di Giuseppe Polimeni*

**La duplice anima

**Il Medioevo si sveglia agli albori della nuova civiltà occidentale con una gran sete, la sete di vino. Il precedente era evangelico, quel «vinum non habent», con cui Maria chiede il miracolo al figlio durante le nozze di Cana. Cristo trasforma l’acqua in vino – ottimo all’assaggio –, e, contro le consuetudini del tempo, fa in modo che lo sposo offra il prodotto migliore nella seconda parte del convito. Il ricordo di quell’episodio purtroppo non placa, anzi alimenta nei secoli la sete di vino.
Se, come scrive Carlo Maria Cipolla, «in tutte le forme di migrazione umana, vi sono forze di attrazione e di spinta» e «il pepe fu certamente la forza di attrazione; il vino fu la forza di spinta», il vino sostiene l’uomo nella spedizione e in battaglia, ma soprattutto nel lavoro quotidiano. Alimento ricco di calorie, compare sulla mensa di chi lavora per il monastero o per il signore: ecco allora che i documenti latini menzionano, ma purtroppo senza alludere a sensazioni visive e gustolfattive, il «laborare ad unum panem et unum vinum» e i pagamenti «in pane et in vino». La sete di vino affiora poi nei documenti e nelle formule volgari, dal conto navale pisano, che registra un’uscita per amschere (forse da miscere) e per il vino degli operai, impegnati ad allestire la galea, alle testimonianze di Travale («Io de presi pane e vino per li maccioni a Travale»).
Non poteva mancare il contributo della scienza, a chiarire ciò che l’esperienza aveva provato da secoli: se il vinum richiama le vene, e quindi il sangue («Vinum inde dictum quod eius potus venas sanguine cito repleat»), i libri dei medici, e tra questi il Serapiom carrarese, mettono in guardia sulla duplice anima della bevanda («Diascoride dixe che el vino nuoxe ai nervi e a li sentimenti»).

**In Boccaccio la prima degustazione

**Per il fatto che nasce in modo misterioso dall’acqua e dal calore del sole che si fondono nell’uva, il vino possiede un potere assoluto sulla vita degli uomini, riconosciuto nelle prescrizioni monastiche medievali, fin dalla regola di San Benedetto («vel hoc consentiamus ut non usque ad satietatem bibamus, sed parcius, quia vinum apostatare facit etiam sapientes»). Complici la scienza e i precetti, nel Medioevo il tempo e lo spazio per la degustazione risultano sorvegliati; nelle pieghe dei testi, e in controluce, si potrà però per la prima volta ascoltare la voce del vino e scoprire aggettivi degni di memoria: l’anonimo genovese ad esempio, mettendo in guardia il lettore, ci ricorda che il potere del vino sta nelle forme tanto invitanti, che, non a caso, tentano l’uomo a partire dagli occhi: «viande leche e vin lucenti, / che renden li omi pur parlenti».
Tra le colpe da scontare non manca allora il vizio della gola, che nella Commedia di Dante è collegato al vino nel ritratto di papa Martino IV: «dal Torso fu, e purga per digiuno / l’anguille di Bolsena e la vernaccia» (Pg XXIV, 19-24). E l’Ottimo, chiosando il passo, ci propone uno dei più riusciti abbinamenti vino-cibo della nostra storia gastronomica: «Dicesi che costui fu molto vizioso di questo peccato, massimamente come dice il testo, circa l’anguille del lago di Bolsena, facendole morire nel vino della vernaccia».
La gerarchia sensoriale dei vini, in nuce nell’episodio delle nozze di Cana, filtra insieme al vino nella storia comunale, con una potenza sottile che, se pure non mette in discussione l’assetto sociale, offre occasioni per superarlo. Nella novella di Cisti fornaio e messer Geri Spina (Decameron VI, 29), la cortesia, virtù ormai travasata alla tavola comunale, spinge Cisti, «d’altissimo animo fornito» ma che «la fortuna fece fornaio», a dar da bere a messer Geri «del suo buon vin bianco». L’invito è affidato a un rito e a un gesto («poi che una volta o due spurgato s’era»), che appartengono al mondo del fornaio, ma sortiscono l’effetto voluto, fino a far chiedere “com’è, Cisti? è buono?” («La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza: «Chente è, Cisti? è buono?». Cisti, levato prestamente in piè, rispose: «Messer sì, ma quanto non vi potre’ io dare a intendere, se voi non assaggiaste»).
In questa, che è davvero la prima degustazione della storia della nostra lingua, il vino non è troppo abbondante, è sufficiente gustarne un sorso. Il verbo assaggiare è raccolto in presa diretta dalla bocca di chi parla e di chi beve, perché, come ricorda Uguccione, «gustare est libare, quod vulgo dicitur assaiare».

**Machiavelli e il “vendemmial negotio”

**Ecco che il verbo si innalza a verbo del vino, anzi del buon vino, e sancisce il ponte tra due universi sociali racchiusi nel mondo del comune. Dalla strada l’azione si sposta al «magnifico convito», dove non potendo essere presente il fornaio, si farà ricorso alla voce di interposta persona: il vino, appunto («Impose adunque messer Geri a uno de’ suoi famigliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo bicchier per uomo desse alle prime mense»). «Alle prime mense», come nel Vangelo di Giovanni, si offre il vino migliore, ma solo mezzo bicchiere, dal momento che non è un «vin da famiglia»; al rito non sono infatti ammessi i famigli, esclusi dall’«assaggiare» e di conseguenza dal comprendere con gli «occhi dell’intelletto» la battuta e la complicità di Cisti e di Geri.
Di anno in anno, di vendemmia in vendemmia, il Cinquecento si apre per la storia della lingua con le pagine del dibattito, in cui entra la voce del Machiavelli, impegnato sui colli di San Casciano («in forma che, restando la lite indecisa, m’è parso in questo mio vendemmial negotio scrivervi largamente quello che io ne senta»).

**Montepulciano d’ogni vino è il re

**Di convito in convito, Firenze resta, oltre che patria della lingua, anche casa di una lingua per gli assaggi. Già nel 1502, nel corso di un banchetto per la libertà ritrovata, voluto da Pier Soderini, ecco farsi avanti un riuscito accostamento vino-cibo («E preziosi vini eron secondo / che richiedevan sempre le vivande / trebbian gentile, leggiadro, brusco e tondo», in cui la coppia di aggettivi sembra testimoniare un equilibrio delle sensazioni gustolfattive), gettando un ponte verso le degustazioni a venire («e se Adrianna ad sorte in quelle bande / fosse venuta al convito giocondo / di Bacco avrebbe avuto dolor grande / ch’era venuto a sì magno apparecchio / trasmutato in più forme e sempre d’occhi»).
Proprio a Firenze infatti, sulla scia di questa suggestione, ecco gli indimenticabili versi di Francesco Redi, che nel ditirambo Bacco in Toscana, nel 1685 affida agli amici Accademici della Crusca un ricco ventaglio di parole, in cui si riflettono il «cotanto sdolcinato, / sì smaccato, / scolorito, snervatello / Pisciarello di Bracciano», come «quel d’Aversa acido Asprino, / che non so s’è agresto o vino», fino alla «preziosa / odorosa, / l’ambra liquida cretense», che però «tropp’alta ed orgogliosa / la mia sete mai non spense / ed è vinta in leggiadria dall’etrusca Malvagìa», senza dimenticare i vini che colpiscono gli occhi e non soddisfano il palato («quel vermigliuzzo, / brillantuzzo, / fa superbo l’Aretino che lo alleva in Tregozzano / e tra’ sassi di Giaggiano»), per concludere, da buon toscano, «Montepulciano d’ogni vino è il Re».

**Dal vermigliuzzo agli chateaux

**Esiste una voce del vino che parla una lingua tutta italiana, dal Cinque al Settecento: in essa trova espressione una storia di colture e di gastronomia, che appartiene, come i vitigni autoctoni, a un’identità nazionale e che permane nella letteratura, così come sulla tavola.
Le frontiere della civiltà europea, aperte nel Settecento dall’Enciclopedia e poi nell’Ottocento da una nuova cultura del vino e del commercio del vino, venuta anch’essa dalla Francia, richiedono che il prodotto italiano si confronti con l’esperienza degli chateaux.
Il campo, quello della lingua, oltre che del mercato, impone che un lessico tanto vario, che la tradizione ci consegna nei testi letterari, debba trovare un punto di contatto con il mondo d’Oltralpe. Viene così messo a punto in Italia il lessico della sommellerie, quando negli anni Settanta del Novecento, analogamente alla scelta e alla selezione di una norma linguistica, è necessario fissare un’espressione standard che garantisca una possibilità di descrivere il vino come si farebbe con un testo.
La soluzione è quella di costruire una scala di aggettivi, che per esprimere le singole sensazioni, per dare voce e parola al vino, recuperi la tradizionale gerarchia dell’assaggio e al contempo offra a tutti la possibilità di far parlare ciò che si assaggia. La scala visiva e quella gustolfattiva vanno oggi accompagnate la scala uditiva, quei suoni del vino che Davide Oltolini invita a riconoscere e a descrivere fin dalla stappatura.
La voce del vino ha finalmente trovato un posto nella lingua, con la possibilità per ciascuno di far proprio un lessico, ma anche con l’impegno a raccontare una storia personale di assaggi, perché la domanda resta sempre la stessa: «Chente è Cisti? è buono?».

**Riferimenti bibliografici

**Carlo M. Cipolla, Allegro ma non troppo, Bologna, Il mulino, 1988.
Yann Grappe, Sulle tracce del gusto. Storia e cultura del vino nel Medioevo, traduzione di Carlo De Nonno, Roma-Bari, Laterza, 2006.
Erasmo Leso, Sulle parole del vino, in Studi in onore di Pier Vincenzo Mengaldo per i suoi settant’anni, a cura degli allievi padovani, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2007, II, pp. 1829-1843.
Massimo Montanari, Convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola dall’antichità al Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1989.
Massimo Montanari, Nuovo Convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola nell’età moderna, Roma-Bari, Laterza, 1991.

*Giuseppe Polimeni è ricercatore di Storia della lingua italiana all’Università di Pavia. Si occupa di testi lombardi delle origini, dei classici nella scuola dell’Ottocento. Sta curando l’edizione della Cronica extravagans di Galvano Fiamma e l’edizione dell’Ottimo commento alla Commedia di Dante (Paradiso).