di Michele Cortelazzo*

È indubbio che l’attuale legislatura segni, nella composizione delle due Camere, una forte discontinuità con le legislature precedenti. La maggior parte di deputati e senatori sono alla prima esperienza parlamentare (il 69,12 % della Camera, il 60,50% del Senato; nella legislatura precedente i deputati neoeletti erano il 50,08%, i senatori solo il 35,55%). In particolare, il secondo gruppo parlamentare più numeroso, il MoVimento Cinque Stelle, è totalmente nuovo alla vita politica nazionale e sostanzialmente la totalità dei suoi componenti è nuova alla vita politica tout court.

In coerenza con questo processo di rinnovamento, le attuali maggiori cariche dello Stato, con l’eccezione del presidente della Repubblica, non hanno precedenti esperienze politiche, almeno a livello nazionale. I presidenti di Camera e Senato sono alla loro prima legislatura (la stessa cosa era avvenuta, in tempi recenti, solo nel 1994 con Pivetti e Scognamiglio), l’attuale presidente del Consiglio dei Ministri (ma non il suo predecessore) non solo è alla prima esperienza di governo nazionale, ma non è mai stato né è parlamentare (altra similitudine con il 1994, quando Berlusconi, privo di esperienza politica, era però deputato; non era parlamentare né aveva esperienze precedenti in ambito politico, stricto sensu, Carlo Azeglio Ciampi, quando fu fatto presidente del consiglio nel 1993, ma si trattava di un governo “tecnico”).

Analogie con il 1994. E assestamenti comunicativi

Per diverse ragioni, quindi, si può avanzare l’ipotesi che la XVII legislatura possa costituire uno spartiacque tra una forma di comunicazione politica, quella che ha caratterizzato il ventennio precedente e un’altra. Ci stiamo trovando in una situazione analoga a quella del 1994, quando lo slogan, allora emergente, del “nuovo che avanza”, poteva essere, almeno in parte, esteso anche alle forme linguistiche maggiormente diffuse nella comunicazione politica?

Dalle ultime elezioni, nella comunicazione politica si sono affermate, o riassestate, le seguenti tendenze:

a) un’estensione della spettacolarizzazione e della personalizzazione della politica, con conseguente ulteriore trasferimento nella politica di forme della comunicazione dello spettacolo. È inevitabile pensare all’assunzione di un ruolo politico da parte di Beppe Grillo, alla quale non è corrisposto, almeno nel campo dell’oralità, un sensibile mutamento dei codici espressivi. Ma anche l’atteggiamento comunicativo dell’attuale presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi, ha portato a un’accentuazione dei modi comunicativi propri dello spettacolo, a cominciare dall’abitudine, anche in situazioni formali e istituzionali, di parlare a braccio, sia pure in base a un copione attentamente studiato. Ma si pensi anche ad aspetti di comunicazione non verbale, come il recupero e la “specializzazione” della camicia bianca, il cui uso dà un’immediata riconoscibilità visiva del presidente del Consiglio dei ministri;

b) un sempre più ampio ricorso ai nuovi generi testuali, dal blog al tweet, con sviluppo soprattutto di quest’ultimo e, di conseguenza, con la propensione, del tutto inusuale nella tradizione della comunicazione politica, per la brevità (con tutti gli equivoci e le illusioni del caso);

c) un’estensione di nuovi modi di realizzazione delle dichiarazioni dei partiti politici nei telegiornali, secondo quelle che potremmo definire «dichiarazioni modello venti secondi» o «dichiarazioni modello Bonaiuti». Si tratta di questo: un esponente di un partito, in genere indicato dal partito stesso, «recita» due o tre frasi assertive, dette a memoria (come documentano alcune riprese televisive di dichiarazioni ripetute identiche più volte per ragioni tecniche), con sguardo in genere privo di espressione. Anche qui andiamo in direzione della brevità, forse ancora più equivoca che nel caso precedente;

d) il ritorno al turpiloquio e all'invettiva, soprattutto nell’area del MoVimento Cinque Stelle e ad opera del suo fondatore Beppe Grillo. In Grillo, questa scelta non ha tanto la funzione di rispecchiamento delle predilezioni linguistiche dei suoi destinatari, quanto un’accorta rappresentazione lessicale di precise tendenze della propaganda populista, come ha mostrato Stefano Ondelli;

e) la “manomissione delle parole” di cui ha parlato, in termini in parte diversi da quelli che uso io, Massimo Nava nel «Corriere della Sera» del 13 novembre 2014. Basti pensare alla nebulosità concettuale che deriva dalla scelta dell’anglicismo nel caso del jobs act, o dell’ascrivibilità alla tradizione del politichese della denominazione contratto a tutele crescenti;

f) la forte tendenza del Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, a innovare anche nel campo dei discorsi istituzionali. Il suo discorso programmatico (quello con cui ha chiesto la fiducia) mostra affinità con i discorsi dei presidenti che l’hanno preceduto, a partire dalla svolta del 1994, ma, all’interno di questo insieme, mostra un alto grado di autonomia e di innovazione. Lo si deduce anche da quelle che sono le sue parole specifiche (quelle, cioè, che nel suo discorso hanno una ricorrenza significativamente più alta rispetto ai predecessori): vi sono poche parole politiche, o che assumono un senso politico in quanto legate alle urgenze del momento (province, semestre, europeo, legge elettorale, elezioni, dibattito politico, regole del gioco, interesse nazionale, fiducia, in senso tecnico-parlamentare, oltre a parole più tradizionali, tra le quali partito, parola che sembra risorgere dopo un lungo periodo di quasi oblio, e a un nucleo di parole che fanno riferimento alla scuola, uno dei centri programmatici del suo discorso: scuole, insegnanti, edilizia scolastica). Sono più interessanti altre parole, più vicine al lessico comune, che danno la misura della colloquialità e dell’empatia che Renzi ha voluto dare al suo discorso: i pronomi personali voi e, soprattutto, noi (che si accompagna a numerosi verbi flessi alla prima persona plurale, abbiamo, possiamo, viviamo,immaginiamo), gli avverbi semplicemente e perfettamente, parole che richiamano emozioni (lo stesso immaginare, e poi paura, fiducia, in senso generale) o principi (credibilità, valori).

Una “terza repubblica” linguistica?

Tutto questo ci induce a dire che si sta formando, almeno linguisticamente, una “terza repubblica”? Direi di no. La “manomissione delle parole” è quanto di più vecchio ci sia nel linguaggio politico. Il ricorso al turpiloquio e all’invettiva non è che un ritorno a universale del discorso polemico (si noti, però, che manca l’ingiuria politica: solo raramente si lanciano all’avversario epiteti, ritenuti denigratori, come fascista o comunista). Spettacolarizzazione, personalizzazione e nuove modalità di costruzione delle dichiarazioni politiche erano già presenti nelle legislature precedenti: qui, semmai, l’elemento di novità è che questi strumenti comunicativi, un tempo connotati come caratteristici della destra, si sono estesi a molti esponenti del Partito democratico, a cominciare dal suo segretario. Il ricorso a nuovi mezzi di comunicazione (per lo più brachilogica), questo sì sembra caratterizzare specificamente questa fase politica, ma non è altro che conseguenza dello sviluppo di nuove tecnologie e nuovi mezzi di comunicazione maturato proprio in questi ultimi anni.

A questo punto, l’unico elemento caratterizzato da effettiva novità pare essere l’oratoria del Presidente del Consiglio, questa sì caratterizzata da innovatività, sia nella configurazione lessicale e sintattica, sia nelle modalità di esecuzione linguistica, sia nel più generale comportamento comunicativo (prossemica, gestualità, abbigliamento, apparente improvvisazione).

*Michele A. Cortelazzo (Padova, 1952), allievo di Gianfranco Folena, è professore ordinario per il settore “Linguistica italiana” all’Università di Padova. Ha insegnato anche nelle università di Saarbrücken, Innsbruck, Venezia, Trieste, Ferrara, Fiume. Il linguaggio amministrativo, quello giuridico e quello istituzionale sono stati, negli ultimi anni, i temi principali della sua ricerca: con Federica Pellegrino ha scritto una Guida alla scrittura istituzionale (Roma-Bari, Laterza, 2003) e con Chiara Di Benedetto e Matteo Viale ha coordinato la "traduzione in italiano" del manuale di "Istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione" (Padova, Cleup, 2008). Fa parte della REI, Rete per l’eccellenza dell′italiano istituzionale_, promossa dalla Direzione Generale della Traduzione della Commissione Europea (di cui presiede ora il Comitato scientifico). Ha curato con Arjuna Tuzzi il volume_ Messaggi dal Colle. I discorsi di fine anno dei presidenti della Repubblica, Venezia, Marsilio, 2007, e, con Francesca Gambarotto, Parole, economia, storia. I discorsi dei presidenti di Confindustria dal 1945 al 2011, Venezia, Marsilio, 2013.