Qual primo antico sia ch’Amor dipinse

LEON BATTISTA ALBERTI

       

       Qual primo antico sia ch’Amor dipinse
       nudo, fanciullo, con l’ale ventose,
       non ebbe mani ben maravigliose?
       E dolce agli occhi poi quel velo accinse.
5        Certo ch’Amor costui troppo ben finse,
       e vide amanti mai potere ascose
       tener sue voglie giovinili, e•ppose
       che•llume in lui di ragione mai vinse.
       Diedegli strali, e face in mano, ed arco,
10      col qual da•llunge e d’ascoso ferisce;
       tien dolce piaga al cor, merore eterno;
       sforza chi il fugge, e chi il segue nutrisce
       di speme incerta; e mai lo sofra scarco
       d’infiniti sospetti e nuovo scherno.


Parafrasi

Colui, chiunque sia stato, che ha rappresentato Amore come un fanciullo nudo, con le ali piene di vento, non ha forse avuto mani meravigliose? E poi gli ha bendato gli occhi con un dolce velo. Certamente costui ha dipinto Amore anche troppo bene, e ha visto che i giovani innamorati non sono mai riusciti a tener nascoste le proprie passioni, e ha deciso che il lume della ragione non potesse mai avere la meglio. Gli ha dato le frecce, una fiaccola in mano, e l’arco con il quale, di nascosto, ferisce a distanza; mantiene nel cuore una dolce ferita, una sofferenza senza fine; fa violenza a chi cerca di sfuggirgli, e nutre chi lo segue con una speranza senza certezze; e non sopporta mai che (l’innamorato) sia libero da infiniti sospetti e da una sempre rinnovata sensazione d’essere beffato.

Commento

Il sonetto, dalle Rime, è in gran parte la traduzione da Quicumque ille fuit, puerum qui pinxit Amorem di Properzio (II, 12), arricchita di echi virgiliani e petrarcheschi: un esercizio umanistico che tende a mostrare come sia possibile, e auspicabile, ricostruire una lingua, non popolare ma aristocratica, che possa, ricuperando i contenuti della classicità, fondare il modello di un volgare che sappia rivitalizzarne la dignità e il magistero. L’intento, benché nobile, non può dirsi raggiunto; e peraltro la storia mostrerà che l’orientamento della lingua poetica italiana, sotto la guida inflessibile di Pietro Bembo, è completamente condizionato dall’imitazione del Petrarca per la poesia e del Boccaccio per la prosa.
LEON BATTISTA ALBERTI

LEON BATTISTA ALBERTI

Leon Battista Alberti (Genova 1404 - Roma 1472), di famiglia illustre, figlio di un esule fiorentino, studia a Padova e a Bologna, laureandosi in diritto canonico, e vive soprattutto a Roma e a Firenze come “abbreviatore” presso la cancelleria papale, viaggiando per l’Europa. Umanista di larghissima cultura, interessato a tutte le arti e le scienze, è fra i maggiori architetti italiani, con opere decisive per i successivi sviluppi dell’architettura del Rinascimento (tra queste, il palazzo Rucellai e la facciata di Santa Maria Novella a Firenze, San Sebastiano e Sant’Andrea a Mantova, il tempio Malatestiano a Rimini). Tra le opere letterarie sono la commedia giovanile Philodoxeos fabula (1424), il De pictura, in latino e in italiano (1435), il romanzo satirico Momus o De principe (1443-50), i dialoghi in latino Intercenales (1440), i trattati Della famiglia (4 libri, 1433-41) e De iciarchia (3 libri, 1468), i 10 libri del De re edificatoria (in latino, 1450). Le sue Rime sparse comprendono sonetti, egloghe ed elegie, ispirate alla poesia latina.

Scelta, parafrasi, commento e note bio-bibliografiche a cura di Gigi Cavalli