di Valeria Della Valle*

Sugli scrittori italiani contemporanei i critici hanno riversato, nel corso del tempo, accuse di tutti i tipi: l’uso di una lingua di plastica, l’ eccessiva seriosità, la mancanza di follia e di trasgressione rispetto alle regole, fino all’etichetta di letteratura-intrattenimento. Nessuno, però, neanche tra i linguisti, ha mai rimproverato agli scrittori, soprattutto ai più giovani, il vizio che invece viene continuamente e giustamente rinfacciato agli italiani (anche in una petizione come #dilloinitaliano, che ha raccolto più di 70.000 adesioni): l’uso smodato di anglicismi, l’esibizione continua di parole ed espressioni inglesi per esprimere concetti per i quali esistono le parole e le espressioni italiane corrispondenti. Questo vuol dire che gli scrittori italiani, anche i più trasgressivi, diventano nei loro romanzi più puristi dell’abate Cesari? Per verificarlo, ho fatto una veloce indagine sulle opere di narrativa pubblicate negli ultimi dieci anni, dal 2006 al 2016, da alcuni degli autori più letti, limitando la ricognizione a un romanzo per ognuno.

Ammaniti senza anglicismi

In Come Dio comanda Niccolò Ammaniti (2006) non ricorre praticamente mai ad anglicismi. In Mare delle verità di Andrea De Carlo (2006) i personaggi dicono spesso okay okay, salgono su pickup, mangiano pancake, attendono nella reception, hanno sguardi da killer e sogni da weekend, ma si tratta solo di pochi mimetismi linguistici per riprodurre la realtà sociale nella quale si muovono i protagonisti del romanzo. Anche Roberto Giordano nella Solitudine dei numeri primi (2008) si limita a un unico prelievo, la formula okay inserita come tic linguistico nei dialoghi di Alice e Mattia. Edoardo Nesi in Storia della mia gente (2010) limita l’uso di anglicismi a espressioni indispensabili e difficilmente traducibili, evidenziate dal corsivo: summer sessions, band, death metal, no-profit. Silvia Avallone in Acciaio (2010), pur rappresentando una realtà giovanile, non ricorre mai a un parlato in cui affiorino parole o espressioni inglesi.

Il prìvy di Pennacchi

Antonio Pennacchi in Canale Mussolini (2010) si limita a pochi termini intraducibili come wasp e speaker, e riproduce con prìvy uno pseudoanglicismo entrato nel lessico familiare dei Peruzzi per indicare il ‘cesso sul pozzo nero nei poderi’. La quota di anglicismi sale notevolmente in Inseparabili di Alessandro Piperno (2012), che affastella volutamente nelle prime pagine single, trash, groupie, outsider, show business, gate, stalking per evocare il consumismo anche linguistico dell’ambiente descritto. In Resistere non serve a niente (2012), Walter Siti si serve di espressioni inglesi come primary, ambient, step, wedding party per caricaturizzare gli aspetti grotteschi di un certo linguaggio da arricchiti, o di espressioni del mondo della finanza come hedge fund, yesmen, put, credit default swap, commodity. Francesco Piccolo in Il desiderio di essere come tutti (2013) sta alla larga dal gusto per gli anglicismi esibito, invece, da tutti gli italiani. In Sei come sei di Melania Mazzucco (2013) s’incontrano solo rarissimi parole inglesi ormai non più avvertite come tali, bomber e shopping, e l’ibrido participio passato photoshoppato.

Veronesi sfrutta espressioni abusate

Sandro Veronesi in Terre rare (2014) sfrutta espressioni abusate e di moda come status symbol, celebrity; jet set, e perfino retractable company (segnalandoli spesso in corsivo), ma per il resto usa termini come display e desk, tecnicismi internazionali che hanno quasi perso la connotazione di forestierismi. Nessun anglicismo nella misteriosa Elena Ferrante autrice della Storia della bambina perduta (2014), e altrettanto restio all’uso di termini angloamericani il romanzo La ferocia di Nicola Lagioia (2014), che ricorre solo, in apertura, all’immagine di uno sky dancer che tradotto “omino gonfiabile” non avrebbe ottenuto lo stesso suggestivo effetto evocativo. Mauro Covacich in La sposa (2014) sottolinea in modo marcato l’estraneità di termini come card, restyling, chillout, badge, chip, energy-drink, casting. Fabio Genovesi in Chi manda le onde (2015), rappresenta con grande capacità i dialoghi dei ragazzi fortemarmini, ma non sono riuscita a sentir pronunciare da loro neppure un termine che non fosse italiano.

Manzini: il giallo all'italiano

Il brevetto del geco di Tiziano Scarpa (2015) non cambia il quadro d’insieme, perché l’autore si esercita in creazioni lessicali tutte italiane; vana la ricerca di anglicismi nella prosa ricca e linguisticamente creativa di Giordano Meacci, di cui è appena apparso Il cinghiale che uccise Liberty Valance (2016). Come ultima speranza, ho sfogliato avidamente la trilogia poliziottesca di Antonio Manzini, pubblicata tra il 2013 e il 2015, ma con scarsi risultati: neppure nella fortunata saga del commissario (anzi, del vicequestore) Rocco Schiavone s’incontrano anglicismi.

Un'immagine confortante

Da questo veloce sondaggio emerge l’immagine di una prosa che rifugge dall’uso di termini angloamericani, ai quali ricorre solo a fini espressivi, per riprodurre i vezzi linguistici di un personaggio o di un ambiente. Immagine confortante, molto lontana da quella della lingua della stampa, nella quale, sul versante opposto, si registra una quota di anglicismi che si aggira ogni anno intorno al 12-14%, con un’impennata negli ultimi tre-quattro anni (ricavo i dati dagli spogli dell’Onli, Osservatorio neologico della lingua italiana-Iliesi C.N.R) Forse, per rintracciare presenze della lingua inglese nella lingua usata dagli scrittori italiani bisognerebbe scavare più a fondo, estendendo la ricognizione dal lessico alle strutture del periodo, per verificare se esistano casi di imitazione delle strutture della lingua inglese sul piano sintattico.

*Valeria Della Valle ha insegnato Linguistica italiana alla Sapienza Università di Roma. Oltre a saggi sugli antichi testi toscani, sulla storia della lessicografia, sulla terminologia dell’arte, sulla lingua della narrativa contemporanea, ha pubblicato, insieme a Giovanni Adamo (con il quale dirige l’Osservatorio neologico della lingua italiana ILIESI-CNR), i volumi Neologismi quotidiani (Olschki 2003); 2006 Parole nuove (Sperling & Kupfer 2005); Neologismi. Parole nuove dai giornali (Istituto della Enciclopedia Italiana, 2008). Coordinatrice scientifica del Vocabolario Treccani (2008). Con Giuseppe Patota ha scritto numerose guide all’uso corretto e appropriato dell’italiano: Il Salvalingua (1995); Il Salvatema (1996); Il Salvastile (1997); Il Salvaitaliano (2000); Le parole giuste (2004); L’italiano. Biografia di una lingua (2006); Il nuovo salvalingua (2007); Viva il congiuntivo! Come e quando usarlo senza sbagliare (2009); Ciliegie o ciliegie? e altri 2406 dubbi della lingua italiana (2012); Piuttosto che. Le cose da non dire, gli errori da non fare_; e, per ultimi,_ L’italiano in gioco (tutti per i tipi di Sperling & Kupfer); Viva la grammatica! La guida più facile e divertente per parlare e scrivere in buon italiano (2015, nuova edizione aggiornata). Nel 2014 ha scritto soggetto e testo del documentario Me ne frego! Il fascismo e la lingua italiana, regia di Vanni Gandolfo, prodotto da Istituto Luce – Cinecittà e presentato nello “Spazio Luce” della 71a edizione della Mostra internazionale dell'arte cinematografica di Venezia. Nel corso degli anni ha pubblicato insieme a Luca Serianni e Giuseppe Patota varie grammatiche destinate alle scuole superiori. Le ultime due, Il bello dell’italiano e Italiano plurale sono state pubblicate da Bruno Mondadori Pearson nel 2015 e nel 2016.

Immagine: Finale Premio Chiara 2012. Da sinistra: Niccolò Ammaniti, Sandro Veronesi, Dario Galli e Pino Cacucci

Crediti immagine: Associazione Amici di Piero Chiara [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)]