Già mai non mi [ri]conforto

RINALDO D'AQUINO

       

       Già mai non mi [ri]conforto
       né mi voglio ralegrare.
       Le navi son giunte a porto
       e [or] vogliono colare.
5        Vassene lo più gente
       in terra d’oltramare
       ed io, lassa dolente,
       como deggio fare?
       Vassene in altra contrata
10      e no lo mi manda a dire
       ed io rimagno ingannata:
       tanti sono li sospire
       che mi fanno gran guerra
       la notte co la dia,
15      né ’n celo ned in terra
       non mi par ch’io sia.
       Santus, santus, [santus] Deo
       che ’n la Vergine venisti,
       salva e guarda l’amor meo,
20      poi da me lo dipartisti.
       Oit alta potestade
       temuta e dotata,
       la mia dolze amistade
       ti sia racomandata!
25      La croce salva la gente
       e me face disvïare,
       la croce mi fa dolente
       e non mi val Dio pregare.
       Oi croce pellegrina,
30      perché m’hai sì distrutta?
       Oimè, lassa tapina,
       chi ardo e ’ncendo tut[t]a!
       Lo ’mperadore con pace
       tut[t]o l[o] mondo mantene
35      ed a me[ve] guerra face,
       ché m'à tolta la mia spene.
       Oit alta potestate
       temuta e dottata,
       la mia dolze amistate
40      vi sia racomandata!
       Quando la croce pigliao,
       certo no lo mi pensai,
       quelli che tanto m’amao
       ed i’llui tanto amai,
45      ch’i’ ne füi bat[t]uta
       e messa in pregionia
       e in celata tenuta
       per la vita mia!
       Le navi sono a le colle,
50      - in bonor possan andare -
       con elle la mia amistate
       e la gente che v’à andare.
       [Oi] padre crïatore,
       a porto le conduce
55      ché vanno a servidore
       de la santa croce.
       Però ti prego, Duccetto,
       [tu] che sai la pena mia,
       che me ne face un sonetto
60      e mandilo in Soria.
       Ch’io non posso abentare
       [la] notte né [la] dia:
       in terra d’oltremare
       sta la vita mia!


Parafrasi

Ormai non mi consolo e non voglio stare allegra. Le navi sono in porto e stanno per salpare (tirare le corde [colle] per issare le vele). L’uomo più nobile se ne va in Terrasanta e io, povera infelice, che farò? Lui se ne va in un altro paese senza dirmelo e io resto delusa: sono tanti i sospiri che non mi danno pace notte e giorno, mi sembra di non stare né in cielo né in terra. Santo, santo, santo Iddio, che ti sei incarnato nella Vergine, salva e proteggi il mio amore, dato che l’hai separato da me. Oh sommo potere, che incuti timore e paura, raccomando a te il mio dolce amico! La croce salva la gente e allontana me dalla retta via, la croce mi rende infelice e pregare Iddio non mi serve. Oh croce dei pellegrini, perché mi hai tanto annientata? Oh, misera infelice, che ardo e brucio tutta! L’imperatore tiene in pace il mondo intero e fa la guerra a me, cui ha tolto la mia speranza. O Signore onnipotente e temuto, a voi raccomando il mio dolce amico! Certo non (ci) pensavo quando prese la croce colui che tanto mi amava e che io tanto ho amato, sì da essere percossa, imprigionata e segregata a causa di chi è tutta la mia vita! Le navi salpano - buon viaggio! - con il mio amore e gli altri che devono partire. Padre creatore, guidale alla meta, ché vanno a servire la santa croce. Perciò ti prego, Dolcetto, che sai il mio dolore, di farci una melodia e di mandarla in Siria. Ché non ho pace notte e giorno: la mia vita è oltremare!

Commento

Questa celebre ‘canzonetta’ di otto strofe di otto versi a rime alterne - quattro ottonari (la ‘fronte’), tre settenari e un senario o quattro settenari (la ‘sirima’, o ‘sirma’) - presenta sia i caratteri della poesia popolareggiante, ricca di sincera immediatezza, tanto cara alla critica romantica, sia quelli della poesia cortese, aulica e raffinata. Il tema del “lamento” della donna abbandonata (tipico della “canzone di donna”) è fuso abilmente, come in certi modelli provenzali, con quello dell’innamorato che parte per la Terrasanta (caratteristico della “canzone di crociata”: qui probabilmente la sesta, bandita nel 1228). Siamo agli albori della cosiddetta Scuola siciliana, la prima scuola poetica italiana, sorta alla corte sveva di Federico II (re di Sicilia dal 1198 e imperatore dal 1220): una corte itinerante, ma fortemente accentrata e gestita da funzionari laici, soprattutto giuristi e notai, conoscitori della tradizione della lirica provenzale, il cui repertorio ci è giunto solo da codici trecenteschi e in una veste linguistica più o meno toscanizzata. Ne fanno parte, fra i maggiori, Giacomo da Lentini e Rinaldo d’Aquino. La protagonista si rivolge al rimatore, Duccetto, per chiedergli un componimento musicale (sonetto, provenzale sonet) da mandare all’amato. Il nome può essere quello dello stesso Rinaldo (il cui diminutivo, Rinalduccio, diventa il vezzeggiativo Duccetto, ‘Dolcetto’.

RINALDO D'AQUINO

Si sa ben poco della vita di Rinaldo d’Aquino (Montella, Avellino, 1227/8 - 1279/81): uomo di cultura (magister), gentiluomo dell’imperatore, appartenente alla famiglia di san Tommaso e/o di un altro rimatore siciliano, Jacopo d’Aquino. Di lui ci restano uno o due sonetti e una decina di canzoni, fra cui la più nota, oltre a questa, è Per fin’amore vao sì allegramente, lodata da Dante nel De Vulgari Eloquentia.

Scelta, parafrasi, commento e note bio-bibliografiche a cura di Gigi Cavalli