Adamo

Enciclopedia Dantesca (1970)

Adamo

Andrea Ciotti
Pier Vincenzo Mengaldo

. Il nome di A. (dall'ebraico 'ādām, greco Ἀδάμ) significa " uomo "; nell'esegesi antica si stabilì un rapporto tra 'âdhâm (uomo) e âdâhmah (terra) sul tipo homo=humus. Nell'opera di D. il nome del primo uomo ricorre assai frequentemente, secondo la tradizione scritturale biblica di non trascurabile rilevanza teologica, in modo particolare nel Convivio, nel De vulgari Eloquentia, nella Monarchia, nonché per richiami diretti o indiretti nella Commedia. In due luoghi (Pg IX 10 e XI 44) il poeta fa uso del nome di A. per indicare l'attributo corporeo proprio della natura umana e l'indice della sua evidenza e presenza fisica (quel d'Adamo; per lo 'ncarco / de la carne d'Adamo) in due momenti itineranti sostanzialmente analoghi, ma certamente non unici nelle tre cantiche, nei quali la fatica dell'ascesa si avverte con precipua insistenza nella condizione del pellegrino, uomo ancora vivo, ed è questa una situazione propria del Purgatorio.

Il nome di A. è anche usato per indicare lo stato della natura umana, senza alcun rilievo corporeo, ma piuttosto nel rapporto di discendenza dal primo uomo. In Cv IV XV 3-5 e 7, in un contesto nel quale è ribadito il concetto secondo il quale gli uomini in quanto suoi discendenti sono quali egli fu, o nobili o vili, D. si richiama a Salomone che appunto chiama tutti gli uomini " figli d'A. ". In Pg XXIX 86 (Benedicta tue ne le figlie d'Adamo), nel rito con cui la mistica processione celebra le virtù di Beatrice, la donna di grazia, in un'analogia significante che richiama Cv II V 2 ove si parla di Maria, ritorna, per dare magnificante rilievo al privilegio di essa secondo i moduli liturgici e scritturali, la notazione che tutte le donne, in quanto creature, sono figlie di Adamo. In If III 115 i peccatori che sulla riva d'Acheronte attendono di essere traghettati al di là e avviati alla loro eterna pena sono indicati con formula generica e comprensiva, ma caratterizzante e allusiva per la qualificazione della degenerazione morale, come il mal seme d'Adamo.

Altrove invece il ricorso del nome di A. si riferisce a proposizioni concettuali variamente modulate e incisive sul piano religioso, etico, politico e linguistico con una problematica ricca di sollecitazioni e di interessi, sui quali si concentra il pensiero del poeta che vi porta la sua meditata riflessione. Di A. è innanzitutto posto in evidenza il fatto che egli fu il primo uomo (Cv IV XV 3 e If IV 55) e il padre di tutta l'umanità (Pg XXXIII 61-63, Pd VII 25-27, XIII 110-111, XXVI 82-84 e 91-93). Egli fu creato da Dio anima e corpo e dotato di doni gratuiti in un ordine naturale e soprannaturale, e pertanto fu considerato degno di vedere direttamente il suo creatore. Incapace, però, di obbedire alla volontà divina, contro il suo stesso bene egli peccò e con la sua colpa dannò i discendenti di tutte le generazioni a subire le conseguenze del peccato originale. Con la cacciata dal Paradiso terrestre, assegnatogli come soggiorno all'atto della creazione, A. fu privato di tutti i beni ricevuti e si trovò impossibilitato a conseguire lo stato di felicità e di perfezione naturale. In lui infatti senza mezzo Dio spirò la vita dell'anima (VE I V 1, VI 1), creandolo pieno di ogni perfezione (Pd XIII 37-38, 43-45, 82-83 e 111) per atto d'amore.

Per conseguenza del peccato di A. deriva la corruzione della primitiva natura umana (Mn I XVI 1, II XI 2), in quanto dalla sua colpa tutte le generazioni si trovarono a essere investite ed essa fu punita e riscattata al tempo stesso, dopo la lunga attesa che anche il primo uomo sopportò tra i limbicoli, da Cristo, il novello A., in virtù del sacrificio della croce che riportò i figli dell'ira nello stato di figli della Grazia. In particolare, D. accenna a questo motivo, che ricorre nella tradizione patristica e scolastica, in Pd VII 85-93, con una sintomatica identificazione del peccato con la follia, apportatrice di abissale sciagura. Il poeta sottolinea anche la condizione della natura privata dei doni divini nella figurazione della pianta dispogliata che il pellegrino oltremondano immagina d'incontrare nella simbologia liturgica e rituale del Paradiso terrestre, in un senso di naturale dolorosa miseria che, sul fondo di un'indicazione morale cui s'aggiunge una notazione etico-politica con un accento palese di biasimo che il nome di A. anticipa nel concetto, prima ancora che si succedano le forme della visione, dà rilievo, per contrasto, ai termini assoluti del bene e del male, interpretati nella storia dell'uomo. L'episodio (Pg XXXII 37-39) contestualmente richiama in piena rispondenza ai significati etici e politici del poema la rottura della concordia tra Dio e gli uomini, e di riflesso comporta la forte evidenza data, su tale piano, al conseguente e inevitabile, nell'ordine temporale, depauperamento dell'Impero. Gli effetti della cupiditas sono presentati ai due estremi cronologici, ai primordi della natura creata e nella situazione presente della società. Questa condizione è, all'origine, perdita della Grazia e al tempo stesso del soggiorno paradisiaco (Pd VII 85-87). La natura del peccato, dal quale derivò l'esilio riscattato dalla redenzione, è individuata non tanto nell'atto materiale compiuto dal primo uomo, quanto piuttosto nella sua disobbedienza, per volontà e intelletto, al comando divino.

Nella rappresentazione del Paradiso terrestre come del luogo assegnato da Dio all'umanità e perduto per causa del peccato di A. il poeta sottolinea lo stato breve di felicità e d'innocenza (Pg XXVIII 142-144), in quanto il primo uomo rimase nell'Eden soltanto sette ore (Pd XXVI 139-142), mentre visse in terra novecentotrenta anni e attese nel Limbo, prima di essere tratto al cielo da Cristo, quattromilatrecentodue anni (If IV 55 e Pd XXVI 118-123). Il rimorso della lunga attesa, prima ancora che dalla diretta evocazione di A. personaggio, presente al momento cruciale nel quale D. pellegrino, al limite dell'ascesa e quasi nell'imminenza di portarsi alla fase conclusiva ed esaustiva dell'ultima visione, è sottoposto all'esame sulle virtù teologali, era, del resto, stato già sottolineato, alla fine del Purgatorio, nei canti del Paradiso terrestre (XXXIII 61-63), dove ritorna l'idea madre dell'intima rispondenza tra peccato e redenzione. Per il fatto, tuttavia, di essere stato creato direttamente da Dio è accordato ad A. il privilegio di sedere nell'Empireo a sinistra di Maria (Pd XXXII 121-123): colui che da sinistra le s'aggiusta / è 'l padre per lo cui ardito gusto / l'umana specie tanto amaro gusta; e al v. 136 egli è indicato come il maggior padre di famiglia.

Secondo il poeta, per quanto nelle Scritture appaia piuttosto il contrario, è credibile, non fosse altro che per un motivo di ragionevole convenienza, che A. parlasse prima di Eva (VE I IV 3), e ciò, secondo il Terracini, in rispondenza a un andamento dialettico tipicamente medievale. Tale lingua, creata da Dio insieme con l'anima del primo uomo, fu parlata fino alla confusione della torre di Babele (VE I VI 4-5). Quest'ultima affermazione è contraddetta specificamente, in risposta al non espresso ma ugualmente noto all'anima beata desiderio di D., da A. personaggio, in Pd XXVI 124-142, in un contesto esplicativo piuttosto ampio e dettagliato anche nei particolari, secondo il concetto che, nella trasmissione delle generazioni, ogni cosa, quindi anche la lingua, è naturalmente soggetta a trasformazioni: La lingua ch'io parlai fu tutta spenta / innanzi che a l'ovra inconsummabile / fosse la gente di Nembròt attenta: / ché nullo effetto mai razïonabile, / per lo piacere uman che rinovella / seguendo il cielo, sempre fu durabile. / Opera naturale è ch'uom favella; / ma così o così, natura lascia / poi fare a voi secondo che v'abbella. / Pria ch'i' scendessi a l'infernale ambascia, / I s'appellava in terra il sommo bene / onde vien la letizia che mi fascia; / e El si chiamò poi: e ciò convene, / ché l'uso d'i mortali è come fronda / in ramo, che sen va e altra vene.

In realtà, in VE I IV 3-5 D. afferma non esservi dubbio che la prima parola pronunciata da A. sia stato il nome di Dio: non titubo ipsum fuisse quod Deus est, scilicet EL, in ciò seguendo verosimilmente Isidoro. Si tratta, comunque, di un altro punto radicalmente contraddetto o corretto nel poema, come si vede dai versi sopra citati, intorno ai quali, oltre al secolare commento, si può facilmente richiamare un'assai ampia letteratura critica. Nella visione provvidenziale che ispira tutta l'opera di D. il primo uomo sta all'inizio dell'attuazione dell'imperscrutabile disegno divino verso la creatura, della quale rappresenta in termini sintetici ma sintomaticamente allusivi la grandezza e la miseria, con la promessa di una felicità spirituale in uno stato di natura perfetta che il peccato ha interrotto, ma che la redenzione ha riscattato nella discendenza delle generazioni. E sta anche al principio, oltre ciò che di effimero è in ogni avvenimento quotidiano, dell'opera di liberazione dalla presente deviazione, che è della società e dei singoli individui, purché si riesca a ritrovare la via della Grazia attraverso il risveglio della coscienza e il ritorno sull'itinerario della verità e della salvezza. Il citato passo di Pd xxvl 124-138 dimostra che verosimilmente le ricerche condotte sulla letteratura patristica indussero D. a maturare il suo pensiero dopo il De vulgari Eloquentia e a presentare qui la nuova dottrina, la quale, del resto, è ispirata al concetto d'ordine generale affermato nel trattato (I IX 6), e cioè che tutto ciò che è umano è transeunte e mortale. La differenza più sensibile tra la posizione dichiarata nel De vulgari Eloquentia e quella successiva del poema consiste in questo: nel trattato latino la lingua è fatta da Dio ed è concreata con l'anima " quanto ai vocaboli coi quali eran designate le cose, quanto alla costruzione delle parole e perfino quanto al modo di proferire il discorso " (Nardi, cit.), e tale doveva mantenersi sempre, prima e dopo la torre di Babele; nel poema, invece, la lingua parlata da A. era creazione sua, cioè opera naturale, e quindi come tale soggetta alla legge della mutabilità. La prima negazione riguarda la durata della lingua parlata da A.; essa viene dichiarata spenta prima dell'edificazione della torre di Babele; ne consegue una chiara affermazione di principio (la lingua come atto e fatto naturale) che rende ragione del tono perentorio dell'attacco iniziale e al tempo stesso introduce il citato concetto della mutabilità delle cose umane, inserendovi, per altro, una connotazione sulla libera scelta affidata anche in questo campo all'uomo, non senza un apprezzamento qualitativo di rilievo non meramente estetico o stilistico. Questa affermazione, nella convenienza del contesto paradisiaco, concorda ancora nell'assunzione, come termine esplicativo, del nome di Dio per dare ragione e prova della legge di variazione enunciata. Il motivo stesso è metaforicamente ribadito mediante l'analogia della fronda e del ramo.

In una visione di sintesi che consideri dal punto di partenza a quello d'arrivo la questione della lingua parlata da A. si coglie l'indicazione di un processo di successivo arricchimento di cultura e di sedimentazione e approfondimento concettuale che attesta la presa di coscienza da parte di D. di una dottrina che l'ha sempre vivamente interessato. Costituito il rapporto tra i termini dell'essere e quelli dell'esistente, egli riporta nell'ambito dell'umano, in ciò che lega alle dimensioni dello spazio e del tempo, come condizione propria di tutte le cose create, la natura della lingua, della quale afferma la mutabilità non in dipendenza da fatti o avvenimenti successivi alla sua origine, ma perpetua, ipotizzata, pertanto, come tale (e in ciò sta il significato autentico della correzione) fin dall'atto stesso della creazione del primo uomo. Può anche vedersi in questo atteggiamento di pensiero di D. la conquista di una vivace forma speculativa interessata alla natura del linguaggio sotto l'aspetto dottrinale e artistico insieme, ricondotta così entro le capacità e le scelte operative proprie dell'uomo, il quale ne modula e articola le variazioni anche assecondando la rispondenza sempre rinnovantesi dei suoi sentimenti. Nel tono deciso dell'affermazione c'è la consacrazione di una conquista di non trascurabile rilevanza, tanto sul piano del pensiero, quanto su quello della poesia. Così, in un'accezione di ampio e profondo significato che ne acclara e avvalora al tempo stesso le dimensioni e la natura è il personaggio storico e figurale di A., nel quale si esprime il mito della dignità umana, grande in sé stessa anche nella sua caduta, solo che si pensi al sacrificio divino richiesto per restaurarla nel tempo storico della Grazia e nella simbologia attuale si consideri l'abisso di crisi della società sconvolta per la confusione dei poteri e il generale disordine, per la cupidigia che investe Chiesa e Impero, guastando il mondo che vive nel male. Per questo il poeta riscopre nella sua visione gli esempi di una storia, quella appunto umana, che, pur tra gli errori e le deviazioni dalla retta via, ha nella sua radice il viatico della redenzione e della speranza. Perciò A. e Cristo esprimono nel concetto della Commedia due momenti fissi, l'uno dei quali richiama l'altro nell'incontro d'amore tra la storia dell'uomo e quella di Dio. Così si spiega nell'ordine di una responsabile razionalità il fatto che D., in un certo senso, abbia posto al centro di una considerazione generale dell'umanità la figura di A. e su di essa sia venuto gradatamente raccogliendo i moduli di un discorso morale e teologico che trova piena armonica composizione e celebrazione nell'incontro con il primo uomo, in Pd XXVI 124-142. L'ansia del poeta pellegrino non nasce da epidermica curiosità, ma da una consapevole esigenza di giustizia, capace di proiettare una sintetica visione di luce sul tormentato cammino della creatura terrena, ed è appagata dalle parole di A., nelle quali è ribadito il concetto dell'amore e della provvidenza di Dio nonché della libertà e dignità dell'uomo.

Bibl. - In particolare: B. Nardi, Il linguaggio, in D. e la cultura medievale, Bari 19492, 216-247; E.G. Parodi, Note alla D.C., in Lingua e letteratura, a c. di G. Folena, Venezia 1957, II 395-396; B. Terracini, Natura ed origine del linguaggio umano nel " De Vulgari Eloquentia ", in Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze 1957, 237-246; Damon Philip, A. on the Primal Language: Paradiso XXVI 124, in " Italica " xxxvlll (1961) 60-62; E. Donadoni, Il canto XXVI del Paradiso, in Lett. dant. 525-548; W.T. Elwert, Il canto VII del Paradiso, ibid. 117-140; G. Fallani, Poesia e teologia nella D.C., II, Milano 1961; U. Bosco, D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 71; B. Nardi, Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, ad indicem.

La lingua di Adamo. - Nell'ampia premessa sulla natura, genesi e storia del linguaggio che occupa, con gusto enciclopedico ed eziologico tipicamente medievale, la parte iniziale del De vulgari Eloquentia, ha un posto importante il tema del primiloquium, cui sono dedicati tre capitoli (I IV-VI). La tesi che il primo parlante sia stato A. è metodologicamente importante perché comporta, nel ragionamento di D., un'esplicita smentita da parte della ragione (verosimilmente basata sulle nozioni correnti della maggior peccaminosità di Eva rispetto ad A. e in genere dell'infermità razionale delle donne) a un passo della Scrittura (Gen. 3, 2-3), letteralmente citato in VE I IV 2, stando al quale le prime parole sarebbero state quelle pronunciate da Eva in risposta al serpente: è anzi probabilissimo che la rettifica coinvolga anche l'autorità dell'esegesi tradizionale del testo sacro, se in scriptis (I IV 3, che non va assolutamente emendato, come dal Marigo, in ‛ Script[ur]is '), significa più probabilmente nei testi " che " nella Scrittura " (anche questo senso è peraltro possibilissimo; v. ad es. R. Bacone, Linguarum cognitio, in Opus maius, ed. Bridges, 96). Vero è che dalla stessa Genesi (2, 19-20) risulta che è stato A. a parlare per primo, dando il nome a tutti gli animali (cfr. inoltre ibid. 23): non è pensabile, come è stato anche supposto, un lapsus di D., ma è più opportuno ritenere, col Dragonetti, che egli, coerentemente alla sua concezione del linguaggio (VE I II 3, III 2 e anche IV 1: ad quem), intenda riferirsi all'atto linguistico in senso pieno, che presuppone un interlocutore. Dunque D. afferma (I IV 4 ss.) che è stato A. il primo a parlare, appena creato, rivolto a Dio di cui pronuncia il nome (El) in atto di giubilo e di gratitudine (cfr. Ps. 50, 17 " Domine labia mea aperies, / et os meum adnuntiabit laudem tuam "), o interpellando per primo il creatore o rispondendogli (ma s'intende che Dio non ha linguaggio nel senso umano del termine).

È opportuno ricordare che tale concezione, per cui A. subito dopo la creazione si sarebbe rivolto al creatore in un fervido ringraziamento, appare abbastanza diffusa nella cultura medievale, sebbene non a livello filosofico ‛ specialistico ': cfr. ad es. una redazione (sec. X) dei Ioca Monachorum (Das mittellateinische Gespräch Adrian und Epictitus..., ed. Suchier, 120): " Qui [=quid] prius locutus est Adam? - Deo gratias "; il Jeu d'Adam (ed. Grass, 2), e parallelamente il Mystère du Vieil Testament (ed. Rothschild, 130). Che la parola pronunciata da A. fosse El deriva poi dalla vulgata nozione (cfr. se non altro i lessici, da Isidoro a Uguccione da Pisa) secondo cui tale era il primo e il tipico dei nomi ebraici di Dio; e anche in Pd XXVI 136, quando D. cambierà idea sul rapporto tra linguaggio adamitico e lingua ebraica, il nome ebraico di Dio resterà El.

Quanto alla natura e origine della lingua adamitica, D. è esplicito: dicimus certam formam locutionis a Deo cum anima prima concreatam fuisse (VE I VI 4: ‛ forma concreata ' è tipica formula tomistica). Cioè, parafrasando col Terracini, D. intende dire che " con Adamo Dio ha creato addirittura la struttura del linguaggio, il che è assai più determinante di una semplice facoltà di esprimersi per mezzo della parola ": e ciò in contrasto con le vedute nettamente prevalenti (anche se per lo più suggerite, piuttosto che formulate chiaramente) nella filosofia scolastica, secondo cui il linguaggio era stato insomma creazione adamitica, sulla base della concessione della facoltà di parlare da parte di Dio (e v. Gen. 2, 19-20).

Troppi elementi rendono perentoria, checché alcuni studiosi abbiano detto e dicano, questa interpretazione letterale: l'aggettivo ‛ certus ', che varrà, come in VE II IX 6, " ben determinato "; l'uso non generico, ma concretamente applicato ai vari piani della lingua (vocabula, constructio, prolatio), di forma, e lo stesso valore di forma locutionis o simili come organizzazione, ordinamento della materia linguistica, nell'uso medievale (v. ad es. Avencebrol, Fons vitae, ed. Baeumker, 336; Ch. Thurot, Notices et extraits de divers manuscrits pour servir à l'histoire des doctrines grammaticales au moyen âge, Francoforte 19642, 156, 458), mentre comunque forma importa sempre, nel linguaggio scolastico, la nozione di realizzazione, di atto; l'insistenza sullo specifico termine in questione (e non, poniamo, sul semplice locutio) nel passo in cui si afferma che la lingua d'A. sarebbe rimasta a tutti gli uomini, come è rimasta agli Ebrei, senza la colpa babelica (I VI 5-6); infine e soprattutto il fatto che solo una simile concezione della lingua adamitica come prodotto divino permette di sottrarla alla regola per cui il linguaggio, in quanto creazione umana ad placitum, è soggetto a continuo mutamento (sicché, nella ‛ ritrattazione ' di Pd XXVI 124 ss., la nuova tesi secondo cui la lingua adamitica fu tutta spenta prima di Babele, comporterà necessariamente l'affermazione del suo carattere di libera produzione umana: l'idïoma ch'usai e che fei, v. 114; e cfr. I vv. 127-132).

A tale interpretazione non osta la chiusa di VE I VI Fuit ergo hebraicum idioma illud quod primi loquentis labia fabricarunt (§ 7), poiché a ‛ fabricare ' può ben essere attribuito un significato attenuato, meno forte di ‛ creare ' (cfr. in particolare Cv I XI 12): si può al massimo ammettere che questa formula, oltre a suggerire l'attiva collaborazione di A. al dono divino, possa riflettere qualche perplessità concettuale da parte di D., la stessa per cui, come ha osservato acutamente il Terracini, " Quando in I IX 6 [D.] affronta il problema di questa lingua come creazione dell'uomo, e quindi variabile per natura, la lingua adamitica perfetta gli si para dinanzi come un'eccezione molesta che egli espone in via puramente parentetica [praeter illam homini primo concreatam a Deo]... quasi avvertendo che fra questa sua concezione umana del linguaggio, e la teoria della lingua adamitica residuata nell'ebraico vi è una certa latente contraddizione ".

Per altri problemi collegati, e per la diversa concezione della lingua adamitica di Pd XXVI, v. ANCORA EBRAICA, LINGUA; I; LINGUA (convenzionalità, mutevolezza, ecc.).

Bibl. - D. Guerri, Di alcuni versi dotti della D.C., città di Castello 1908, 85-114; P. Rotta, La filosofia del linguaggio nella Patristica e nella Scolastica, Torino 1909, passim e specialmente 197 ss.; F. D'Ovidio, L'ultimo volume dantesco, Roma 1926, 349-365, 414-418; ID., Studii sulla D.C., Napoli 1931, II, 311-324; D.A., De vulg. Eloq., a c. di A. Marigo, Firenze 19573,19-38; B. Nardi, D. e la cultura medievale, Bari 19492, 241-246; B. Terracini, Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze 1957, 238-243; A. Borst, Der Turmbau von Babel. Geschichte der Meinungen über Ursprung und Vielfalt der Sprachen und Völker, Stoccarda 1957-63, passim; R. Dragonetti, Aux frontières du langage poétique (Études sur D., Mallarmé, Valéry), Gand 1961 (" Romanica Gandensia " IX) 12-23.

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