Affresco

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1991)

Affresco

M. Cordaro

Deve intendersi per pittura a fresco, o più semplicemente a., un particolare tipo di pittura murale caratterizzato dalla stesura dei colori, generalmente di origine inorganica, stemperati unicamente in acqua, su un intonaco fresco composto da una carica inerte, sabbia di fiume nella gran parte dei casi, e da una soluzione acquosa di calce spenta (idrossido di calcio). Il legante della pittura a fresco è dunque costituito soltanto dalla calce dell'intonaco, o meglio dal suo processo di trasformazione in fase di essiccamento. A questo processo vien dato il nome di carbonatazione della calce: consiste nell'evaporazione dell'acqua contenuta nell'idrossido di calcio che, reagendo contemporaneamente con l'anidride carbonica contenuta nell'aria, si trasforma in carbonato di calcio, molto difficilmente solubile. I pigmenti stesi sull'intonaco risultano inglobati nel velo superficiale di cristallizzazione del carbonato di calcio, restando così fissati all'intonaco del quale diventano parte integrante e della cui consistenza e durata partecipano. Se questo è il principio basilare della pittura a fresco, numerose sono le varianti che nelle diverse epoche e aree culturali hanno caratterizzato la tecnica di esecuzione, in dipendenza delle singole visioni pittoriche e in rapporto a difficoltà di ordine pratico. Queste difficoltà sono causate soprattutto dalla necessità di una rapida stesura dei colori, prima che l'intonaco entri in fase di essiccamento, con minime possibilità di pentimenti e con la sicura predeterminazione del tono che il colore assumerà una volta asciugato.La pittura a fresco fu ben praticata nell'Antichità; per quello che riguarda l'area culturale romana, la tecnica di esecuzione è nota nei particolari più precisi attraverso le testimonianze di Vitruvio (De Arch., VII) e di Plinio (Nat. Hist., 31, 49; 33, 40; 35, 49) e ha peraltro trovato conferma puntuale nell'analisi delle pitture murali superstiti di Roma e di Pompei. Nelle decorazioni pittoriche catacombali si assiste a un procedimento semplificato della tecnica dell'a., con un numero inferiore di strati di intonaco preparatori, ridotti a due rispetto ai sei previsti da Vitruvio, e con la scomparsa della pratica della levigatura dell'intonaco superficiale, che sulle pareti dipinte delle catacombe appare scabro e irregolare. Tale semplificazione perdurò - in linea di massima e per quanto è a tutt'oggi noto - per i primi secoli del Medioevo, almeno fino al 10° secolo. Dai più importanti esempi pervenuti, quali le pitture di S. Maria Antiqua a Roma e di S. Maria foris portas a Castelseprio o i cicli decorativi di S. Giovanni a Müstair e della cripta di Saint-Germain ad Auxerre, si desume la persistenza della tradizione della tecnica dell'a., con riferimenti esecutivi alla maniera tardoantica: numero ridotto di strati preparatori, stesura degli intonaci a pontate, tracce di sinopia sull'arriccio con funzione preminente di spartizione degli spazi della decorazione, rari esempi di linee incise sull'intonaco fresco, riguardanti gli schemi geometrici della decorazione o particolari ornamentali, quali per es. le aureole. Ma non è da escludere che nello stesso periodo fosse diffusa anche la pratica di rifinire più o meno estesamente a secco le pitture murali. In questo caso è probabile che sull'intonaco fresco fossero stesi i colori dei toni di fondo e del disegno preparatorio, utilizzando poi per la campitura vera e propria e per la definizione del disegno e della decorazione colori stemperati in leganti organici oppure mescolati con idrossido di calcio più o meno diluito, applicati quando l'intonaco era già asciutto.

La continuità della pittura a fresco durante il Medioevo, come pure l'uso della c.d. pittura a calce, consistente nella mescolanza dell'idrossido di calcio come legante dei colori o nella stesura sull'intonaco asciutto di un velo di latte di calce, la cui carbonatazione approssimava, semplificandola, la tecnica dell'a. vero e proprio, è testimoniata dalle fonti tecniche. Nell'area culturale bizantina, i manuali pervenuti, nessuno anteriore alla fine del sec. 16° (Skovran, 1958), testimonianti però procedimenti più antichi, parlano chiaramente della pittura su muro con l'intonaco ancora fresco vantandone pregi e durata, come pure vi sono cenni espliciti all'uso di mescolare alcuni particolari pigmenti con la calce, pratica che doveva essere sicuramente diffusa nel mondo orientale. Negli stessi trattati si consiglia di impostare l'ultimo strato d'intonaco con l'aggiunta di paglia o di altri filamenti organici per favorirne l'elasticità; non si fa cenno di sinopia ma unicamente del modo di costruire sull'intonaco umido il disegno preparatorio (Dionisio da Furná, Ermeneutica della pittura, a cura di Donato Grasso, 1971, pp. 53-68). Perdurando nell'area bizantina la stesura degli intonaci a pontate, non mancano esempi di giornate di limitate estensioni, come quelle rilevate negli affreschi del sec. 13° che decorano le chiese di Morača e Studenica (Skovran, 1960). Un'interessante consuetudine, documentata sempre da Dionisio da Furná, era quella della levigatura dell'intonaco dopo la stesura del disegno preparatorio man mano che si cominciava a dipingere, di modo che la pressione portasse in superficie l'idrossido di calcio, aumentando la durata della umidità del muro e dunque del processo di carbonatazione. Tale consuetudine può essere interpretata con la stessa funzione che la stesura per giornate ebbe nell'a. del tardo Duecento (P. Mora, L. Mora, Philippot, 1977, p. 132). La pratica della pittura murale bizantina presupponeva una esecuzione rapida per larghe campiture cromatiche, poco variata negli schemi compositivi e legata a formulari ripetibili, come dimostra la diffusione presso gli artisti di album di disegni, noti almeno a partire dal sec. 12° (Lazarev, 1966, pp. 11-29).

Nell'Occidente romanico sono testimoniate tanto la pratica della pittura a fresco quanto l'uso di mescolare i colori con la calce, continuando i modi essenziali della pittura murale bizantina. Teofilo (sec. 12°), nell'unico capitolo del De diversis artibus dedicato all'argomento (De mixtura vestimentorum in muro, I, 15), parla chiaramente del bianco di calce per ottenere le lumeggiature (propter fulgorem) e del modo di dipingere su un muro già asciutto: "Cum imagines vel aliarum rerum effigies pertrauntur in muro sicco, statim aspergatur aqua tamdiu, donec omnino madidus sit. Et in eodem humore liniantur omnes colores qui superponendi sunt, qui omnes calce misceantur et cum ipso muro siccentur, ut haereant". Ma l'indicazione data da Teofilo, interpretata a volte in senso esclusivo, non è invece se non la descrizione di una variante per una pratica che rimaneva fondamentalmente quella dell'affresco.

Continuava ancora l'uso di libri di modelli, che rendeva scarsamente utile un attento e preciso disegno preparatorio dell'affresco. Interessante è il diffondersi di schemi geometrici antecedenti la stesura pittorica, con lo scopo sia di meglio accordare la spartizione degli spazi da decorare con le strutture architettoniche sia, all'interno dei singoli riquadri, di definire, con cerchi e triangoli, soprattutto, le figure e i loro vicendevoli rapporti formali (Demus, 1968, pp. 38-41). Più frequenti diventarono, a imitazione della coeva pittura su tavola, gli impieghi di elementi ornamentali a rilievo, quali aureole, corone, stelle, bordi di vesti.

I rapporti con la pittura su tavola divennero più evidenti nel corso del Duecento e del Trecento, soprattutto nei paesi dell'Europa occidentale e settentrionale. Si diffuse così l'uso della tempera su muro e anche dell'olio su muro. A quest'ultimo riguardo è da osservare che l'utilizzazione dell'olio in pittura è documentato a partire da Eraclio (sec. 8°) che nel De coloribus et artibus Romanorum lo menziona per la decorazione di lastre di pietra o di colonne a imitazione del marmo.

Nel sec. 12°, Pietro di Saint-Audemar (Liber Magistri Petri de Sancto Audemaro de coloribus faciendis) ricorda l'olio da mescolarsi con alcuni pigmenti che sono siccativi. Le più antiche e sicure memorie di pitture murali eseguite a olio possono farsi risalire alla camera del Re nel palazzo di Westminster (1274-1277) a Londra e alla decorazione della cattedrale di Ely (1325-1358) per la quale, si legge sui documenti, l'olio doveva servire pro coloribus temperandis (Eastlake, 1847). Il più noto esempio superstite di pittura murale a olio nel Medioevo è la decorazione della cappella del monastero di Santa Maria di Pedralbes in Catalogna, eseguita da Ferrer Bassa nel 1346.

L'uso più frequente della tempera e dell'olio nella pittura murale dei secc. 13° e 14°, il complicarsi e l'arricchirsi delle particolarità di definizione ornamentale, il riferirsi più sistematico ai modi e agli effetti più consueti nella pittura su tavola, indicano chiaramente un mutamento significativo nel rapporto tra sistema tecnico di decorazione murale e caratterizzazione di tipo stilistico-formale, con la ricerca conseguente di una nuova articolazione esecutiva nei procedimenti della pittura a fresco. Non è ovviamente un processo improvviso e immediato, ma suppone fasi e approssimazioni successive, come anche soluzioni diverse, come si è già considerato, rispetto alla pittura su intonaco fresco. L'esigenza comune a tutte queste linee di ricerca fu un'elaborazione più accurata e particolareggiata della stesura pittorica, che, abbandonata la pratica delle grandi campiture cromatiche definite per sovrapposizioni di toni e un disegno semplificato e rigido, tese a elaborare una nuova struttura d'immagine, qualificata da una più complessa articolazione spaziale e compositiva, da una individuazione più accurata dei rapporti volumetrici e plastici della figurazione, da uno sviluppo più deciso della costruzione lineare, non più intesa con il compito prevalente di limitare il campo cromatico particolare, ma con lo scopo più evidente di indicare passaggi di volumi, di movimento e di colori. Nell'a. queste esigenze comportavano l'uso sistematico e generalizzato della sinopia come fase di abbozzo complessivo dell'effetto decorativo e costruttivo ricercato; la stesura dell'intonaco ultimo, destinato a ricevere la pittura, non più per pontate ma per giornate, così da scegliere l'estensione del campo di lavoro giornaliero sull'intonaco fresco, considerando esclusivamente il grado di difficoltà e il modo di stesura che la parte dell'a. da eseguire richiedeva; una tecnica di esecuzione del disegno preparatorio sull'intonaco fresco particolareggiata e affidata prevalentemente all'incisione diretta; la possibilità di passare a secco e a tempera alcuni colori, come l'azzurrite o l'oltremare, e di definire a secco alcuni particolari della figurazione. L'introduzione sistematica di questi accorgimenti tecnici, che si produsse nell'Italia centrale nella seconda metà del Duecento per trovare nell'opera di Giotto e di Pietro Cavallini la sua applicazione più rigorosa, consente di rapportare con grande precisione il tempo di esecuzione della decorazione murale con il tempo della presa dell'intonaco fresco.

I minuti procedimenti dell'a. 'classico' sono noti, oltre che per le numerose e attente rilevazioni compiute direttamente sulle opere superstiti in occasione di interventi conservativi e di restauro, anche per la precisa descrizione contenuta nel Libro dell'arte di Cennini che, seppure databile al 1437, riflette con sicurezza esperienze e tecniche in uso nelle botteghe di pittori trecenteschi di stretta osservanza giottesca.

Dopo un primo pareggiamento delle irregolarità del muro, si stendeva un primo strato di intonaco, composto da due parti di sabbia e una di calce, chiamato arriccio a causa della qualità scabra e ruvida della sua superficie, così da consentire una più facile adesione del successivo strato. Sull'arriccio si effettuava la c.d. battitura dei fili, che, con l'aiuto del filo a piombo, determinava le verticali della spartizione dello spazio da decorare. Il filo, in tensione e intriso di colore stemperato in acqua, veniva battuto sull'arriccio fresco che prendeva il segno del colore, ma a volte anche l'impronta. Con un compasso si determinava l'ortogonale, ottenendo così la costruzione dei riquadri o delle altre zone da dipingere, in rapporto anche alle strutture architettoniche da decorare. Negli spazi ottenuti si tracciava con un carboncino il disegno della figurazione, che successivamente, dopo esser stato spolverato, veniva ripassato con un pennello intriso di terra rossa ('sinope') mescolata unicamente con acqua. Era la prima indicazione del risultato che si sarebbe voluto poi ottenere; il suo grado di precisione o di approssimazione variava a seconda degli artisti, delle tradizioni di bottega e della divisione dei compiti all'interno. Non è infrequente il caso che la traccia individuata con la sinopia fosse poi variata nel corso dell'esecuzione definitiva. A volte in presenza di un muro particolarmente regolare e in mancanza di arriccio la sinopia era tracciata direttamente sul muro, come accade per es. nella decorazione dell'abside, del transetto e della parte alta nella navata della basilica superiore di S. Francesco ad Assisi, opera di Cimabue e dei maestri romani. Conclusa la stesura della sinopia sulla superficie da affrescare, cominciando dall'alto e proseguendo verso il basso, si applicava il secondo strato di intonaco, ottenuto con un impasto di sabbia più fine e con calce nel rapporto 2:1, soprattutto se aveva uno spessore molto sottile, nell'estensione utile a ricevere la campitura cromatica definita prima che 'entrasse in tiro', iniziasse cioè il processo di essiccamento e di carbonatazione dell'idrossido di calcio. Dopo averlo accuratamente levigato, era ripetuta l'operazione di battitura dei fili ed era tracciato il disegno preparatorio (da non confondersi con la sinopia che si trova sull'arriccio e che dunque risulta parzialmente coperta dal secondo e definitivo strato di intonaco) con il pennello intriso di ocra gialla, più comunemente con l'incisione diretta sull'intonaco fresco, risultando riconoscibile in questo caso per i bordi perfettamente regolari, contrariamente a quanto sarebbe accaduto se fosse stata fatta su un intonaco asciutto. Nella seconda metà del Trecento cominciò ad affermarsi, specialmente per i motivi decorativi ripetibili, l'uso dello 'spolvero', un cartone forato lungo i bordi del disegno, che appoggiato all'intonaco veniva ripassato con un tampone di polvere di carbone, lasciando attraverso i fori la traccia sulla superficie da dipingere. Iniziava a questo punto la stesura pittorica vera e propria, compiuta sulla porzione di intonaco fresco che costituiva la giornata. Il modo di tale stesura, pur mostrando a volte delle costanti per epoca o scuola (per es. l'uso del 'verdaccio' come tono di base per gli incarnati), risulta vario e difforme a seconda delle diverse esigenze della costruzione d'immagine che suppone. Le tecniche di applicazione dei colori, benché si trovino spesso descritte minutamente nei trattati e nelle fonti antiche, "hanno avuto valore normativo soltanto per chi le ha trascritte sulla pagina, e tutt'al più per i suoi allievi diretti o garzoni di bottega" (Tecniche di esecuzione, 1978, p. 25). Più utile è indicare i dati tecnici del procedimento esecutivo. Nella pittura a fresco i pigmenti adoperati sono prevalentemente di natura inorganica (ocra gialla e rossa, terra di Siena naturale e terra di Siena bruciata, terra verde e terre d'ombra, bianco San Giovanni, ecc.); per alcuni colori, come il nero, si usavano sostanze organiche come il nero d'avorio o d'ossa, o il carbone di legna. Altri colori, pur essendo inorganici, mal sopportano l'alcalinità della calce e si alterano facilmente. Sono questi il bianco di piombo (biacca), l'orpimento, il cinabro, il minio, l'azzurrite e il lapislazzuli. Nel 'buon fresco' tali pigmenti erano sostituiti da altri meglio compatibili o dati a tempera, come accadeva per l'azzurrite e il lapislazzuli, sulla base di una preparazione a fresco di tono diverso, il rosso solitamente ma anche il grigio, a seconda della varia intensità che si voleva dare all'azzurro. In tal modo erano dipinti i cieli e le vesti o i manti. Spesso oggi, scomparsa la più debole stesura azzurra data a tempera, si mostra soltanto la preparazione grigia o rossa. Le parti rilevate, come per es. le aureole, erano dapprima segnate e delimitate, poi costruite usando la stessa malta che era servita per l'intonaco, infine modellate e decorate secondo l'occorrenza. La doratura prevalente nella decorazione ad a. prevedeva l'uso dell'oro in foglia sottilissima fatta aderire con una missione composta da una miscela oleoresinosa (secondo Cennini, olio di lino cotto, biacca, verderame e vernice), leggermente colorata così da rinforzare la trasparenza della foglia d'oro. Altrimenti, con materiale meno costoso, era utilizzata una lamina di stagno dorato.I dati fin qui descritti per caratterizzare i procedimenti esecutivi dell'a. sono gli stessi che servono ad assicurare, a una prima approssimazione visiva, la riconoscibilità dell'affresco. Pur nelle variazioni che sono state indicate, la presenza dei giunti delle pontate e delle giornate nell'intonaco, con il loro sovrapporsi che è indice dei tempi di esecuzione, l'impressione del filo e le incisioni dirette sull'intonaco fresco, le tracce di un eventuale spolvero, costituiscono caratteristiche essenziali della tecnica dell'a., "'l più dolce e 'l più vago lavorare che sia", secondo Cennini.

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