FIAMBERTI, Adamo Mario

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 47 (1997)

FIAMBERTI, Adamo Mario

Giuseppe Armocida

Nacque a Stradella (Pavia) il 10 sett. 1894 da Francesco e da Luigia Sabbia. Praticò attività sportiva a livello agonistico, impegnato nel campionato di calcio tra le file del Torino nel 1914; in questo stesso anno si iscrisse al corso di laurea in medicina e chirurgia nell'università di Torino. Arruolato allo scoppio del conflitto mondiale, prestò servizio dal 1º giugno 1915, pressoché ininterrottamente fino al congedo, il 24 maggio 1920, anche in zona di operazioni: dapprima sottotenente del genio e nel 1917 presso l'università castrense di Padova, fu poi aspirante medico nella sanità militare di battaglioni in linea in Carnia, sul Piave, in Val Lagarina e sull'altopiano di Asiago, nonché nell'ospedale da campo diretto da C. Foà. Decorato con la croce al merito di guerra nel luglio 1918, l'anno seguente poté frequentare saltuariamente, prima del congedo, l'università di Torino, ove si laureò il 20 luglio 1920. Nel novembre successivo fu nominato assistente effettivo nell'istituto di anatomia umana dell'università torinese, diretto da G. Levi, ma, secondando la naturale inclinazione per la clinica, si indirizzò ben presto alla studio delle malattie nervose e mentali e alla carriera di medico di manicomio: nel 1921 fu, infatti, ammesso alla scuola di neuropatologia di E. Medea presso gli istituti clinici di perfezionamento di Milano.

All'inizio della sua carriera il F. ebbe cura sia di acquisire una buona esperienza pratica, sia di completare la propria formazione scientifica: nell'agosto 1921, infatti, prese servizio come medico interno nell'ospedale psichiatrico provinciale di Brescia, allora diretto da G. Seppilli, e frequentò i corsi di perfezionamento, necessari, all'epoca, per consentire un qualificato accesso all'attività medica nei manicomi. Tra il 1921 e il 1926, nell'università di Torino, conseguì i diplomi di ufficiale sanitario e di perito igienista e frequentò il corso clinico-profilattico sulla tubercolosi diretto da F. Micheli; seguì a Milano il corso di radiologia nella scuola di F. Perussia e quello di immunologia e sierodiagnostica presso l'Istituto sieroterapico diretto da S. Belfanti. Nominato, in seguito a pubblico concorso, medico di sezione nell'ospedale psichiatrico provinciale di Brescia, continuò a prestarvi servizio negli anni seguenti, tranne un breve periodo tra il 1927 e il 1928, quando, vinto il relativo concorso, ricoprì il ruolo di primario nell'ospedale psichiatrico provinciale di Verona.

Approfondiva nel frattempo lo studio della patologia neuropsichiatrica: dopo aver frequentato a Parigi nel 1926 le lezioni di anatomia patologica del sistema nervoso tenute da I. Bertand alla clinica della Salpetrière e quelle di neuropsichiatria alla clinica delle malattie mentali e dell'encefalo diretta da H. Claude, studio la semeiotica delle malattie nervose alla scuola del Medea e frequentò le cliniche delle malattie nervose e mentali di Pavia e di Milano. dirette rispettivamente da O. Rossi e da C. Besta. Inoltre, per arricchire la propria esperienza in campo neurologico e neurochirurgico, frequentò anche l'ospedale civile di Brescia. Conseguita nel 1931 la libera docenza in clinica delle malattie nervose e mentali, nell'anno accademico 1932-33 tenne nell'università di Milano il corso libero su "metodi moderni di indagine radiologica nelle malattie nervose e mentali". Nello stesso 1931 vinse il concorso per direttore dell'ospedale psichiatrico di Parma, ma preferì rimanere in servizio a Brescia. L'anno successivo si trasferì invece a Sondrio come direttore dell'ospedale psichiatrico provinciale; qui si impegnò in varie attivita organizzative in qualità di membro del Consorzio antitubercolare della provincia, di segretario del Comitato valtellinese per la lotta contro il gozzo (Lo stato attualedell'endemia gozzo-cretinica in Valtellina, in Rassegna di studipsichiatrici, XXIII [1934], pp. 866-893), di incaricato della direzione della sezione medico-micrografica del laboratorio di igiene e profilassi della provincia, di membro del Consiglio provinciale di sanità. Fu anche seniore medico nei quadri ordinari della Milizia volontaria di sicurezza nazionale. Nel giugno 1935 fu nominato direttore dell'ospedale psichiatrico della provincia di Vercelli, che era ancora in costruzione, e incaricato della consulenza tecnica per le ultime fasi del completamento edilizio della struttura e la preparazione dei regolamenti. Nel 1937, infine, vinse il concorso per la direzione dell'ospedale psichiatrico della provincia di Varese, da poco istituita, che mantenne fino al 1964.

Il grande complesso varesino era allora in costruzione, articolato in padiglioni, al centro di una vasta area di 130.000 metri quadrati, nel rione di Bizzozero, alla periferia della città: il F. poté così partecipare alle fasi di completamento e di definizione funzionale delle varie strutture, legando il suo nome a un ospedale che doveva rappresentare, per diversi anni, uno tra i più qualificati punti di riferimento dell'assistenza psichiatrica italiana. Nel 1942 avrebbe esteso l'attività clinica al di fuori delle mura nosocomiali, con l'apertura nelle principali località della provincia di centri di assistenza nei quali erano inviati a operare i medici dell'ospedale.

Inaugurato nel 1939, l'ospedale psichiatrico di Varese fu subito costretto ad affrontare il difficile periodo della guerra, durante il quale venne temporaneamente chiuso: i suoi padiglioni, infatti, dopo il trasferimento dei pazienti che vi erano ricoverati nei manicomi di altre province, furono destinati a ospitare, tra il 1943 e il 1944, un centro specialistico neurochirurgico per i militari tedeschi e ad accogliere poi il ricovero di soldati italiani affetti da tubercolosi. Subito dopo la riapertura, nel 1948, iniziò il periodo più florido del centro di Varese, sia sul piano clinico sia su quello scientifico: imponendosi all'attenzione degli ambienti specialistici nazionali e internazionali, il F. prodigò le sue energie al progetto di una vera scuola ospedaliera di applicazione della psichiatria. Fedele alla tradizione neuropatologica italiana alla quale si era formato, fu tra i sostenitori delle terapie biologiche e dell'indirizzo morfologico nell'indagine scientifica, che seguì assiduamente nelle ricerche autoptiche. Non trascurò, tuttavia, gli aspetti sociali della psichiatria, interessandosi in particolare ad alcuni settori innovativi dei trattamenti ergoterapici e psicoterapici, e partecipando al dibattito che si svolse per decenni sull'opportunità di riforma della legislazione manicomiale: nel 1953, al congresso di medicina sociale a Milano, sostenne la necessità di abrogare la vecchia legge del 1904.

La produzione scientifica del F., espressa in numerose pubblicazioni, spaziò su gran parte degli argomenti oggetto dell'attenzione specialistica dei suoi tempi: tuttavia è possibile individuare alcuni temi particolari ai quali egli dedicò maggiore attenzione, anche nel ruolo di autore di proposte originali che gli valsero un'indiscutibile notorietà nel panorama della psichiatria italiana contemporanea.

Condusse i suoi primi studi sull'epilessia e sul problema sociale del relativo trattamento, sul liquido cefalorachidiano, sul sangue e sulla patologia del sistema nervoso: a proposito di tale ultimo argomento, meritano di essere ricordati i lavori sui tumori del lobo frontale (Contributo clinico e anatomatologico allo studiodeitumori del lobo frontale sinistro, in Riv. di neurologia, IV [1931] pp. 113-172; Sopra il quadro oftalmoscopico di Foster Kennedy nei tumori del lobo frontale, in Riv. oto-neuro-oftalmologica, X [1933], pp. 514-524).

Un settore di indagine al quale il F. si interessò in modo particolare fu quello della acetilcolinoterapia. La sua proposta di cura della schizofrenia con l'acido acetilcolinico s'inseriva nel generale quadro di fiduciosa adesione del tempo alle terapie di shock. La storia delle terapie di shock s'iniziò con l'introduzione della tecnica del coma insulinico nel trattamento di differenti tipi di pazienti psichiatrici: M. Sakel aveva notato che gli stati ipoglicemici più profondi avevano un effetto favorevole su diversi quadri psicotici e, pur senza partire da predeterminazioni teoriche definite, con alcuni lavori pubblicati tra il 1933 e il 1936 aveva proposto lo shock insulinico, impostosi subito largamente come cura biologica della schizofrenia. Si dovette poi, in quello stesso periodo di tempo, a L. J. von Meduna la segnalazione dell'efficacia terapeutica delle convulsioni epilettiche su certi quadri psicotici, basata sulla convinzione di un antagonismo di compatibilità biologica fra epilessia e schizofrenia: l'ipotesi originale di questo autore fu formulata nel 1934 e segnalata alla comunità psichiatrica nel 1935 con il perfezionamento del metodo di shock al cardiazol. Su tali esperienze si era fondato U. Cerletti per dare il suo contributo veramente fondamentale in questo capitolo di cure nel 1938, con la messa a punto, della tecnica dell'elettroshock. Il F., che aderì subito alle suggestioni di queste pratiche di terapia biologica della psicosi, era entrato nella discussione nel 1937 quando, dopo aver compiuto esperienze con l'acido acetilcolinico, segnalava il possibile uso terapeutico della sostanza, che appariva in grado di indurre crisi a carattere epilettico. Dai primi tentativi di pratica applicazione del suo metodo, egli passò a elaborare anche una personale visione teorica, basata su una particolare concezione biochimica della psicosi schizofrenica e dei suoi rimedi. Le conoscenze neuroumorali d'epoca stavano aprendo il cammino allo studio più approfondito della mediazione chimica a livello delle sinapsi cerebrali e nelle incertezze del momento si potevano formulare molte ipotesi. Il F. nel 1943, appoggiandosi a dati fisiologici e biologici, sosteneva che le alterazioni psichiche del malato schizofrenico fossero dovute a una patologica interruzione della conduzione nervosa a livello verosimilmente corticale e ne proponeva il trattamento con i derivati della colina in grado di scatenare quella che lui definiva una "burrasca vascolare" (Sul meccanismo d'azione terapeutica della "burrasca vascolare" provocata con derivati della colina, in Giorn. di psichiatria e di neuropatologia, LXVII [1939], pp. 270-280). Raccolse i suoi concetti e le sue osservazioni nel volume L'acetilcolina nelle sindromi schizofreniche. Interpretazione patogenetica della dissociazione mentale e sua applicazione terapeutica, edito a Firenze nel 1946, per il quale ottenne il premio Brasile al XXIV congresso nazionale di psichiatria. Il metodo del F., ricordato come speciale capitolo delle terapie di shock accanto alle tecniche più diffuse, dopo un breve periodo di diffusione e di applicazione negli anni Cinquanta, tramontò rapidamente per la fragilità delle sue basi teoriche, prima ancora che per il generale allontanamento degli psichiatri dalle terapie biologiche.

Maggiori risultati e riconoscimenti di valore in campo internazionale furono raggiunti invece dal F. con la sua proposta della leucotomia transorbitaria. Un ruolo centrale, nella sua produzione scientifica, è costituito infatti dall'impegno in questo capitolo, che aveva assunto posizioni rilevanti nelle discipline neurochirurgiche, in consonanza con l'orientamento generale dell'epoca. A. C. de Egas Moniz aveva pubblicato nel 1936 i primi risultati dei suoi interventi sul centro ovale del lobo prefrontale, come trattamento efficace a ridurre la sintomatologia di certe psicosi. Partendo dall'ipotesi che in alcuni malati psichici, soprattutto i deliranti, la sintomatologia fosse sostenuta anche dal ruolo dei legami costituiti dalle fibre di connessione, che egli definiva "connessioni stabilite", aveva proposto di provocare limitate distruzioni di quelle fibre, sia con iniezioni di alcool, sia servendosi di uno speciale leucotomo, accedendo all'encefalo attraverso fori di trapanazione della teca cranica. Le basi teoriche dell'operazione erano state subito discusse in Italia con argomentazioni abbastanza critiche, pubblicate già nel 1937 da M. Gozzano, che considerava frutto di un semplicismo quasi ingenuo l'ipotesi di identificare anatomicamente il meccanismo del pensiero delirante nel sistema di fibre a percorso quasi obbligato; le stesse premesse istologiche erano state definite addirittura una tmitologia indigeribile". Tuttavia in molti ambienti psichiatrici si era affermata presto la forza convincente di queste tecniche che, nelle incertezze del momento e nella scarsità di altre proposte di cura, vissero una stagione di grande fiducia. La nuova disciplina prese il nome di "psicochirurgia" e, pur attraversata da molte discussioni, vide ampliarsi largamente la schiera dei suoi sostenitori lungo gli anni Quaranta e Cinquanta, prima di essere abbandonata nei decenni seguenti.

Inizialmente il F. si era astenuto da giudizi e discussioni sulle premesse teoriche, dichiarandosi interessato piuttosto ai risultati pratici che si conseguivano e si potevano dimostrare. Per poter applicare le tecniche leucotomiche ad alcuni pazienti dell'ospedale di Sondrio, di cui era all'epoca direttore, studiò un mezzo di intervento che fosse di più facile attuazione rispetto alla trapanazione proposta da Egas Moniz. L'idea gli era suggerita dalla tecnica che aveva visto praticare, già da qualche anno, da A. M. Dogliotti per la ventricolografia cerebrale, attuata mediante puntura transorbitaria con un ago introdotto nel corno frontale del ventricolo passando attraverso il centro ovale del lobo prefrontale: il F. pensò di usare gli stessi strumenti per giungere a livello del centro ovale in rapporto al diverso scopo operatorio. Introduceva un ago guida, del tipo di un tre quarti, nella teca cranica scivolando nello spazio tra l'arco sopraorbitario e il bulbo oculare, con forte obliquità verso l'alto e all'indietro, e perforando con forza la volta orbitaria circa un centimetro dietro il margine sopraciliare; superata la resistenza dell'osso, toglieva il mandrino dell'ago guida e introduceva l'ago lungo e sottile da puntura cerebrale a punta smussa. Trattò dapprima una decina di pazienti gravi, in cui ebbe una buona tolleranza all'intervento, e comunicò i risultati nella nota Proposta di una tecnica operatoria modificata e semplificata per gli interventi alla Moniz sui lobi prefrontali in malati di mente, in Rass. di studi psichiatrici, XXVI (1937), pp. 797-805. L'intervento su quei primi dieci casi di Sondrio era stato attuato con l'iniezione di alcool assoluto, nella quantità indicata da Egas Moniz, ma già nella prima comunicazione scientifica il F. segnalava di aver commissionato a una fabbrica di strumenti chirurgici la costruzione di un nuovo modello di leucotomo, da lui ideato modificando quello del collega portoghese: poté presentare il suo originale strumento con una comunicazione al convegno psichiatrico interregionale per la cura moderna della schizofrenia, tenutosi a Rovigo nell'ottobre 1938 (Considerazioni sulla leucotomia prefrontale con il metodo transorbitario, in Giorn. di psichiatria e di neuropatologia, LXVII [1939], pp. 291-295).

Superati gli anni della guerra mondiale, dalla sua nuova sede di Varese il F. tornò nel 1947 a trattare di quella tecnica che era stata applicata oramai a una quarantina di pazienti, senza inconvenienti. a Sondrio e a Varese, ma anche a Rovigo, Pesaro e Voghera, e che cominciava a essere conosciuta e praticata da altri in vari ambienti. In Indicazioni e tecnica della leucotomia prefrontale transorbitaria (in Rass. di neuropsichiatria e scienzeaffini, I [1947], pp. 181-187) tracciava un sintetico bilancio degli undici anni trascorsi dalla prima audace proposta di Egas Moniz, che aveva sollevato adesioni entusiastiche insieme con dissensi profondi e recisi, per descrivere la sua tecnica fondata oramai sul leucotomo modificato: questo strumento era costituito da un tre quarti, con il mandrino che faceva agire una sottile lamina d'oro, cui era affidato il compito di sezionare i fasci nervosi.

Il metodo transorbitario del F. offriva il vantaggio non trascurabile di potere essereb praticato su vasta scala negli istituti psichiatrici, perché non richiedendo una trapanazione, vero e proprio atto di chirurgia intracranica, poteva essere eseguito non solo dai chirurghi, ma da tutti gli psichiatri. In campo internazionale aveva presentato il leucotomo alla settima Réunion des oto-neuro-ophtalmologues et neuro-chirurgiens de la Suisse romande (Technique et indications de la leucotomie transorbitaire, in Confinia neurologica, VIII [1947-48], pp. 354-356) e la sua proposta aveva trovato buona accoglienza anche Oltreoceano: W. Freeman, neuropsichiatra della G. Washington University, riconobbe alla leúcotomia transorbitaria un posto a sé stante, collocandola tra le terapie di shock e la lobotomia alla Moniz nelle più raccomandabili strategie di cura della malattia mentale (Transorbital lobotomy; preliminary report of ten cases, in Medical Annals of the District of Columbia, XVII [1948], pp. 257-261, e Psychosurgery, retrospect and project based on 12 years experience, in American Journal of psychol., CXI [1961], pp. 601-603). Una ampia valutazione del problema fu presentata al XXV congresso nazionale della Società italiana di psichiatria, a Taormina, nel 1951, nel quale la psicochirurgia era stata scelta come primo tema di relazione: il F. fu uno dei tre relatori ufficiali, trattando della parte clinica (La leucotomia transorbitaria nel quadro della psicochirurgia, in Il Lavoro neuropsichiatrico, IX [1951], pp. 5-44).

Un terzo argomento scientifico che egli coltivò con interesse nelle pratiche applicazioni del suo ospedale, era quello della psicoterapia d'ambiente secondo le nuove teorizzazioni che riprendevano e rielaboravano i più antichi concetti del non restraint, applicandoli a quelli aggiornati di ergoterapia. Nel lavoro La psicoterapia d'ambiente e individuale, complemento delle cure psichiatriche moderne (in Rass. di studi psichiatrici, XLI [1952], pp. 1220-1227), egli insisteva sulla dimensione organizzativa della vita d'ospedale, del trattamento, delle sfumature dell'assistenza e comportamenti del personale medico e infermieristico. In realtà questo particolare settore di impegno è quello che maggiormente si lega all'azione del F. come direttore e organizzatore di ospedale: egli operò infatti sempre per dare al paziente psichiatrico la dignità di malato e per superare i meccanismi di emarginazione che ancora gravavano pesantemente sulla malattia mentale e sui luoghi delle sue cure. Erano comunque le linee di uno sviluppo che già allora cominciava a essere fortemente contestato dal nascente movimento antipsichiatrico e che in breve tempo sarebbe poi stato messo definitivamente in crisi, in Italia, fino a giungere, nel 1978, alla chiusura degli ospedali psichiatrici.

Il F. si interessò anche dei problemi didattici della neuropsichiatria (Sull'insegnamento universitario della psichiatria, in Arch. di psicologia, neurologia e psichiatria, VIII [1946], pp. 394-399), di psichiatria forense, di legislazione e di tecnica manicomiale. A testimonianza della sua attività a favore dello sviluppo dei rapporti dell'ospedale con l'esterno e dell'apertura verso il territorio rimane il suo lavoro Inizio, sviluppo e indirizzo dei servizi di igiene e profilassi neuro-mentale nella provincia di Varese, in Rass. di studi psichiatrici, XXXI 1942), pp. 428-449. Coltivò anche qualche interesse storico, impegnandosi nella celebrazione di figure illustri della medicina e della chirurgia varesina: Grandi medici varesini del sec. XVIII, in Boll. della Società medico-chirurgica della provincia di Varese, I (1947), pp. 3-27; La vita e l'opera di G. B. Monteggia, in Minerva medica, LIII (1962), pp. 3877-3882. Della sua inclinazione a più vasti campi di cultura umanistica resta testimonianza in contributi come Genio e malattia in G. Donizetti, Gallarate 1959, o nella commedia Indifesi, Varese 1959, che proponeva alcune problematiche d'attualità della vita manicomiale.

Il F. ottenne il pensionamento il 1º febbr. 1964, ma restò responsabile della carica di direttore dell'ospedale di Varese, come reggente, fino al maggio seguente. Nel 1970 gli venne conferito il titolo di direttore emerito. Lasciata la direzione medica dell'ospedale, nel 1964 era stato eletto alla carica di consigliere provinciale nelle liste del Partito liberale italiano, occupandosi così ancora, in veste politica, dei temi dell'assistenza psichiatrica.

Rimasto vedovo di Alfonsina Mondino, morì a Feltre (Belluno) il 31 ag. 1970. Aveva nominato suoi eredi principali il Comune di Canneto Pavese e l'ospedale di Stradella e lasciò la sua raccolta di libri alla biblioteca dell'ospedale neuropsichiatrico di Varese.

Fonti e Bibl.: Varese, Arch. della Provincia, fasc. personale; L. B. Kalinowsky-P. H. Hoch, I trattamenti somatici in psichiatria, Roma 1962, pp. 341 s.; E. Balduzzi, Le terapie di shock, Milano 1962; Id., L'ospedale neuro-psichiatrico di Varese nei suoi primi vent'anni di attività, Varese 1961; D. Belvedere - A. Zanobio, Le leucotome de Fiamberti, in Actes du4e colloque des conservateurs des musées d'histoire des sciences médicales, Lyon 1990, pp. 255-257.

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