Pir meu cori alligrari

STEFANO PROTONOTARO

       

       Pir meu cori alligrari,
       chi multu longiamenti
       senza alligranza e joi d’amuri è statu,
       mi ritornu in cantari,
5        ca forsi longiamenti
       ca forsi levimenti
       da dimuranza turniria in usatu
       di lu troppu taciri;
       e quandu l’omu ha rasuni di diri,
10      ben di’ cantari e mustrari alligranza,
       ca senza dimustranza
       joi siria sempri di pocu valuri:
       dunca ben di’ cantar onni amaduri.
       E si pir ben amari
15      cantau jujusamenti
       omu chi avissi in alcun tempu amatu,
       ben lu diviria fari
       plui dilittusamenti
       eu, chi son di tal donna inamuratu,
20      dundi è dulci placiri,
       preju e valenza e jujusu pariri
       e di billizzi cutant’abundanza
       chi illu m’è pir simblanza,
       quandu eu la guardu, sintir la dulzuri
25      chi fa la tigra in illu miraturi;
       chi si vidi livari
       multu crudilimenti
       sua nuritura, chi ill’ha nutricatu:
       e sì bonu li pari
30      mirarsi dulcimenti
       dintru unu speclu chi li esti amustratu,
       chi l’ublïa siguiri.
       Cusì m’è dulci mia donna vidiri:
       ca ’n lei guardandu me[t]tu in ublïanza
35      tutta autra mia intindanza,
       sì chi istanti mi feri sou amuri
       d’un colpu chi inavanza tutisuri.
       Di chi eu putia sanari
       multu leg[g]eramenti,
40      sulu chi fussi a la mia donna a gratu
       meu sirviri e pinari;
       m’eu duttu fortimenti
       chi, quandu si rimembra di sou statu,
       nu•lli dia displaciri.
45      Ma si quistu putissi adiviniri,
       ch’Amori la ferissi di la lanza
       che mi fer’e mi lanza,
       ben crederia guarir di mei doluri,
       ca sintiramu engualimenti arduri.
50      Purrïami laudari
       d’Amori bonamenti
       com’omu da lui beni ammiritatu;
       ma beni è da blasmari
       Amur virasimenti
55      quandu illu dà favur da l’unu latu
       e l’autru fa languiri:
       chi si l’amanti nun sa suffiriri,
       disia d’amari e perdi sua speranza.
       Ma eu suf[f]ru in usanza,
60      ca ho vistu adess’a bon suffirituri
       vinciri prova et aquistari unuri.
       E si pir suffiriri
       ni per amar lïalmenti e timiri
       omu acquistau d’amur gran beninanza,
65      dig[i]u avir confurtanza
       eu, chi amu e timu e servi[vi] a tutturi
       cilatamenti plu[i] chi autru amaduri.


Parafrasi

Per allietare il mio cuore (ma si potrebbe anche intendere “per il fatto che è lieto il mio cuore”), che molto a lungo è rimasto privo di allegrezza e di gioia d’amore, ricomincio a comporre canzoni, perché forse l’indugio di essere stato troppo in silenzio si potrebbe facilmente trasformare in abitudine; e quando uno ha motivo di comporre deve giustamente cantare e mostrare allegrezza, giacché, se non venisse manifestata, la gioia sarebbe sempre di poco valore: dunque ogni innamorato deve proprio cantare. E se per il fatto di essere davvero innamorato avrà cantato con gioia chiunque abbia amato anche una volta, ancora meglio lo dovrei fare io, che sono innamorato di una donna come quella, in cui c’è dolce fascino, pregio, valore e aspetto affascinante e tanta abbondanza di bellezza che a me sembra, quando la guardo, di provare la dolcezza che sente la tigre quando si guarda allo specchio; che si vede privare molto crudelmente dei suoi piccoli, che ha allevato; e le sembra così attraente guardarsi benevolmente in uno specchio che le viene posto davanti, che si dimentica di inseguirli. Così mi è dolce vedere la mia donna: che nel guardarla mi dimentico di ogni mio altro proposito, sicché d’improvviso il suo amore mi ferisce con un colpo che si aggrava sempre di più. Di questo io potrei guarire molto facilmente, se solo la mia donna gradisse il mio esserle servo e la mia pena: ma io temo fortemente che, quando pensa alla propria posizione, ciò possa dispiacerle. Ma se potesse avvenire questo, che Amore la colpisse con la lancia che mi ferisce e mi trafigge, io credo che i miei dolori potrebbero guarire, perché proveremmo le stesse sofferenze. Io potrei compiacermi decisamente (del trattamento da parte) di Amore, come uno che da lui è ben ricompensato; però Amore è davvero da biasimare parecchio, quando favorisce una parte e fa soffrire l’altra: perché se l’innamorato non riesce a sopportare, desidera amare e si vanificano tutte le sue speranze. Ma io soffro per abitudine, perché ho visto sempre che chi è capace di resistere vince la prova e ottiene la ricompensa. E se per (saper) sopportare o amare con lealtà e timore qualcuno ha ottenuto grande benevolenza amorosa, devo avere fiducia (anch’)io, che amo e temo e vi servo di continuo, di nascosto, più di ogni altro innamorato.

Commento

Secondo i bestiari medievali, i cacciatori solevano catturare i piccoli della tigre e lasciare nella sua tana degli specchi, affinché questa, invece di inseguirli, si attardasse a guardare la propria immagine riflessa. Allo stesso modo il poeta è quasi ipnotizzato dallo sguardo della donna amata. Benché cerchi di rallegrarsi e di cantare, quasi doverosamente, per amore di lei, l’innamorato infelice soffre, teme e vorrebbe augurarsi che lei provi a sua volta le pene d’amore; ma alla fine si rifugia nella speranza che la propria costante fedeltà possa ricevere un premio finale. Il rapporto amoroso è stilizzato, nella rappresentazione della donna come essere anche socialmente superiore, che dà gioia e sofferenza e richiede fedeltà e discrezione. Nella canzone, dalla forma cristallina, il sentimento è cavalleresco e insieme spietato come un fatto d’armi.

STEFANO PROTONOTARO

Stefano Protonotaro - o, secondo altri, “di Protonotaro” - (Messina XIII sec.) è uno degli ultimi, e tra i più valenti, poeti della Scuola siciliana, forse identificabile con l’autore della traduzione dal greco in latino di due trattati arabi di astronomia da lui dedicata a Manfredi di Svevia, il figlio dell’imperatore Federico II. Di lui ci restano tre canzoni, tra le quali Pir meu cori alligrari, che è l’unico testo della Scuola siciliana pervenutoci nel siciliano illustre della raffinata corte sveva, grazie alla sua trascrizione fatta nel XVI sec. dal filologo G.M. Barbieri. (Tutti gli altri testi ci sono pervenuti in versioni “toscanizzate” da copisti toscani.) La sua struttura è il modello della canzone provenzale: sono cinque strofe (stanze) di dodici settenari ed endecasillabi, unissonans (monorimi), costituite dalla fronte (di due piedi identici, abC abC) e dalla sirima (di due volte, dDE eFF), cui segue un congedo (tornada), dalla struttura uguale a quella della sirima.

Scelta, parafrasi, commento e note bio-bibliografiche a cura di Gigi Cavalli