ABRAMO Ecchellense

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 1 (1960)

ABRAMO Ecchellense (Ibrāhīm al-H̩āqilānī, più di rado al-Ḥāqilī, forma non mai usata da lui stesso)

Giorgio Levi Della Vida

Nacque a H̩āqil, villaggio presso Giubail (l'antica Byblos) il 18 febbr. 1605. Dal luogo di nascita è formato il suo etnico, italianizzato da lui insieme col prenome secondo il costume dei maroniti e di altri cristiani orientali stabiliti in Europa. Suo padre Abramo figlio di David (il nome dell'avo è menzionato nella più antica delle sue opere a stampa) e sua madre Sitt al-Ahl (il nome è dato in trascrizione approssimativa da A. Fabroni, Historiae Academiae Pisanae,III, Pisis 1795, p. 147) si dicevano discesi da antiche e potenti stirpi principesche decadute dopo la conquista della Siria da parte degli Ottomani all'inizio del sec. XVI. Membri della famiglia sono segnalati nel Libano nei secc. XVIII e XIX.

Perduto il padre nell'infanzia, venne a Roma giovinetto nel 1620 e vi compì gli studi nel Collegio dei maroniti, licenziandosi in teologia e filosofia nel Collegio Romano ed essendo ordinato diacono, senza peraltro ricevere mai l'ordinazione sacerdotale. Del profitto compiuto nelle varie discipline studiate fa fede, oltre ai lavori di cui si dirà più avanti, l'incarico presto affidatogli dell'insegnamento del siriaco e dell'arabo nel Collegio dei maroniti.

Tornato in patria nel 1630, entrò al servizio dell'emiro druso Fakhr ed-dīn (Faccardino), ribelle al dominio ottomano e insignoritosi di gran parte del territorio libanese, alleato dei granduchi di Toscana (di Cosimo II era stato ospite dal 1613 al 1618). Da lui fu inviato due volte a Livorno, nel 1631 e nel 1633, come suo agente in transazioni commerciali e finanziarie, e da Livorno fece anche un viaggio a Tunisi. Al ritorno dalla seconda missione, le navi, sulle quali trasportava merci toscane destinate all'emiro, non riuscirono ad approdare sulle coste di Siria bloccate dalla flotta ottomana: egli intraprese allora con successo operazioni di guerra corsara, di cui ha lasciato una vivace narrazione, non scevra forse di qualche abbellimento. Finalmente fu costretto a tornare a Livorno, mentre poco dopo il suo signore era catturato e quindi giustiziato.

Chiusa questa parentesi del tutto disforme dalle occupazioni studiose degli anni giovanili, A. ritornò ad esse né più le abbandonò: dopo un non lungo periodo d'insegnamento nell'università di Pisa si stabilì a Roma, dove nel 1636 fu chiamato a far parte della commmissione per l'edizione araba della Bibbia e a insegnare siriaco e arabo nel collegio di Propaganda Fide e alla Sapienza. Nell'agosto del 1640 si recò a Parigi, chiamatovi a controllare l'opera data da un altro maronita, Gabriele Sionita, alla parte siriaca della Bibbia poliglotta edita da M. G. Le Jay, e cercò di acquistarsi il favore del Richelieu, al quale dedicò un libro. Ma presto, nel dicembre del 1641, tornò a Roma. A un più lungo soggiorno parigino di oltre sette anni, a partire dalla fine del 1645, fu indotto, sembra, dalla scarsa benevolenza mostratagli da papa Innocenzo X, mentre sembra godesse di quella di Urbano VIII e dei Barberini. Guadagnatasi la protezione del Mazarino, fu nominato regio interprete di siriaco e di arabo e professore di queste lingue alla Sorbona, e spiegò una fervida attività di editore e traduttore di testi orientali, pur trovandosi irretito in un'acre polemica, a proposito della parte avuta nella poliglotta, con Gabriele Sionita e Valérien de Flavigny; polemica svolta in Epistolae Apologeticae duae,Parisiis 1647, ed Epistola Apologetica tertia,Parisiis 1648, la quale ultima contiene interessanti notizie autobiografiche.

Non è chiaro perché, nei primi mesi del 1653, si sia risolto a tornare definitivamente a Roma, dove rioccupò l'antica cattedra della Sapienza e donde non si mosse più (sembra che abbia declinato l'invito fattogli da papa Alessandro VII di andare come legato apostolico in India). A Roma pubblicò alcuni tra i suoi maggiori lavori. Il 21 maggio 1660, per raccomandazione di Ferdinando II di Toscana, a lui benevolo fin dal tempo della missione del 1631, fu nominato, pur conservando la cattedra, scrittore per il siriaco e l'arabo nella Biblioteca Vaticana, a lui familiare fin dal suo primo soggiorno romano (di suo un manoscritto vaticano aveva fornito al famoso oratoriano Jean Morin il rituale dell'ordinazione della Chiesa nestoriana), e in tale ufficio rimase, attendendo con intenso zelo al riordinamento e alla catalogazione dei fondi orientali, fino alla morte, avvenuta a Roma il 15 luglio 1664.

Fu sepolto nella chiesa del Collegio dei maroniti (l'epitafio è riprodotto in A. Fabroni, III, p. 151). Gli successero sulla cattedra e nella Biblioteca rispettivamente i nipoti della prima moglie, Fausto e Giovanni Matteo Naironi. La sua ricca collezione di manoscritti siriaci e arabi fu acquistata dalla Biblioteca Vaticana al principio del sec. XVIII. Dalla prima moglie Costanza, figlia del maronita Michele al-Bānī, morta durante il secondo soggiorno a Parigi, ebbe tre figli e una figlia; dalla seconda non sembra aver avuto prole.

Non primo tra i maroniti nell'impresa di rendere accessibile alla cristianità latina la conoscenza della storia e della cultura siriache e arabe, A. superò tutti i suoi predecessori per ampiezza di cognizioni, per capacità espositiva, per attività, né è rimasto inferiore ad alcuno dei suoi successori, eccetto G. S. Assemani nel sec. XVIII. Meno esperto di erudizione classica e di metodo filologico degli studiosi suoi contemporanei che nell'Europa settentrionale iniziarono e portarono avanti lo studio scientifico dell'Oriente anteriore, aveva su essi il vantaggio di un'esperienza diretta dell'ambiente. Se la piccola grammatica siriaca, scritta in siriaco per gli alunni del Collegio maronita (Linguae Syriacae sive Chaldaicae perbrevis institutio,Romae 1628), non è se non una esercitazione giovanile, e le edizioni e traduzioni di brevi testi islamici di etica, filosofia, scienze naturali pubblicate a Parigi con dediche a personaggi ragguardevoli non hanno grande valore né sono esenti da errori, ben altra importanza hanno, tra le moltissime opere di A., alcune di maggior mole e impegno: il Chronicon orientale,Parisiis 1651, traduzione di una storia ecclesiastica da lui erroneamente attribuita a Buṭrus ibn ar-Ràhib, cui fa seguito un compendio di storia degli Arabi prima e dopo l'Islam desunto da varie fonti manoscritte; il testo e la traduzione della bibliografia della letteratura siriaca di 'Abdīishō' (Hebedjesu Metropolitae Sobiensis Tractatus...,Romae 1653); soprattutto l'elaborata difesa del primato del pontefice romano secondo le fonti orientali, in polemica coi protestanti J. Selden e J. H. Hottinger, Euthychius vindicatus e De origine nominis papae,Romae 1660 e 1661 (due volumi riuniti in uno, il secondo dei quali porta una data anteriore al primo), cui fa seguito un lungo elenco delle opere usate, in gran parte ignote fino allora all'Occidente. A prescindere dalla validità dell'argomentazione, oggi ovviamente inadeguata e antiquata, è da ammirarsi la vastità dell'informazione, non minore di quella dei suoi celebri avversari inglese e svizzero. Merita poi di esser ricordato il contributo dato da A. alla storia della scienza coll'assistenza prestata a G. A. Borelli nella traduzione dall'arabo dei libri V-VII delle Coniche di Apollonio di Perge, perdute nell'originale greco (Firenze 1661, cfr. G. Giovannozzi, La versione borelliana di Apollonio,in Mem. d. Pontificia Acc. Romana dei Nuovi Lincei,s. 2, II [1916], pp. 1-31).

Anche il catalogo dei manoscritti orientali vaticani rimasto incompiuto e inedito (soltanto un primo abbozzo ne è stato pubblicato) e largamente sfruttato, senza citazione, da G. S. Assemani, rivela, accanto a errori ed equivoci spiegabili e scusabili, erudizione e sagacia non comuni. Non rimane purtroppo traccia di una vasta Bibliotheca Orientalis,alla preparazione della quale A. accenna più volte nei suoi scritti e che verosimilmente avrebbe dovuto essere un repertorio generale della storia e della letteratura siriache e arabe.

Bibl.: G. Graf, Geschichte der christlichen arabischen Literatur,Città del Vaticano 1949, III, pp. 354-359, ma anche I, p. 294; II, pp. 37, 510; III, pp. 352; IV, p. 177, coll'elenco degli scritti e ampia bibliografia. Le opere a stampa sono anche registrate e descritte in Chr. F. Schnurrer, Bibliotheca Arabica,Halle 1811; i documenti dell'archivio mediceo sull'azione di A. quale agente di Fakhr ed-dīn sono pubblicati in P. Carali, Fakhr ed-dīn II principe del Libano e la corte di Toscana,I, Roma 1936, passim.Sulla sua attività come scrittore nella Vaticana, G. Levi Della Vida, Ricerche sulla formazione del più antico fondo dei manoscritti orientali della Biblioteca Vaticana,Città del Vaticano 1939, passim.Manca tuttora una biografia documentata di A. e un'analisi esauriente della sua opera scientifica.

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