Carciòfo

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carciofo


carciòfo s. m. [dall’arabo kharshūf]. – 1. a. Pianta perenne della famiglia composite tubuliflore (lat. scient. Cynara cardunculus, sottospecie scolymus), con foglie basali molto grandi, capolini terminali con squame carnose, i cui ricettacoli, prima della maturazione, costituiscono il noto ortaggio dal caratteristico sapore dolce-amaro. b. Nell’uso com., l’ortaggio stesso, la cui parte commestibile è costituita dalla base dell’infiorescenza e dalle brattee carnose che l’avvolgono (comunem. dette foglie del c.): c. fritti; c. ripieni; c. alla giudia; c. in pinzimonio. Le foglie contengono anche un principio attivo, la cinarina, che ha impiego in farmacologia perché esplica azione diuretica e favorisce la secrezione biliare da parte delle cellule del fegato. 2. C. selvatico (lat. scient. Cynara cardunculus ssp. cardunculus), detto anche carduccio, cardoncello, caglio, presame: erba perenne delle composite tubuliflore, con capolini più piccoli del carciofo coltivato, a brattee terminate da una robusta spina; spontaneo nel bacino del Mediterraneo, in Italia si trova negli incolti delle regioni centrali e merid. e nelle isole. 3. fig. Riferito a persona, sciocco, minchione, o goffo, inabile, maldestro: è proprio un c. che combina solo guai. Per un altro uso fig., nella frase politica del c. o della foglia di c., v. politica, n. 1 c. 4. Fuoco d’artificio simile a un razzo il quale, poggiato su un piano, prima gira velocemente su sé stesso, poi, sempre girando, si alza in aria. ◆ Dim. carciofétto, e più com. carciofino, nel senso proprio (in partic., carciofini sott’olio, sott’aceto, preparati con la parte più tenera e commestibile dell’ortaggio); accr. carciofóne, in senso proprio e figurato.

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