dall’Arnaldo da Brescia

GIOVANNI BATTISTA NICCOLINI

       

       La plebe è veltro
       che feroce si fa nelle catene.
       A libertà fai guerra; e allor ti è forza
       temer lo schiavo che i suoi ceppi infrange:
5        poi le sue colpe gli rampogni, ed osi
       chieder virtù, dove non son diritti.
       Sacerdoti crudeli, a voi diletta
       soffrir le colpe per crear rimorsi,
       che padri sono di crudel ricchezza,
10      onde gemono i figli, e voi godete,
       a donar poco e a rapir molto avvezzi.
       Traffico di paure e di menzogne
       per voi si fa: tutti v’impingua un cieco
       volgo che corre dai delitti all’are,
15      e dall’are ai delitti: e poi gridate,
       se da penuria stimolato ei viene
       a turbar gli ozi che vi fece Iddio.
       Ma di Roma si taccia: or se tu brami
       la tua possanza esercitar, reprimi
20      dei vescovi i delitti, e si vergogni
       d’esser la Chiesa ai poveri matrigna.
       Nelle città lombarde ogni pastore
       divien tiranno, e con perfidia accorta
       per la Chiesa parteggia o per l’Impero.
25      Han molli cibi, splendidi apparati,
       gioie lascive; ed i suoi freddi altari
       copre la polve, dove sta la mitra
       dimenticata dalla fronte altera
       che ricopre il cimiero; e non s’abbassa
30      nel tempio ormai deserto in faccia a Dio,
       ma nei campi di stragi ancor fumanti
       sul caduto nemico, e i colpi accerta
       al sacrilego brando, ed all’estreme
       preghiere insulta con rampogne atroci;
35      poi nel petto del vinto ei si fa strada,
       e v’insanguina l’unghie al suo destriero.
       Quando v’ha breve infida pace, e stanco
       fra le stragi si asside il sacerdote,
       son gli ozi suoi delitto, e alle rapine
40      la mollezza succede: entra furtivo
       ei nell’ovil: ciò che bramò nel giorno,
       fra le tenebre ardisce, e son gli stupri
       l’imen permesso ai sacerdoti. Invero,
       come Roma sperò, da lor deposta
45      fu la vil soma degli affetti umani!
       Hanno ingrata libidine di belve,
       che oblia la madre, e non conosce i figli.
       Non di preci sonar, ma di latrati
       odi le selve, in cui si aggira e regna
50      pastor lombardo, e al poverel digiuno
       quel pan rifiuta ond’è sì largo ai cani:
       e l’empie guerre con crudel tributo
       nutre l’iniquo; e sull’altar di Cristo,
       ch’è principe di pace e di perdono,
55      la vendetta si giura; e quelle faci
       che getta in sen delle cittadi, accende
       nelle lampade ardenti innanzi a Dio.


Parafrasi

La plebe è come un cane che, se incatenato, diventa feroce. Tu combatti la libertà, e allora sei costretto ad aver paura dello schiavo che spezza le sue catene: poi lo rimproveri per le sue colpe, e osi pretendere un comportamento virtuoso ove non esistono diritti. Crudeli sacerdoti, a voi piace dare peso ai peccati per creare rimorsi che poi generano (con lasciti e donativi) la vostra ricchezza crudele, che fa soffrire gli eredi, e godere voi, abituati a dare poco e ad arraffare molto. Da parte vostra, fate mercato di paure e di menzogne; vi arricchisce tutti un volgo ignorante, che corre (pentito) dalle colpe agli altari, e dagli altari alle colpe; e poi vi lamentate se, spinto dalla miseria, viene a turbare gli ozi che Iddio vi ha concesso. Ma non parliamo di Roma: se adesso vuoi esercitare il tuo potere, perseguita i delitti dei vescovi, e la Chiesa si vergogni di essere una matrigna per i poveri. Nelle città lombarde ogni pastore diventa un tiranno, e con perfida astuzia si schiera con la Chiesa o con l’Impero. Hanno cibi prelibati, ornamenti di lusso, piaceri peccaminosi; e sugli altari disadorni si deposita la polvere, e giace la mitria dimenticata dalla fronte orgogliosa coperta dal cimiero; e quest’ultima non si china davanti a Dio nella chiesa ormai abbandonata dai fedeli, bensì sul nemico caduto nei campi di battaglia, ancora caldi di stragi, e calibra bene i colpi della spada sacrilega, e risponde con orrende e insultanti imprecazioni alle preghiere estreme (del vinto che muore); poi si apre la strada nel petto del nemico, e fa che il suo destriero si imbratti gli zoccoli del suo sangue. Quando v’è un momento di breve e malsicura pace, e il sacerdote stanco si riposa fra le stragi, allora si abbandona ai delitti, e alle rapine subentra la licenziosità: lui entra furtivamente nell’ovile, e osa fare al buio quello che di giorno si è ripromesso di compiere, e gli stupri diventano le nozze permesse ai sacerdoti. Davvero, come Roma sperava, hanno abbandonato il peso, per loro indegno, di ogni sentimento d’umanità! Hanno il desiderio sfrenato e ingrato di una belva che dimentica la propria madre e non conosce i propri figli. Senti risuonare non di preghiere, ma di latrati le foreste in cui si aggira il prete lombardo, che rifiuta al povero affamato quel pane che offre tanto generosamente ai suoi cani, e che sovvenziona iniquamente le sue malvagie guerre con gli spietati tributi (strappati ai poveri), e sull’altare di Cristo, che è il signore della pace e del perdono, giura vendetta, e accende nelle lampade che brillano (in chiesa) davanti a Dio quelle stesse fiaccole che poi getta nel cuore delle città (per incendiarle con l’odio e la discordia).

Commento

La tragedia Arnaldo da Brescia (1843), in cinque canti in endecasillabi sciolti, è considerata il capolavoro di Giovanni Battista Niccolini. La passione neoghibellina dell’autore vi s’identifica con la strenua lotta dell’indomito riformatore religioso (1090-1155), discepolo di Pietro Abelardo, che propugna la rinuncia della Chiesa alla ricchezza, il suo ritorno alla povertà evangelica e l’abbandono del potere temporale. Qui, nella scena VIII dell’atto II, il frate (che alla fine verrà impiccato e poi arso sul rogo, e le sue ceneri saranno disperse nel Tevere) si rivolge impetuosamente a papa Adriano IV condannando i crimini dell’alto clero. “Classicista nella forma e romantico nei contenuti”, secondo i critici di un tempo, l’appassionato discorso di Arnaldo, nella sua vibrante eloquenza, è pervaso dagli spiriti di libertà del pensiero risorgimentale.
GIOVANNI BATTISTA NICCOLINI

GIOVANNI BATTISTA NICCOLINI

Giovanni Battista Niccolini (Bagni di San Giuliano, Pisa, 1782 - Firenze 1861), laureato in legge, insegna dal 1807 storia e mitologia all’Accademia di Belle Arti di Firenze, di cui è anche bibliotecario. Repubblicano, liberale e anticlericale, amico del Foscolo, del Manzoni e poi del Carducci, traduttore dal greco, accademico della Crusca, autore di liriche e di prose critiche e storiche, tra cui Dell’imitazione dell’arte drammatica (1828) e il Discorso sulla tragedia greca (1844), è noto soprattutto come scrittore di tragedie, tra cui Polissena (1810), Nabucco (1819), in cui è raffigurato Napoleone, Antonio Foscarini (1827), Giovanni da Procida (1830), Arnaldo da Brescia (1843), Beatrice Cenci (1844), Filippo Strozzi (1847): opere tutte permeate di spiriti libertari e polemiche contro la tirannide dell’Impero e della Chiesa.

Scelta, parafrasi, commento e note bio-bibliografiche a cura di Gigi Cavalli