Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
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sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli astanti s’affacciano
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al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime - l’infame, l’illustre.
Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
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e in ogni caso l’essere è più del dire.
Sin dalle prime raccolte, come La vita in versi (1965), da cui sono tratte queste terzine in cui il primo verso rima con il terzo, la poesia postermetica di Giovanni Giudici è stata definita una sorta di neocrepuscolarismo ironico, o meglio autoironico, che insiste sulla vicenda autobiografica: il suo discorso poetico è frutto di un miscuglio altamente formalizzato, a volte quasi al limite del manierismo, di impulsi sociali, di reminiscenze cattoliche e populiste; di forme e figure della realtà quotidiana, con le sue dolenti frustrazioni; di ‘frasi fatte’ il cui accostamento fa scattare sorprese esistenziali. Nel dialogo ideale tra il poeta e il suo doppio, un personaggio di intellettuale piccolo-borghese acutamente critico, nel sotto e nel sopramondo, gli spettatori (gli astanti) si affacciano in una sorta di limbo ad applaudire e compiangere quella che potrebbe definirsi la vanitas vanitatum dell’esistere umano. Tradotte in versi, vita e poesia sono indissolubilmente legate, in questa forma amara e disillusa, sentenziosa e sorretta da una intensa moralità, di ascendenza montaliana e pasoliniana.
Scelta, parafrasi, commento e note bio-bibliografiche a cura di Gigi Cavalli