerciali a copertura nazionale (Canale 5 esordì nel 1980), «e più tardi in un certo grado anche in quella pubblica, d’una programmazione condizionata dalla ricerca del consenso di massa e perciò tendente a privilegiare le scelte distensive, emarginando oppure spettacolarizzando anche i settori informativi e culturali» (cfr. Raffaelli, p. 289).

Talk show, ovvero fine della repressione verbale

Da allora in poi la tv ha rinunciato alla sua originaria funzione pedagogica, a farsi strumento di promozione culturale, puntando piuttosto «a riflettere la realtà linguistica circostante; perso il suo potere di modello, ha conservato il potere amplificante di un grande ripetitore» (cfr. Antonelli, p. 117). Gli imperativi ora sono cambiati: «Primo divertire, poi informare, sempre meno istruire» (cfr. Beccaria, p. 103); ciò che resta di culturalmente stimolante è per lo più destinato agli insonni. Tale orgia dell’intrattenimento, va da sé, è da mettere «in relazione con la concorrenza legata agli investimenti pubblicitari, tanto maggiore quanto maggiore è l’audience del programma (documentata dal 1984 tramite i contestatissimi dati auditel)» (cfr. Antonelli, p. 115).

Poiché la tv “auditelizzata” non vende più programmi, ma contatti con il numero più alto possibile di potenziali acquirenti di un prodotto, è conveniente assecondare la presunta maggioranza, che – a quanto pare – avrebbe gusti prevalente voyeuristici o circensi, eccitata com’è dalle battutacce da avanspettacolo, dal peto ammiccante, dal chiacchiericcio pneumatico, dalle confidenze intime, dal disagio esistenziale messo in piazza, dai lacrimoni in diretta, dagli sfoghi istintivi, dalle risse e da altri beceri spettacoli. L’ondata salottiera dei talk show (la prima di quelle “neotelevisive”: cfr. Menduni) è il fenomeno mediatico che  – s’è detto –  ha fatto saltare il tappo della repressione verbale in tv.

Funarismo e sgarbismo

In questo contesto nasce il funarismo, con la sua volgarità casereccia e “stradarola”, scurrile e tuttavia bonaria, ma nasce anche lo sgarbismo, pratica del tutto differente – che peraltro non si giova di un potenziamento dialettofonico –, centrata sulla sinergia fra una trivialità coprolalica e sclerotica  e un’arroganza lucida e premeditata. Lo sgarbismo, ovviamente antonomastico da Vittorio Sgarbi (sembra un nome d’arte, ma non lo è), funziona così: si dà della stronza a un’innocua professoressa col pallino della poesia, portandola quasi alle lacrime (nel 1987 al Maurizio Costanzo Show); si auspica in diretta la morte a un illustre critico d’arte («Io odio Federico Zeri e desidero la sua morte»: sempre al Costanzo Show nel 1989); si getta un bicchiere d’acqua in faccia a un collega (Roberto D’Agostino) per poi essere presi a schiaffi da quest’ultimo (nel ’91 durante una puntata de L’istruttoria condotto da Giuliano Ferrara); ci si rivolge a uno scomodo giornalista (il documentato e impassibile Marco Travaglio) dandogli ripetutamente del pezzo di merda, ma non solo («sei un pezzo di merda, pezzo di merda puro»: durante la puntata del 1° maggio 2008 di Annozero, condotta da Michele Santoro). Ciò fatto si aspetta la  reazione indignata della stampa, che immancabilmente arriva facendo la fortuna dell’offensivo stratega. Questa operazione consente facilmente, per esempio, di passare da un modesto stipendio da ricercatore universitario a quello ben più cospicuo del parlamentare, per giunta enormemente arrotondato dai gettoni di presenza per apparizioni televisive e serate varie.

Parole spinte, cioè parole-spinta

L’insulto, l’ingiuria, la parolaccia, sono ormai definitivamente passati dalla sfera del privato a quella del pubblico. Le parole spinte hanno assunto la funzione mediatica di «parole-spinta»: stando ai grandi comunicatori sono telegeniche e – oltre ad arricchire qualcuno, o quanto meno a trovargli un mestiere – producono udienza (cfr. Beccaria, p. 51). Qualche anno fa la società di indagini Eta Meta Research ha condotto un monitoraggio delle reti nazionali per individuare ogni quanti minuti, mediamente, viene pronunciata una parolaccia o un’espressione volgare in tv (cfr. «Corriere della sera» e «La Repubblica» del 2 novembre 2003). Risulta che, nelle trasmissioni televisive italiane, l’indecenza ricorre ogni 21 minuti, ore notturne e fasce protette comprese. Contestualmente si sono intervistati 130 esperti tra psicologi, linguisti e pubblicitari, chiedendo loro un’interpretazione del dato statistico. La maggior parte di essi ritiene che i programmi più pericolosi in fatto di volgarità siano quelli di intrattenimento legati all’attualità e al costume (ovviamente, direi). Preoccupa soprattutto la giuliva connivenza dello spettatore nell’accogliere le parolacce; una complicità – ricercata dai programmisti – che contribuisce non poco a sdoganare il linguaggio osceno e a favorirne la normale assunzione nel linguaggio comune, specie se i fiori d’eloquenza sbocciano da personaggi famosi che vengono presi a modello. Ma è soprattutto interessante che il 73% degli intervistati pensa che questo abuso di volgarità non sia tanto uno “specchio dei tempi” quanto una scelta ragionata dei responsabili dei programmi, fatta col deliberato obiettivo di alzare l’ascolto.

L’antilinguaggio dei reality show

Va da sé che i più colpiti dall’inflazione del turpiloquio siano soprattutto i bambini e gli adolescenti, per i quali la televisione – come rimarca Saro Trovato, presidente di Eta Meta Research –  sembra essere una vera e propria «enciclopedia della volgarità» (da un’analoga e più recente ricerca della Eta Meta Research sulla violenza in tv emerge che le forme di violenza verbale – urla, litigi, minacce e insulti – sono presenti sul teleschermo con una frequenza di una ogni 5 minuti, e che, per la maggioranza degli esperti intervistati, i reality show siano i programmi più a rischio, seguiti a ruota dai talk show: cfr. «La Repubblica», 17 settembre 2004).

Il trionfo della tv spazzatura è stato sancito definitivamente dall’avvento dei reality, la terza ed esiziale ondate di neotelevisione (dopo il talk show e il contenitore-cornice tipo Domenica in: cfr. Menduni). In pratica, il Grande fratello («la trasmissione-elogio dell’antilinguaggio»: cfr. Beccaria, p. 102) e i cui cloni – L’isola dei famosi, La fattoria, ecc. –, col proposito di titillare la curiosità morbosa del telespettatore, fanno perno proprio sulla pubblicizzazione dell’intimità e sull’infrazione dell’interdetto, di ciò che davanti a tutti non si dovrebbe dire (o fare). Va detto che i discinti e disinibiti protagonisti del GF si trovano in una situazione che di per sé favorisce l’espressione di contenuti di tipo sessuale e scatologico: quella del gruppo costretto in ambienti chiusi (si pensi alle scolaresche e alle caserme). In una tale consorteria iniziatica «vige la legge per cui, chi non usi abbondantemente di quel linguaggio (e non tenga contemporaneamente un determinato contegno e non rispetti dati valori), non ne fa ancora parte di diritto e solo quando vi si conforma è veramente “uno dei loro”» (cfr. Galli de’ Paratesi, p. 46). Il loro turpiloquio adolescenziale – per quello che ha di spontaneo – si potrebbe considerare in parte un «gergo di tipo affettivo [...], non nato da esigenze pratiche criptolaliche, come quello che propriamente si definisce gergo, quanto piuttosto dal desiderio di saldare il gruppo con legami speciali» (ibid.). Tuttavia, va anche detto che «spesso la tv spaccia per reali modalità espressive che al parlato spontaneo fanno solo il verso», assolutizzando «unicamente la fascia dei registri e dei livelli più bassi» (cfr. Antonelli, p. 117). Ed è proprio il caso dei reality come il GF, figli di un’«esasperazione dell’iperrealismo televisivo» che ha piegato a scopi sensazionalistici lo «specchio delle lingue» del parlato teleschermico (cfr. Simone) facendone uno «specchio deformante» (cfr. Antonelli, p. 117).

Trionfo della sfera genitale

Nella stragrande maggioranza dei casi, per essere volgari in televisione ci si serve di termini colpiti da interdizione sessuale, cioè il ritegno derivato dal pudore, o scatologica, il disagio derivato da un senso di disgusto fisico (cfr. Galli de’ Paratesi, pp. 76-118). Così, per dare dello ‘sciocco’ a qualcuno si usano di preferenza termini che afferiscono alla sfera genitale, maschile e secondariamente femminile: coglione, testa di cazzo, e l’accrescitivo cazzone (cazzo prob. da *ocazzo, con discrezione dell’iniziale, cioè oco ‘maschio dell’oca’ + suff. -azzo), minchione (accr. del sicil. minchia < lat. mentula(m) + mingere), bischero (tosc., propr. ‘piolo, perno’), ecc.; ma anche fregnone (da fregna, che forse richiama il ticin. frigna ‘spaccatura della roccia da cui scaturisce l’acqua’) e l’eufemismo parafonico frescone, mona (ven., forse dal gr. bounós ‘colle, altura’), fesso (da fessa ‘vulva’, propr. ‘fessura’), ecc. (si noti che alcuni dei termini citati oggi hanno perduto la connotazione sessuale originaria). Alla bisogna tornano utili anche lessemi scatologici, come il comunissimo stronzo (dal longob. strunz), o il più analitico pezzo di merda, che comporta una risentita sfumatura di spregio (e Sgarbi lo sa). Se invece si deve esprimere una particolare dose di furbizia o abilità, adeguata a raggirare il prossimo, si ricorre al lessico dell’attività sessuale attiva: fottere, fregare, inculare, inchiappettare, ecc.; o dell’attività sessuale passiva – volgendo il tutto al participio passato – se malauguratamente, piegati dalla sorte, ci si trova dall’altra parte del manico: fottuto, fregato, inculato, ecc. (cfr. Galli de’ Paratesi, pp. 47-48 e 110). Insomma, si tratta di un lessico che ben si conosce, avendo nella lingua colloquiale un’altissima disponibilità, anche se non sempre un’altissima frequenza.

Solo il bestemmiatore va in esilio

Tuttavia, se in tv si possono tranquillamente ostentare termini tabuati relativi alla fisiologia corporea, ancora non si può essere volgari infrangendo l’interdizione magico-religiosa (per cui cfr. Galli de’ Paratesi, pp. 119-21), vale a dire che non si può bestemmiare. E questo lo sa bene Leopoldo Mastelloni, il quale per aver chiamato in causa la Beata Vergine nel corso di Blitz, programma della Rai condotto da Gianni Minà (era il 22 gennaio del 1984), ha dovuto subire un esilio mediatico lungo vent’anni. Il divieto riguarda persino i partecipanti ai reality: possono dire e fare di tutto, ma non bestemmiare, neanche a mezza bocca; anzi, la blasfemia è stata proprio una delle cause primarie della loro espulsione dal programma. Così è stato per Roberto da Crema, ovvero il famoso “baffo” delle televendite (La fattoria, 2004), per il cantautore genovese Francesco Baccini (Music Farm, 2005), per il comico Massimo Ceccherini (Isola dei famosi, 2006) e per tre o quattro concorrenti meno noti del Grande fratello; da ultimo un panettiere bergamasco, detto “il bavoso”, dal cui appellarsi all’Altissimo è conseguita una prematura esclusione dalla corrente nona edizione del programma. Dunque, sotto un profilo squisitamente censorio, lo status televisivo della bestemmia non è cambiato poi molto. Semmai, si noterà che con la real tv è venuta meno l’autoinibizione: le irrispettose imprecazioni magari vengono sanzionate, però scappano più facilmente che in passato.

La parolaccia e la satira

Un caso a parte sono i disfemismi usati nella satira e nella comicità. In questo campo la categoria di “volgarità” – così come la si intende comunemente – funziona poco. Da sempre il discorso comico e/o satirico fa leva sul linguaggio trasgressivo; strumento usato per protestare e rivoltarsi contro l’autorità o le convenzioni sociali, per scandalizzare a bella posta, per dissacrare, per rappresentare le realtà più infime e degradate, per esprimere la rabbia dell’emarginazione, oppure un senso di liberazione gioiosa. Era “volgare” Dante? («di quella sozza e scapigliata fante / che là si graffia con l’unghie merdose, / e or s’accoscia e ora è in piedi stante. / Taïde è, la puttana [...]: Inf.  xviii 130-133); e il Burchiello? («Nol trovo [scil. il pene], èssi smarrito infra la lana; /  non mi dà più mattana, / erbolaio è, non istrologa piùe, / e pisciomi fra i peli, come il bue»: son. Son diventato in questa malattia, vv. 14-17); e Folengo? e l’Aretino? e Gadda?  Direi che su questo terreno la categoria più funzionale sia quella dell’“intelligenza” (in un’intervista, Paolo Rossi – riferendosi alle sue di parolacce – dice: «Il problema non è cosa dici, ma come: io ho studiato tanto per poterle dire»: cfr. «Corriere della sera», 27 novembre 1997).

Oscenità poco comiche

Ciò che disturba di molta comicità attuale è la volgarità spalmata in superficie, priva di profondità. Si ha l’impressione che questi comici si rifugino nella parolaccia come il terzino in affanno si rifugia in corner: sono pagati per far ridere e s’attaccano dove possono ... dove è facile attaccarsi (appunto). Di fronte a un Massimo Boldi che in una tramissione di Raidue (Stupido Hotel, 2003) si traveste da Emilio Fede e mentre gioca con la bionda “Setette” (Senette/Setette ... eh!) esclama: «Getto la mia carta. Scopa!», io, di primo acchito, non penso che sia scandaloso, penso che sia cretino: non mi fa ridere. Diversamente, quando in una puntata di Fantastico condotto da Raffaella Carrà, Roberto Benigni si produsse in una tirata sulle possibilità sinonimiche per designare gli organi sessuali, femminile e maschile, mi vennero in mente due sonetti del Belli giocati proprio sullo stesso tema, Er padre de li santi e La madre de le sante (si possono leggere in Belli, risp. pp. 154 e 156). A qualcun altro, tale Augusto Di Vaia, direttore della cancelleria presso la pretura di Civitavecchia (e che probabilmente ride alle battute di Boldi), è invece venuto in mente di denunciare il comico toscano per il reato di turpiloquio: «l’iniziativa – come ha tenuto a precisare l’indignato summenzionato – non ha niente a che vedere con la funzione di cancellerie», ma è «una denuncia di un privato cittadino contro lo sconcio di una trasmissione ad uso e consumo di un linguaggio scurrile e atteggiamenti altrettanto scurrili» (cfr. «Repubblica», 23 ottobre 1991). In realtà Benigni non ha fatto altro che ricollegarsi alla tradizione dei poeti burleschi – fiorita soprattutto nel sec. XVI (si pensi a Francesco Berni e compagni) –, che sfruttavano ampiamente un linguaggio basato sull’anfibologia erotica e sull’iperbole (cfr. Longhi e Boggione-Casalegno). Poiché il «linguaggio erotico è il terreno della metafora più avventurosa» (Beccaria, p. 49), l’attore comico ci fa fare un piccolo giro guidato per campi semantici; quindi, per l’organo femminile: gattina, chitarrina, passerottina, fisarmonica, mona, crepaccia, pucchiacca, tacchina, topa, sorca, patonza, bernarda, gnocca, gnacchera, anonima sequestri, vagina e vulva (specificando che le ultime due sono da medici); per il maschile: pisello, pisellino, pistolino, pipino, con diminutivi eufemistici, e «poi quando si cresce» randello, banana, asta, verga, mazza, cetriolo, pesce, uccello, sventrapapere. Si tratta per lo più di sostituti eufemistici basati sulla metafora, il più produttivo fra gli espedienti di copertura dei termini interdetti (cfr. Galli de’ Paratesi, pp. 39-45). Si va dagli strumenti musicali (cui si potrebbe aggiungere la zampogna, la fischiarola, la piva, la trombetta, e il batacchio, il piffero, il clarinetto) agli oggetti di uso domestico (vd. anche la padella, la potta propr. ‘pignatta’, la parrucca, la pelliccia, la ventosa, e il bastone, la canna, il chiavistello, il cordone, il manganello, il manico, il mattarello, la nerchia propr. ‘bastone nodoso’, lo spiedo, il pacco), dal bestiario (vd. la vongola, la grilla, la calandra, farfalla, la tana, e il fagiano, l’anguilla, il cefalo, la biscia, il coniglio, la coda, la proboscide, la lumaca senza guscio) al settore ortofrutticolo (vd. anche la fica, la castagna, la prugna, l’insalatina, la rosa, la vigna, l’orto, e la pannocchia, la fava, la ghianda, la carota, il ravanello, la cappella, propr. ‘dei funghi’). La nostra letteratura è una miniera di traslati erotici (basti consultare Boggione-Casalegno), e nel trasferirli sul teleschermo non ci vedo nulla di male.

Assuefazione al cazzo!

Il rischio, semmai, sta sulla sponda opposta della questione, cioè nel sovradosaggio televisivo della terminologia disfemica, il cui abuso porta all’assuefazione, semplifica e impoverisce il linguaggio (cfr. Beccaria, p. 49: «colpisce [...] la povertà della varietà contemporanea rispetto alla ricchezza metaforica del passato. Si direbbe che quanto più cresce la libertà linguistica tanto più impoverisce la necessità di proporre eufemismi, sostituzioni, attenuazioni, metafore»). Il turpiloquio, non rappresentando neanche più una reazione all’inibizione comune, diventa «un riempitivo, un rumore, buono a tutte le ore e per ogni occasione», assume «un grado neutro, non comunica nulla, neppure rabbia» (cfr. Beccaria, p. 52). Quel cazzo! pronuciato da Zavattini nel lontano ’76 ebbe un effetto tellurico, e – in qualche modo – assolveva così il suo compito. Oggi cazzo!, soprattutto in virtù dell’inflazione mediatica, è l’esclamazione più comune, che – in base al tono di voce e al contesto – può significare che si è stizziti, arrabbiati, addolorati, sconfortati, delusi, perplessi, dissenzienti, consenzienti, improvvisamente non più dimentichi (con colpo di mano sulla fronte), sorpresi, stupiti, meravigliati, felici, entusiasti, esultanti, ecc.; quando addirittura non diventi una specie di intercalare del tutto desemantizzato, un tic. Manca poco che non lo si senta pronunciare anche durante le previsioni del tempo: si prevede tempo molto nuvoloso su Sardegna e Toscana con precipitazioni o rovesci sparsi più veementi sulle zone appenniniche settentrionali ... cazzo!. L’usura ha definitivamente assottigliato la parola, tant’è che le sue varianti parafoniche di copertura neanche si sentono più in giro, non ce n’è più bisogno. Ve li ricordate?: cacchio, cavolo, caspita e caspiterina, capperi e il teutonico kaiser, sembra la bigiotteria che ci ha lasciato nonna e che dopo tanti anni ritroviano in un cassetto dimenticato. D’altronde, si tratta di un fenomeno fisiologico del linguaggio: a furia di usarle anche le parolacce attenuano o smarriscono completamente la connotazione oscena d’origine (cfr. Beccaria, p. 52). Si pensi a fascino, dal lat. fascinu(m) ‘amuleto’, ma anche ‘membro virile’; oppure a pettegolo (e il derivato pettegolezzo) da ricondurre a peto (in veneto petégolo era colui che si metteva a contàr ‘raccontare’ tuti i peti de li altri). E forse ci sarà un giorno in cui cazzo! avrà la stessa pregnanza semantica di deh!, sicché nei vocabolari e nelle grammatiche dell’italiano si leggerà: cazzo inter., arc. ~ esclamazione disusata propria del linguaggio televisivo tradizionale; oggi sopravvive solo come formula di chiusura delle previsioni del tempo.

La nuova frontiera dello “scorretto”

La consunzione di buona parte del lessico disfemico sposta altrove le frontiere dell’interdizione, altrove si combatte per ciò che si può e ciò che non si può dire. Oggi la vigile ipersensibilità linguistica dei censori reagisce soprattutto al politicamente scorretto. Ci si offende non tanto per la carica oscena che la parola contiene, quanto per il suo essere rivelatrice di un atteggiamento discriminatorio, di una presunzione di superiorità sociale; e si esige sempre e comunque la delicatezza, il riguardo, la riverenza. Generato da encomiabili proponimenti, il politically correct «appare ormai in molti casi come una nuova, subdola e assai ipocrita forma di totalitarismo che rende di fatto indifendibili le posizioni di chi continua ancora a ravvisarvi la difesa della diversità e del multiculturalismo» (cfr. Arcangeli, p. 125). Quando in nome di una soffice correttezza linguistica ci si serve – poniamo in un telegiornale – di eufemismi come ottimizzazione delle dimensioni aziendali per ‘licenziamenti in massa’, beh ... si diventa decisamente offensivi. Va detto che la febbre dell’indignazione che infervora i «paladini a oltranza del politicamente corretto» – nuova «polizia del verbo» (cfr. Arcangeli, pp. 125 e 130) – va soggetta a forti sbalzi di temperatura: più bassa se il termine scorretto è pronunciato in contesti televisivi informali, più alta per le occasioni formali. Non ho statistiche sottomano, ma mi pare che parole come finocchio, frocio, recchione passino per il teleschermo senza destare troppo scandalo (anche se – in ogni caso – più di quanto ne desti il povero cazzo). Ora, non è affatto la stessa cosa, e suscita sdegno, se l’on. Mirko Tremaglia dirama un comunicato ufficiale polemico nei confronti della Comunità europea, che – secondo lui – sarebbe in mano a delle lobbies di culattoni. Perché? se avesse detto gay sarebbe stato tanto meno grave? (cfr. Arcangeli, p. 141, e Beccaria, cit., p. 51).

Onorevoli insulti

Il turpiloquio dei politici merita una trattazione a sé stante (cfr. La politica va all’insulto). Per cui mi limito qui a considerare che non solo la televisione diffonde le intemperanze verbali degli onorevoli – circostanza che, peraltro, rischia di favorire una crescita di aggressività e di intolleranza nella società civile –, ma che ne ha profondamente informato il modo di comunicare, a tal punto che «si potrebbe parlare di reality show della politica» (cfr. Gualdo-Dell’Anna, p. 25). Durante la cosiddetta Seconda Repubblica, «la mediatizzazione e la spettacolarizzazione dello scontro, hanno semplificato drasticamente il linguaggio», sicché dal politichese si è passati al gentese (ibid.). Tra le forme della semplicità rientra appunto l’aggressività verbale: ormai, «apostrofare l’avversario con parolacce e insulti rientra nell’irriducibile diritto di critica e denuncia dei parlamentari eletti dal popolo; così ha stabilito, ai primi di febbraio 2004, una delibera della Camera» (Gualdo-Dell’Anna, p. 26). E pare che per il presidente del consiglio il diritto si estenda anche agli elettori, che egli ha piena facoltà di insultare qualora non siano intenzionati a votarlo, nella fattispecie (Vicenza, aprile 2006, convegno di Confcommercio) chiamandoli «coglioni» (sic! Berlusconi) dall’alto del suo pulpito; un po’ come Sid Vicious che dal palco sputava sul pubblico accorso ai suoi concerti.

Guccini allo Zecchino d’oro

I costumi cambiano e con essi le abitudini linguistiche. Il ruolo giocato dalla televisione in questo mutamento antropologico è stato decisivo e potentissimo. Le parole che una volta – venti o trent’anni fa – erano proibite, oggi lo sono un po’ meno o non lo sono affatto. Forse qualcosa si è perso. Ricordo che da ragazzini per ascoltare l’Avvelenata di Francesco Guccini ci appartavamo col mangianastri in luoghi fuori dalla portata dei grandi; uno dava il play e tutti stavamo lì ad aspettare i momenti clou, le parolacce:  questa gloria da stronzi ... e un cazzo in culo ...  sempre più trepidanti godo molto di più nell’ubriacarmi oppure a masturbarmi o, al limite, a scopare ...  ci guardiamo con la faccetta furba, le soppracciglia alzate e le dita sulle labbra, come a dire “certo che l’abbiamo sentita grossa” ...  io stronzo ... io frocio  ...  lo sappiamo quando arrivano ... comprate il mio didietro ...  i coglioni ... ma la botta di stupore c’è comunque ... sparare cazzate ... soddisfazione e imbarazzo ...  ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto ... il nastro fruscia e noi ci sentiamo sazî di trasgressione. Ecco, penso che quell’esperienza – come altre simili – abbia avuto una valore formativo, che sia stata una sorta di iniziazione emotiva. Oggi l’Avvelenata potrebbe cantarla anche un bimbetto allo Zecchino d’oro sotto gli occhi rassicuranti del mago Zurlì ... ma esiste ancora lo Zecchino d’oro?

Testi citati

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*Marcello Ravesi è stato redattore unico dei 9 volumi (1995-2000) della Storia della Letteratura Italiana_, diretta da E. Malato (Roma, Salerno Editrice), e segretario di redazione della rivista «Filologia e Critica» (1997-2000). Per la_ Storia della Letteratura della Salerno Editrice ha collaborato con Giorgio Stabile alla stesura del capitolo L’autunno del Medioevo (in Dalle origini a Dante_, vol. I, 1995), ha contribuito alla stesura della trattazione_ Discussioni sulla lingua e sulla norma linguistica. Grammatici e lessicografi_, inserita nel saggio di Luca Serianni,_ La lingua italiana dal cosmopolitismo alla coscienza nazionale (in Il Settecento_, vol. VI, 1998),_ ed è stato autore (con Luigi Reina) del capitolo Le letterature dialettali (in Il Novecento_, vol. IX , 2000). Ha continuato a dedicarsi alla letteratura dialettale con il contributo_ Dentro a mmillanta Rome_, dedicato alle poesie in romanesco di Mauro Marè (in «il 996. Rivista del Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli», 2004). Attualmente è in corso di stampa il suo articolo_ Metafore del ‘Libro’ nella lauda 27 (Roma, Bulzoni) per gli atti del convegno Iacopone poeta (Todi-Stroncone 10-11 sett. 2005); sta preparando una relazione su La lingua del laudario Oliveriano per il Convegno internazionale La vita e l’opera di Iacopone da Todi (Todi, 3-7 dicembre 2006); sta curando la trascrizione del cod. Oliveriano 4 in vista dell’ed. critica del “Laudario” iacoponico a cura di Lino Leonardi.