Abitudine

Universo del Corpo (1999)

Abitudine

Lucia Genovese e Gianni Carchia

Il termine è dal latino habitudo (da habitus, "qualità, caratteristica, aspetto", a sua volta derivato da habere, "avere, possedere"). Il nesso che lega l'abito all'abitudine passa per l'habitus latino che, come l'italiano 'abito', indica in generale lo stato, la condizione, l'insieme delle caratteristiche possedute da qualcosa o qualcuno, ma in particolare l'aspetto, l'apparenza, la specie corporea e, di conseguenza, la veste esteriore, l'abbigliamento. L'italiano abitudine indica pertanto sia il possesso di una caratteristica stabile, di un'attitudine naturale o acquisita per qualcosa, sia la consuetudine a essere e agire in un certo modo, sia l'insieme di tali consuetudini. Dal punto di vista della psicologia, l'abitudine è un modello di comportamento che, attraverso l'esercizio, è interiorizzato in modo tale da essere poi ripetuto in maniera relativamente identica. Il processo di formazione delle abitudini è per gran parte inconscio: riferito dapprima alle sole attività motorie, è stato poi esteso a designare anche altri tipi di attività psichiche caratterizzate da apprendimento per ripetizione e da esecuzione quasi automatica. Sotto questo profilo è rilevante in psicologia clinica e in psicologia sociale, ma è motivo di interesse anche per etologi e neurobiologi. In campo filosofico il tema dell'abitudine è stato sviluppato in maniera specifica dallo spiritualismo francese, influenzando profondamente la letteratura contemporanea.

==Le abitudini e le scienze dell'uomo di Lucia Genovese ==

1.

Condotte individuali e collettive

Con il termine 'abitudine' indichiamo sia la disposizione a comportarsi in modo costante e prevedibile in presenza di determinate condizioni (avere l'abitudine di ...), sia il comportamento di fatto normalmente adottato nelle medesime occasioni. Inoltre si parla di abitudine, ma non solo, a proposito di attività pratiche, cioè di un insieme concatenato di azioni finalizzate a esiti concretamente apprezzabili. Tali sono i comportamenti di routine (alzarsi, vestirsi, svestirsi ecc.) e quelli legati alle esigenze fisiologiche, che nel loro insieme scandiscono e ritmano la giornata e il tempo di una persona. Abitudini sono, ovviamente, i comportamenti che si legano alle occasioni formative di cui un individuo sa o può usufruire nella vita, dando luogo a scelte più o meno libere: per es., praticare attività fisiche o sportive, leggere, ascoltare musica, andare al cinema o al teatro, guardare la televisione. Quando sono segno di difficoltà o disagio di ordine personale o sociale, si mutano in 'cattive abitudini': per es., fumare, mangiare in maniera smodata, bere alcolici oltre misura, assumere droga. Infine, le abitudini sono anche modi di pensare consuetudinari, vale a dire 'normali', e pertanto diffusi, costanti, prevedibili, propri di un contesto sociale e culturale.Le abitudini sono, in conclusione, i comportamenti e gli atteggiamenti usuali per un individuo, quelli che connotano significativamente la sua condotta: nel loro insieme identificano il suo 'stile di vita' e il suo modo di atteggiarsi e di entrare in rapporto con sé e con gli altri (si pensi, per es., alla mimica facciale, alle posture, ai comportamenti prossemici).

La lettura delle abitudini di un individuo fornisce elementi preziosi per metterne a fuoco l'identità psicologica, culturale, sociale: vale a dire sia i tratti che lo rendono peculiare, sia quelli che ne indicano l'appartenenza a una categoria, a un gruppo, a una comunità. Le abitudini sono legate infatti alla storia di un individuo e lo vincolano strettamente alle sue esperienze, ai suoi affetti, al suo percorso formativo; sono indizi del suo essere parte di gruppi (a partire da quello primario costituito dalla famiglia), di comunità, di culture. Si pensi per es. al 'lessico familiare', uno dei legami più sottili e forti tra i membri di una famiglia; o alle abitudini alimentari, così connotate in senso culturale da costituire uno dei più profondi nessi tra i membri di una stessa cultura.In termini generali, quindi, le abitudini indicano modi di vivere, di agire e di pensare tipici di un individuo, ma anche di un gruppo, di una comunità, di una collettività; designano cioè consuetudini, costumi, rituali che caratterizzano e distinguono in modo significativo e tangibile gli individui di tali insiemi da quelli di altri e li fanno sentire differenti. La loro presenza e la loro (relativa) persistenza stanno a significare la forza della consuetudine; le loro evoluzioni ‒ oggi sempre più avvertibili e veloci ‒ sono, d'altra parte, indici della plasticità e della flessibilità delle condotte individuali e sociali.

Le abitudini sono frutto, generalmente, di apprendimenti informali legati alle esperienze quotidiane, per cui è in definitiva l'ambiente nella sua accezione più ampia che indirizza e regola tali processi. Questi apprendimenti hanno luogo anche in contesti specifici: è sufficiente pensare per es. alla scuola che, in quanto ambiente educativo, mira a far acquisire abitudini, o abiti, funzionali alle sue particolari finalità. È possibile affermare, pertanto, che il processo di socializzazione consiste in misura considerevole nell'acquisizione di abitudini, che ne costituiscono esiti tra i più incisivi e duraturi perché attengono in primo luogo alla sfera dell'agire e del sentire.Le abitudini si apprendono e si radicano in un individuo in modo tanto più tenace quanto più sono connesse a esperienze precoci e costantemente rinforzate; tuttavia si possono anche perdere se vengono meno l'occasione, l'esercizio, la motivazione o il contesto. Ma ciò si verifica con difficoltà a causa dei caratteri propri di tali comportamenti. Sono note, per es., le resistenze con cui si accettano e si acquisiscono nuove abitudini alimentari o condotte, pur nella consapevolezza che esse sono meno dannose per la salute. Si pensi, a proposito dell'abitudine al fumo, alle pagine in cui con disincantata e brillante ironia Italo Svevo parla dell'ultima sigaretta del protagonista della Coscienza di Zeno o all'umorismo della battuta di Mark Twain circa la facilità con cui era riuscito più volte a smettere 'definitivamente' di fumare.

2.

Una lettura in chiave pedagogica e psicologica

Le abitudini orientano e indirizzano in modo sottile e pervasivo le condotte degli individui e dei gruppi; costituiscono l'insieme di comportamenti e di atteggiamenti che permettono agli individui di operare in modo funzionale alla loro sopravvivenza e di adattarsi costruttivamente all'ambiente. Si comprendono, pertanto, le ragioni per cui la riflessione filosofica e pedagogica, prima, e la ricerca psicopedagogica, in tempi più recenti, abbiano dedicato grande interesse ai modi in cui si strutturano le abitudini e al ruolo che esse svolgono nella vita individuale e associata.A lungo, nella riflessione filosofica e pedagogica, si sono sottolineati soprattutto gli aspetti automatici, statici e ripetitivi delle abitudini, ricondotte all'esito di processi di condizionamento e di adesione, acquiescente e dogmatica, alla tradizione. In tale prospettiva, l'individuo dominato dalle abitudini è considerato un essere passivo che si lascia plasmare e modellare dalla pressione delle consuetudini finendo per conformarvisi. Ciò contribuisce a spiegare perché pensatori quali J. Locke, J.-J. Rousseau e I. Kant abbiano paventato il formarsi di abitudini, intese come puro adeguamento ai costumi della società, e abbiano sottolineato da una parte l'importanza di acquisire 'buone abitudini', dall'altra la necessità di difendere le nuove generazioni dalla nefasta influenza delle consuetudini (v. condizionamento). Nella riflessione pedagogica, però, si sono in seguito affermate visioni più ampie e dinamiche delle abitudini, anche grazie alle suggestioni offerte dalla teoria dell'evoluzione di C. Darwin. È esemplare, a tale riguardo, la posizione espressa da J. Dewey, per il quale l'abitudine è comportamento consolidato, acquisito grazie a esperienze pregresse, che si sottrae a condotte meccaniche e passivizzanti, di mero e definitivo adattamento o, meglio, di assuefazione all'ambiente. L'abitudine è invece condotta che si inserisce in modo dinamico nel continuum delle esperienze, ne consente di nuove, è passibile di cambiamento, e modifica, se necessario, il contesto.

Anche la ricerca psicologica ha analizzato i caratteri propri di questo specifico tipo di apprendimento. A partire dagli studi di W. James, per il quale l'acquisizione di abitudini è una mirabile conquista evolutiva che permette di concentrarsi su più impegnativi processi psichici, sono state elaborate diverse concezioni di abitudine. Gli psicologi di orientamento behaviorista, per es., hanno visto anche nei comportamenti qualificabili come abitudini l'esito di processi di apprendimento del tipo 'stimolo-risposta', orientati dai rinforzi ripetutamente offerti, derivandone la possibilità di modellare le condotte mediante la strutturazione di percorsi formativi. Questa lettura del processo di strutturazione delle abitudini, mentre è utile a dar conto di quelle elementari, descrivibili come semplici sequenze di azioni, non spiega apprendimenti più complessi. Ciò sottolineano per es. le più recenti (e oggi più accreditate) teorie cognitiviste che, anche a tale riguardo, rivendicano il ruolo attivo e selettivo del soggetto. Ne deriva, in sintesi, una valorizzazione dei comportamenti abitudinari, che sono frutto e segno di esperienze collaudate e funzionali, ma non vincolano in modo assoluto e definitivo la tensione progettuale degli individui e dei gruppi tanto rispetto a sé quanto rispetto all'ambiente.

Tra volontà e automatismo

di Gianni Carchia


Il concetto di abitudine è stato oggetto di riflessione da parte della filosofia, fin dagli inizi della sua storia. La prima trattazione scientifica articolata dell'abitudine è fornita da Aristotele nell'ambito della cosiddetta filosofia pratica: è questa la modalità del sapere propria dell'etica e della politica, ossia delle discipline che si occupano dell'agire umano e della sua realizzazione migliore e che sono dette 'pratiche' perché riguardano ciò che nella prassi è 'da farsi' (τὸ πρακτόν). Soprattutto nel 2° libro dell'Etica Nicomachea l'abitudine è trattata in termini decisivi per l'intera tradizione filosofica antica e medievale. Le virtù etiche, la cui trattazione costituisce un caposaldo della dottrina morale aristotelica, 'nascono dall'abitudine', come suggerisce la stessa affinità tra i termini ἠθική (etica) ed ἦθος (abitudine). In età moderna il concetto di abitudine subisce una profonda trasformazione ed è ridefinito nell'ambito del meccanicismo cartesiano (non più concepita come modificazione spirituale, ma ridotta a fenomeno fisico e meccanico, l'abitudine è paragonata dalla scuola cartesiana a una sorta di automatismo), dell'empirismo inglese (D. Hume, che rappresenta l'apice di tale tradizione, sostiene che tutte le inferenze dall'esperienza sono effetti dell'abitudine, non di ragionamento), dell'idealismo tedesco (G.W.F. Hegel rivendica la funzione positiva dell'abitudine soprattutto sotto il profilo etico e politico, cioè nelle manifestazioni dello spirito oggettivo: essa è determinante per la formazione dei 'costumi', Sitten, nei quali si realizza l''eticità concreta', Sittlichkeit). Ma è nell'ambito dello spiritualismo francese dell'Ottocento che il tema dell'abitudine diventa centrale e si costituisce come oggetto di una specifica riflessione filosofica. Sono due, in particolare, le opere che hanno influenzato a questo proposito tutta la filosofia in Francia fino ad arrivare a H. Bergson, non senza echi e riflessi in campo artistico-letterario, per es. nella concezione di M. Proust sull'abitudine. Si tratta della 'memoria' di M.-F.-P. Maine de Biran intitolata Influence de l'habitude sur la faculté de penser, del 1803, e della tesi di J.-G.-F. Ravaisson De l'habitude, del 1838. Nello specifico lo scritto di Maine de Biran si occupa fondamentalmente degli effetti dell'abitudine, mentre la dissertazione di Ravaisson studia l'abitudine nella sua essenza. Le condizioni per l'instaurarsi di un'abitudine sono costituite dal potenziamento dell'azione, a mano a mano che si compie più agevolmente un dato movimento, e dal conseguente affievolirsi della sensazione, nella misura in cui diminuisce lo sforzo per compierlo. Queste due condizioni si riassumono, allora, in un unico principio; si tratta dello sviluppo di una spontaneità irriflessa che penetra e si stabilisce sempre di più entro la passività dell'organizzazione, al di fuori e al di sotto della regione della volontà, della personalità e della coscienza. A mano a mano che, con il ripetersi, il movimento diviene sempre più involontario, non è nella volontà, ma nell'elemento passivo del movimento stesso che si sviluppa a poco a poco un'attività segreta.

Affondando le proprie radici nelle zone più oscure dello spirito umano, dove i più elevati processi razionali incontrano i più umili processi organici, l'abitudine non è un mero meccanismo, né il risultato di una semplice modificazione fisiologica, ma è l'effetto di un'inclinazione che, senza escludere una forma irriflessa d'intelligenza, succede insensibilmente al libero volere (Ravaisson 1838, pp. 36-37). Per provare l'infondatezza di una spiegazione meccanicistica dell'universo, Ravaisson ha inteso mostrare, con la sua teoria dell'abitudine, l'intrinseca materialità dello spirito. L'abitudine è così mediatrice fra natura e libertà. Infatti, come 'le inclinazioni' dell'abitudine si sostituiscono agli atti volitivi della coscienza non già tramite una soluzione di continuità, bensì attraverso una serie di gradi impercettibili, così la natura ‒ lungi dal risolversi in puri processi meccanici ‒ è animata dallo stesso principio vitale che agisce ai più elevati livelli della coscienza. Discendendo per gradi dalle più chiare regioni della coscienza, l'abitudine ne porta con sé la luce nelle 'profondità' e nell''oscura notte' della natura; è una natura acquisita, una 'seconda natura'. Se tra il limite inferiore della natura e il limite superiore della coscienza esiste una pluralità infinita di gradi successivi, volta a comporre una sorta di 'spirale', è proprio questa spirale che l'abitudine ridiscende; in tal modo, l'abitudine rappresenta il ritorno della libertà alla natura, o piuttosto l'invasione del dominio della libertà per opera della spontaneità naturale (p. 66).

Sviluppando e portando alle estreme conseguenze postulati neoplatonici, lo spiritualismo francese ha scoperto l'importanza cruciale dello studio dell'abitudine per ogni metafisica della coscienza, poiché è nel processo dell'abitudine che l'intuizione intellettuale riesce a cogliere il movimento con il quale la volontà libera, cosciente, intenzionale si innesta nell'automatismo della tendenza cieca e oscura. Nell'opera La pensée et le mouvant  Bergson scrive che la nostra esperienza interiore ci mostra nell'abitudine un'attività che è passata, per gradi insensibili, dalla coscienza all'incoscienza e dalla volontà all'automatismo: una forma ‒ come una coscienza oscurata e una volontà addormentata ‒ sotto la quale dobbiamo rappresentarci la natura (Bergson 1934, p. 267). Questo carattere duplice dell'abitudine è stato oggetto di numerose osservazioni nella Recherche di Proust. Da una parte, essa, "aménageuse habile", "affaiblit tout", dunque anche la coscienza delle percezioni, trasformando in automatismi gesti in precedenza volontari così da permettere una certa "économie à notre système nerveux" (Proust 1954, 3° vol., p. 918). Dall'altra parte, invece, allorché si incarica anche di renderci cari i compagni che di primo acchito non ci erano piaciuti, di dare un'altra forma ai volti, di rendere accattivante il suono di una voce, di modificare l''inclinazione dei cuori', essa finisce con l'esercitare 'effetti analgesici' sulla sensibilità della coscienza (1° vol., p. 671). Grazie a tale funzione anestetizzante dell'abitudine, la coscienza finisce con il ridursi a uno stato ipnotico. Al pari del sonno, del resto, l'abitudine ci conduce in prossimità dello stato di natura. Proprio così, però, nell'istante medesimo in cui ci procura l'appagante sicurezza di una sensazione durevole e monotona, l'abitudine si insinua per Proust nella nostra vita, prendendone totalmente possesso - in senso sia fisico sia spirituale - fino al punto di trasformarsi in un bisogno, la cui mancata soddisfazione è causa di sofferenza e di dolore. Da passiva che era, in questo modo l'abitudine ritorna di nuovo attiva. Spiritualizzando la natura e naturalizzando lo spirito, l'abitudine è mescolanza inestricabile di passività e attività, libertà e natura.

Bibliografia

H. Bergson, La pensée et le mouvant. Essais et conférences, Paris, PUF, 1934.

J. Dewey, The influence of Darwin on phylosophy and other essays in contemporary thought, New York, Henry Holt, 1910.

D. Janicaud, Une généalogie du spiritualisme français. Aux sources du bergsonisme. Ravaisson et la métaphysique, La Haye, Nijhoff, 1969.

M.-F.-P. Maine de Biran, Influence de l'habitude sur la faculté de penser, Paris, Henrichs, 1803.

A. Oliverio, Biologia e comportamento. Introduzione alla psicologia fisiologica, Bologna, Zanichelli, 1982.

M. Proust, À la recherche du temps perdu, 3 voll., Paris, Gallimard, 1954 (trad. it. Milano, Mondadori, 1983).

J.-G.-F. Ravaisson, De l'habitude, Paris, Fournier, 1838 (trad. it. in Saggi filosofici, a cura di A. Tilgher, Roma, Tiber, 1917).

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